Tachipirina, allarme dall’Inghilterra: “Effetti collaterali mortali”

Uno studio d’oltre Manica pone l’accento sui rischi del paracetamolo per cuore, reni e intestino

– Mar, 03/03/2015 – 12:39

Prima l’aspirina, ora la tachipirina. L’allarme arriva sempre dall’Inghilterra: tempo fa uno studio condannava l’abuso dell’acido acetilsalicilico – responsabile della morte di centinaia di persone l’anno nel Regno Unito – e oggi una ricerca punta il dito contro il paracetamolo.

Tanti i suoi effetti collaterali a lungo termine e troppi pochi gli avvertimenti sui possibili rischi del farmaco.

Cuore, intestino e reni – secondo le analisi condotte dagli scienziati – le vittime del’antidolorifico. Chi ne fa uso regolarmente da anni rischia seriamente di compromettere tali organi vitali. Non che il farmaco non sia sicuro, ma un (ab)uso reiterato nel tempo può provocare seri e fatali problemi cardiovascolari, gastrointestinali e renali, denunciano i ricercatori, dopo aver vagliato i dati di precedenti studi su circa 660mila pazienti. E i numeri sono preoccupanti: i “paracetamolo addicted” presentano il 63% in più di possibilità di morire, il 68% in più di avere un infarto o un ictus e il 50% in più di contrarre accusare emorragie o ulcere allo stomaco.

Autore dello studio – pubblicato, peraltro, sul British Medical Journal – è un team del Leeds Institute of Rheumatic and Musculoskeletal Medicine, coordinato dal professor Philip Conaghan, che spiega: “Crediamo che il rischio del paracetamolo sia più elevato di quanto sia invece percepito dalla comunità scientifica. Visti sia il largo utilizzo che la grande disponibilità come analgesico da banco, è auspicabile un’approfondita verifica dei suoi effetti”. Inoltre, gli esperti mettono in dubbio anche gli effettivi benefici dell’antidolorifico, tradizionalmente prescritto in terapie contro il dolore cronico lombare e da osteoartrite.

Arriva da Siena la speranza contro il “tumore da amianto”

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L’amianto è un nemico che l’Italia ha imparato a conoscere troppo tardi, quando ormai fabbriche e case ne erano piene. Non sono pochi, purtroppo, i casi di inquinamento da amianto sparsi per tutto il territorio nazionale, alcuni saliti agli onori della cronaca altri ancora sconosciuti. Le polveri di amianto, se respirate a lungo e senza protezione, attaccano i polmoni e causano uno dei tumori più aggressivi al mondo: il Mesotelioma Pleurico.
La bonifica dei luoghi inquinati, anche se necessaria e dovuta, non porta alcun beneficio in chi è già ammalato, ma la ricerca potrebbe e a Siena si sta forse per arrivare a una possibile speranza di cura per questo tipo di tumore in particolare. E’ quanto emerge da due studi che hanno coinvolto non solo i ricercatori senesi ma anche quelli dell’Istituto Tumori di Napoli-CRom e della Temple University di Philadelphia, coordinati dal genetista italiano Antonio Giordano. Gli studi, dopo averci ricordato che cosa è il Mesotelioma Pleurico (“tumore che ha origine dalla trasformazione neoplastica del mesotelio, il sottile tessuto che avvolge la cavita’ pleurica e altri organi interni“) ci ricorda che esso non si manifesta nell’immediato ma anche dopo dieci o venti anni dall’esposizione all’amianto.
Infine, i ricercatori descrivono il lavoro fatto, ovvero dei test sull’effetto di nuovi agenti antitumorali su cellule di Mesotelioma, in particolare tramite un farmaco che riattiva la proteina onco-soppressore P53, senza la quale i tumori si diffondono rapidamente nell’organismo. Il farmaco si chiama MK-1775 e, in combinazione con il Cisplatino, permetterebbe di trattare il Mesotelioma riducendone l’aggressività e forse permettendone anche una guarigione, o comunque una tolleranza prolungata da parte del corpo. Sarebbe già un grande risultato se si potesse anche solo tramutare una malattia del genere in disturbo cronico, ovvero duraturo ma trattabile. Le prospettive ci sono e gli studi sono in corso per raggiungere al più presto l’obiettivo.
http://benessere.guidone.it/2014/01/11/arriva-da-siena-la-speranza-contro-il-tumore-da-amianto/

Ticket sanitario, aumento in vista. Il governo cerca di bloccare un salasso da 350 € a famiglia La scatto è previsto dal 2014 e per scongiurarlo sono necessari 2 miliardi. E c’è chi propone di prenderli dalle lotterie

Pubblicato il 29/05/13 in Tasse| TAGS: ticketssnspese medichesalutesaccomanni
 
 
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aumento ticketFonte: Dreamstime
UN SERVIZIO DELLE IENE 

iene 3Sanità pubblica vs sanità privata

Quale delle due costerà meno?

DICHIARAZIONE DEI REDDITI 

detrazione spese medicheSpese mediche detraibili: quali e come

Tutte spese che possono essere detratte dall’Irpef. Quali sono e come si calcolano

Non basta superare illesi l’agguato dell’Iva al 22%, l’Imu nelle sue ultime mutazioni, la nuova minaccia della Tares o la Ics, l’imposta misteriosa che le mangerà tutte sostituendosi ad esse. Agennaio si passa al “next level” nella partita tracittadini e fisco. Dal 2014 dovrebbe scattare infatti l’aumento del ticket sanitario con un impatto stimato di circa 350 euro in più per ogni cittadino non esente.

Fortunatamente possiamo ancora usare il condizionale. Il governo sta infatti cercando dibloccare l’aumento ma per farlo occorre recuperare 2 miliardi di euro, che dovrebbero arrivare dal risparmio sulla spesa sanitaria dell’anno scorso. A scendere in campo a difesa del contribuente tartassato in questo caso ci sono il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e quello della Salute, Beatrice Lorenzin, che stanno lavorando insieme sulle soluzioni alternative.

Il ticket è un terno al lotto

Intanto fioccano le proposte per la copertura dello stop all’aumento. C’è chi pensa di puntare sulle lotterie, che ultimamente sono diventate unsalvagente finanziario richiestissimo. “Da un lato si evita di accrescere i ticket sanitari per le persone che hanno bisogno di cure; dall’altro si intacca la ludopatia che a sua volta genera una forte spesa sanitaria per il paese”, dichiara al sito ilvelino.it Nerina Dirindin, senatrice Pd e prima firmataria di un’interpellanza sul tema.

Prestazioni a pagamento a volte più convenienti del ticket

Sono in molti a scagliarsi contro questo ennesimo aggravio sui bilanci delle famiglie. “Abbiamo detto al Governo che introdurre ticket per due miliardi per noi è insostenibile” ha dichiarato il presidente della Regione Emilia Romagna nonché della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani.

Giudizio drastico anche dalle associazioni dei consumatori. “Nuove riduzioni delle risorse del Ssn non sono sostenibili – denuncia una nota di Federconsumatori – e le famiglie non possono permettersi di far fronte ad ulteriori spese. Consideriamo, inoltre, che in seguito ai recenti aumenti dei costi dei servizi sanitari molte prestazioni risultano, paradossalmente, più convenienti nelle strutture private“. Alessandro Mostaccio, segretario generale del Movimento Consumatori conferma: “il 20% delle prestazioni erogate, tra ticket e addizionale di 10 euro, conviene ormai farlo a pagamento“. (A.D.M.)

Farmaci, bollino nero su 105 medicinali

Salute, da Ottobre bollino nero su alcune medicine, leggere il foglietto illustrativo

Salute:  da Ottobre su 105 farmaci vi sarà una sorta di bollino nero, ovvero un triangolino nero rovesciato, che indicherà i medicinali da tenere sott’occhio per possibili reazioni anomale. Questa iniziativa  è stata presa dall’Ema (Agenzia europea medicinali) per garantire un ulteriore garanzia per un gruppo di farmaci che sono sorvegliati. L’Agenzia europea dei farmaci (Ema), per ora ne ha individuati 105. L’obbligo di riportare questo bollino nero nel foglietto illustrativo scatterà dal prossimo Autunno. Sarà utile quindi leggere con attenzione  il foglietto illustrativo.

Farmaci su 105 bollino nero

Farmaci su 105 bollino nero

Smettere di fumare allunga la vita di dieci anni Le donne che smettono di fumare guadagnano 10 anni di vita: pubblicati i risultati della ricerca “Million Women”

Sono stati resi noti i risultati di una delle più grandiricerche scientifiche in tema di effetti del fumo sulla salute: le conclusioni dello studio sono a dir poco sorprendenti e rafforzano ancor di più le convinzioni sugli effetti deleteri del fumo che derivano da numerose ricerche precedenti, ma pongono anche l’attenzione sulla possibilità di ridurre i rischismettendo di fumare.

Lo studio è stato condotto esclusivamente su un campione di donne: dal 1996 al 2001 ne sono state monitorate ben 1,3 milioni, dai 50 ai 65 anni di età. Le partecipanti allo studio, denominato “Million Women”, erano per il 20% fumatrici, per il 28% ex-fumatrici e per il restante 52% non fumatrici. La pubblicazione sulla rivista “Lancet” è avvenuta in occasione del centesimo anniversario della nascita di Sir Richard Doll, lo studioso che ha identificato per primo il legame tra cancro del polmone e vizio del fumo.

Ed ecco i risultati dello studio: 

– Chi smette di fumare intorno ai 30 anni diminuisce del 97% il rischio di morte prematura
– Chi smette verso i 40 anni dimezza la mortalità
– Le fumatrici sono 3 volte più a rischio di vita delle non fumatrici e i due terzi delle morti del totale dei fumatori dai 50 ai 70 anni sono dovute a patologie derivanti dal fumo.
– I rischi salgono in proporzione al numero di sigarette fumate, ma anche chi fuma una sola sigaretta al giorno ha un tasso di mortalità doppio rispetto ai non fumatori.
– I fumatori che smettono prima di arrivare a metà della loro vita guadagnano in media 10 anni in più.

Gli studiosi ipotizzano che i risultati potrebbero essere validi anche per gli uomini, ma per ora il modello è valido solo per le donne, visto che la ricerca ha preso in considerazione solo un campione di sesso femminile. Dunque le donne non hanno scuse: è proprio ora di rinunciare alla sigaretta.

http://donne.virgilio.it/benessere/salute-in-pratica/smettere-di-fumare-allunga-vita-di-dieci-anni.html

Salute: Veronesi, contro stili di vita errati meglio educazione che divieti

Roma, 28 ago. (Adnkronos) – Si dice “favorevole alla educazione dei cittadini in fatto di salute piuttosto che alla repressione”, l’oncologo ed ex ministro della Salute Umberto Veronesi commentando, in una intervista a ‘Il Messaggero’, i contenuti della bozza di ‘decretone’ su salute e sanità che tocca anche i consumi di tabacco e bibite gassate e il gioco d’azzardo, in materia di stili di vita.

“Alla lotta contro il fumo va data la massima priorità, Però sono contrario ad ogni forma di proibizionismo” che “ha dimostrato di non essere uno strumento efficace”, esemplifica Veronesi, dicendosi “favorevole all’approccio educativo-infomativo”. Quanto alle benvande gassate, “come l’acqua minerale, non sono dannose. Su quelle zuccherate sono incerto. Da un lato mi rendo conto che la misura potrebbe ridurre il problema dell’obesità. Ma dall’altra sono cosciente che si tratta di una forma sottilmente coercitiva, che non è parte della mia cultura”.

“Sono convinto che la salute sia un diritto e non un dovere: Credo che lo Stato debba svolgere al massimo la sua funzione di educazione alla salute, informazione e prevenzione”, sottolinea Veronesi, per il quale “il cittadino va prima di tutto reso consapevole dei suoi comportamenti e delle sue scelte di salute per poter esercitare il suo diritto di autodeterminazione”.

AMBIENTE E SALUTE Veleni e tumori, libro bianco di Giordano e Tarro

Dossier choc dell’istituto Pascale: a Napoli s’ammala di cancro il 47 per cento in più della popolazione rispetto al resto d’Italia. Un dato è impressionante ma non nuovo. Gli studiosi Antonio Giordano e Giulio Tarro lanciano l’allarme da anni. Denunce cadute nel vuoto.
Oggi, i loro studi, le indagini scientifiche, la raccolta di decine di pareri qualificati, diventano un libro bianco dal titolo “Campania, terra di veleni” che il Denaro pubblica in esclusiva.
Il testo è già disponibile in versione e-book e prenotabile in versione cartacea. Tutte le informazioni sono su denaro.it
“Avevo solo 15 anni – avverte Giordano – quando nel 1977 mio padre Giovan Giacomo, professore, primario anatomo patologo dell’Istituto per lo Studio e la Cura dei Tumori Pascale, pubblicava un libro bianco dal titolo: ‘Salute e ambiente in Campania’, edito dal Centro Studi di Politica Economica e Sociale Nuovo Mezzogiorno, nel quale denunciava la presenza di aree ad alto rischio tumori nella città di Napoli. Precorrendo i tempi, mio padre, coordinando un’equipe di studiosi napoletani, tracciava una mappa della nocività nella provincia di Napoli, evidenziando come la popolazione napoletana corresse maggiori rischi di ammalarsi nelle zone più industrializzate della città partenopea”.
Dopo 35 anni, Antonio Giordano, figlio dell’illustre anatomo patologo Giovan Giacomo, da ordinario di Anatomia & Istologia Patologica presso l’università di Siena e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadelphia (Usa) insieme a Giulio Tarro, virologo e primario emerito dell’Azienda ospedaliera Cotugno di Napoli, chairman della commissione sulle Biotecnologie della Virosfera, Wabt – Unesco a Parigi, è autore di questo nuovo libro bianco che affronta le tematiche legate alla salute in Campania. Un libro che accende i riflettori anche sulle indagini epidemiologiche disponibili che mostrano quanto il territorio campano sia stato danneggiato dal dramma, di nuovo attuale, dei rifiuti. In vent’anni la morte per tumori in Italia e’ diminuita tra il 12 e il 15 per cento grazie alla prevenzione e miglioramento dlee cure. Per gli uomini la diminuzione è da 350 a 300 casi per 100 mila abitanti, per le donne da 220 a 200 casi per 100 abitanti. Nella zona rossa tra Napoli e Caserta è tutto in controtendenza: 400 casi per gli uomini e oltre 200 per le donne per ogni 100.000 abitanti.
Un’incidenza nettamente superiore anche alle altre province campane dove i tassi sono stabili e inferiori al dato nazionale. In totale 25 Comuni, circa 700 mila abitanti nella provincia di Napoli e 300 mila nel Casertano, in una zona fortemente degradata dal punto di vista ambientale.

 

Il dossier del Pascale

Settanta chilometri di terre, tra Napoli e Caserta, che fin dai dagli antichi romani producevano ogni genere di delizia. Oggi, invece, le statistiche sulle morti per cancro dell’Istituto contro la lotta ai tumori Pascale di Napoli raccontano tutta un’altra storia. La storia di un territorio che, spiegano gli esperti, nel giro di vent’anni, dal 1988 al 2008, probabilmente ha fatto impennare i decessi in 25 Comuni di quelle zone anche del 20 per cento, del 30 per cento e anche dell’80 per cento. Quella che gli esperti considerano la zona rossa si estende al Vesuviano a ridosso del Sarno al Casertano a ridosso del Volturno. La comunità scientifica non si sbilancia. Secondo le ipotesi del responsabile epidemiologia del Pascale, Maurizio Montella, che ha condotto lo studio elaborando dati Istat, una spiegazione potrebbe essere l’inquinamento prolungato delle matrici ambientali. “’Questa ipotesi spiegherebbe anche gli altri 4 Comuni fuori dalla zona rossa, a ridosso di Sarno e Volturno, i più inquinati d’Europa”. Ecco i dati Il linfoma non-Hodgkin è aumentato per gli uomini del 44% nella provincia di Napoli e del 58% nella provincia di Caserta, nelle donne del 79% nella provincia di Napoli e oltre il 100% in quella di Caserta. Per il mieloma gli aumenti vanno dal 40% a oltre il 100%. ”Sono tumori rari – spiega Montella -, sono quelli che vengono monitorati quando ci sono problemi con le centrali nucleari’”. Aumentano anche le morti per tumori al colon retto (+30%), dei dotti biliari (+50%), del pancreas (70%), del polmone (+30%), nonché dello stomaco (in Italia la media è -50%, tra Napoli e Caserta gli aumenti sono tra il 3% e il 10%), dei tessuti molli e della mammella. Leggera diminuzione per i tumori alla laringe e all’utero. ‘Il veicolo potrebbe essere l’acqua, non tanto quella potabile, ma quella dei fiumi e quella usata per le irrigazioni. Un inquinamento non massivo, ma prolungato e cronico, lento nel tempo.

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Il tempo è galantuomo, disse l’amianto all’uranio

Era da un po che non scrivevo di agricoltura; curioso per uno che ha imparato prima a tirar su una pianta che a usare una bicicletta. In questi giorni mi è capitato di discutere con alcuni sostenitori delle colture geneticamente modificate, gli ogm. Questo è un tema spinoso, pieno di risvolti imprevedibili. Dunque i mitici ogm: chi sono costoro? Secondo l’enciclopedia sarebbero organismi in cui parte del genoma sia stato modificato tramite le tecniche dell’ingegneria genetica; intendendo l’inserimento o la rimozione di geni dal DNA oggetto dell’esperimento. C’è dentro di tutto, dal pesce fluorescente al batterio che produce l’insulina. Cose futili e cose utili, insomma. Esistono anche leggende metropolitane simpaticissime, come quella che riguarda i “pomodori antigelo”; che si suppone siano resistenti al freddo grazie ai geni di un pesce che vive in acque fredde. Non è mai accaduto,come spiegato qui; tentarono invero di realizzarli, ma non funzionò. E non fu quindi altro che un esperimento fallito. Anche la “fragola con la lisca” condivide sorte simile: è un ogm che non è mai esistito in commercio; eppure è divenuta un’icona.

Ma in agricoltura cosa si usa effettivamente? Quali sono le cultivar ogm reali che hanno avuto successo? Per farsi una idea c’è uno stringato elenco sempre in enciclopedia, che almeno ne indica le tipologie. Si tratterebbe di alcune decine di varietà, come ricordatoanche qui, per gran parte cereali e leguminose. A dominare la scena sono mais, colza, soia, cotone e riso. Cosa fanno queste piante di differente dalle altre? Nell’elenco della wiki sono indicate alcune capacità di resistere a malattie fungine e virosi; ma se guardate bene, metà delle caselle riporta il carattere di “resistenza a erbicida”. E’ questa la caratteristica davvero importante che accomuna le granaglie ingegnerizzate più diffuse.

Come mai si parla tanto di piante resistenti alla siccità, alle malattie o magari capaci di vivere in ambienti poveri di nutrienti e poi, all’atto pratico, le varietà che possiamo acquistare oggi sono essenzialmente resistenti a prodotti chimici usati per eliminare piante infestanti? Beh, una ragione esiste ed è di ordine pratico: una azienda che sviluppa una varietà di pianta – ogm o meno – commerciabile deve recuperare i costi di ricerca. I poveretti che abitano nazioni povere, prive di suoli fertili e d’acqua, non hanno ovviamente il becco di un quattrino in tasca. Inevitabilmente le aziende del comparto sementi dovranno quindi rivolgere le proprie attenzioni agli agricoltori di paesi più ricchi, capaci di spendere qualche soldo in più. Oltre a questa ovvietà, dovremmo ricordare che gli erbicidi prima o poi divengono accessibili a chiunque: i brevetti scadono. Il caso più famoso e chiacchierato è quello del glifosato, il cui brevetto scadeva, se non ricordo male, nel 2000 / 2001. La Monsanto, non potendo più ottenere introiti adeguati in assenza dell’esclusiva garantita dal brevetto, risolse il problema dedicandosi alla creazione di piante coltivabili resistenti all’erbicida. Ed ecco superato il problema: era quindi possibile applicare un nuovo brevetto ai semi delle piante ogm con questa particolare resistenza, e recuperarne una attività economicamente vantaggiosa. Rendendo tra l’altro più efficaci ed economici i trattamenti, dato che l’applicazione dell’erbicida a coltura già avviata riesce a distruggere le infestanti in maniera più incisiva, almeno in confronto al diserbo presemina praticato in precedenza.

Ma quale può essere il problema con questi organismi – e relate tecniche colturali? Fondamentalmente più o meno la stessa tipologia di problemi che incontriamo con la chimica tradizionalmente intesa, e con l’agricoltura in senso lato. Ogni qual volta creiamo o modifichiamo una sostanza o un organismo, per poi immetterli nell’ambiente e nelle catene alimentari, dobbiamo verificare quali siano i possibili effetti negativi sull’ambiente stesso, sull’agricoltura e sugli esseri umani. E qui entra in gioco un fattore che è tanto determinante quanto allegramente ignorato in molte analisi di rischio: il fattore tempo.

I rischi connessi ad un nuovo intervento, infatti, non sono tutti uguali. Nel caso di una sostanza chimica di solito il primo problema che incontriamo è la sua eventuale tossicità acuta: se mi bevo tanto metanolo, rischio di perdere la vista e di morire. Questi effetti non sono difficili da osservare, dato che li vediamo arrivare in maniera velocissima. E ovviamente tutti conosciamo questo problema: non è difficile stabilire un legame deterministico tra l’avvelenamento da metanolo ed i danni subiti. Ci può riuscire chiunque.

Esiste però anche un modo differente di manifestarsi per i rischi sanitari ed ambientali connessi alle sostanze chimiche: il danno cumulato o differito nel tempo. Se passi le tue giornate in un ambiente che ti espone, che so, a vapori di mercurio di certo non muori. Vivrai a lungo. Solo che dopo un po di tempo – parecchi anni – cominci ad accusare dei problemi gravi: diventi matto, come il Cappellaio di Carroll; o ti ammali gravemente, come tanti minatori sudamericani che usavano il mercurio per estrarre oro con la tecnica dell’amalgama. Vedere le simpatiche opzioni disponibili. Attenzione però: questi danni sono sì gravi, ma non correlabili ad una esposizione circoscritta; e richiedono molto tempo – a volte due o tre decenni – per manifestarsi pienamente. Eppure alla fine presentano il conto, e salato.

In questa maniera possiamo ben capire come fanno gli esseri umani a commettere errori di valutazione così marchiani: vivono il rischio chimico / biologico / nucleare come se il problema fosse esclusivamente confinato agli effetti acuti dello stesso. E sovente ignorano gli effetti delle esposizioni prolungate e relative patologie croniche. In questo modo riescono a sviluppare continuamente nuove applicazioni, più o meno interessanti, che si rivelano estremamente dannose per la salute e l’ambiente dopo alcuni decenni: decenni, non anni. Nessuna meraviglia in ciò: i danni cronici e differiti nel tempo richiedono per definizione tempi estesi per manifestarsi.

Quali sono le tempistiche di questi eventi? Può valere la pena di osservare qualche esempio. Il primo e più banale che mi viene in mente è l’impiego di radionuclidi e radioattività. Le indagini sul tema divengono sistematiche negli ultimissimi anni dell’800, grazie a personaggi come Becquerel e Curie. Per trovare applicazioni pratiche dobbiamo però giungere agli anni della Seconda Guerra, con la realizzazione di reattori nucleari destinati alla produzione di plutonio; e ovviamente le famose bombe lanciate sul Giappone. Negli anni ’50 inizia a diffondersi la disciplina della medicina nucleare, che a livello di idea andava sviluppandosi da molti anni. L’espansione definitiva dell’impiego di sostanze radioattive si avrà a partire dal periodo 1954 – 1956, con la nascita dei moderni reattori nucleari di potenza. Negli anni seguenti, un crescendo travolgente di applicazioni ed impianti.

Il cambiamento di prospettiva nel campo dell’impiego di radioattività è iniziato in maniera graduale; già durante gli anni ’70 ci si cominciava a porre seriamente la questione delle implicazioni sanitarie. In verità più sotto l’effetto psicologico della minaccia delle armi contenute negli arsenali. La svolta arriverà con il celebrato incidente di Chernobyl, nel 1986. I recenti eventi occorsi nell’impianto giapponese di Fukushima Dai-ichi hanno solo ribadito la dimensione del problema. In pratica, sono occorsi almeno 30 – 35 anni dal momento in cui le applicazioni tecniche sono divenute importanti per veder mettere in discussione la bontà delle scelte fatte. E la discussione è ancora in corso, in mezzo ad un mare di polemiche; ad almeno sessant’anni di distanza. Il fatto che, ad esempio, Ucraina e Bielorussia spendano per le conseguenze dell’incidente qualcosa come un 5 – 7 % del bilancio pubblico dice parecchio; e giustifica le liti attorno alla conta delle vittime. Sono trascorsi decenni ed i malati sono tanti; anche a causa delle emissioni diffuse, che avvengono dappertutto, lontano dai riflettori. Eppure ancora nessuno pare voler affrontare la questione.

Altra storia: l’amianto. Era una fibra naturale, ottenuta da rocce basiche alterate; è stata una risorsa abbondante anche in Italia. La sua tossicità, intesa come capacità di causare malattie croniche e tumori, era nota già all’inizio del XX secolo. Bisogna però ricordare che l’impiego dell’amianto come isolante leggero si era sviluppato prepotentemente in Inghilterra per tutto l’800. Se prendiamo il caso particolare del cemento – amianto, chiamato anche eternit, possiamo considerare che l’avventura industriale abbia avuto inizio nei primi anni del ’900; curiosamente all’epoca la pericolosità del minerale era già nota. La diffusione di questi manufatti in fibrocemento diviene massiva negli anni ’30, e prosegue nel dopoguerra. La produzione terminerà solo nei primi anni ’90. La tempistica che ha permesso di passare dall’euforia iniziale al riconoscimento della pericolosità del materiale è variabile; a luoghi l’amianto è ancor oggi tranquillamente utilizzato. Per il caso inglese della fibra isolante c’è voluto un secolo o poco meno; nel caso dell’eternit nostrano sono bastati 60 – 70 anni per una messa al bando.

Nella pratica, che si parli di uranio o di asbesto, il riconoscimento della pericolosità di queste applicazioni industriali ha richiesto tempi molto lunghi. Nel caso dell’amianto incluso nel fibrocemento abbiamo già risultati conclusivi: da applicazione pionieristica a rifiuto letale da rimuovere in una settantina di anni. Nel caso dell’energia elettronucleare il cammino non è concluso, dato che ancora non abbiamo tra le mani il problema dello smantellamento degli impianti in essere. E sono passati 60 anni. Pare di scorgere alcune similitudini in queste vicende: l’euforia iniziale per le nuove applicazioni tecniche prosegue indisturbata per decenni, con successi del tutto evidenti a proprio favore. Nel frattempo gli eventuali danni alla salute ed all’ambiente cominciano a prepararsi, ma con lentezza; basti pensare al fatto che l’amianto attende anche trent’anni per uccidere le proprie vittime. Questo significa che una nuova applicazione tecnica può svilupparsi indisturbata per decenni, anche se avrà ricadute distruttive sulla salute e sull’ambiente; è una questione di tempistica.

E così, a partire dal 1996 abbiamo cominciato a commerciare organismi ogm, li abbiamo diffusi su milioni di ettari di terreno. Nel 2010 quasi 160 mln di ha, che sarebbe poi più di cinque volte la superficie totale dell’Italia. Ed abbiamo reso assolutamente comuni pratiche di allegro impiego di erbicidi a pieno campo, intendendoli come sostituto di ogni altro intervento di contenimento delle malerbe. Oggigiorno queste colture sono diffuse ed importanti, in specie nelle Americhe. Sta andando tutto bene? Beh, non proprio. Nel caso del glifosato la resistenza è ormai diffusa, le erbacce si stanno evolvendo: vedere qui, oppure qui; per una analisi italiana c’è questo. Interessante anche questo articolo, su Nature; che segnala che “….Sagers and her team found two varieties of transgenic canola in the wild — one modified to be resistant to Monsanto’s Roundup herbicide (glyphosate), and one resistant to Bayer Crop Science’s Liberty herbicide (gluphosinate). They also found some plants that were resistant to both herbicides, showing that the different GM plants had bred to produce a plant with a new trait that did not exist anywhere else…”. Le piante ingegnerizzate scappano dalla gabbia, si riproducono, si incrociano, si diffondono, divengono a loro volta infestanti. No, non lo dicono i talebani di Greenpeace: lo dicono tecnici qualificati. Quando la vicenda delle resistenze giunge sulle pagine del WSJ, allora è seria. Le strategie proposte per ora sono intuibili: passare ad altre sostanze, peraltro già note e probabilmente passibili di veder nascere velocemente infestanti resistenti; oppure rivedere il modo di coltivare in varia maniera. O ancora usare mix ed alternanze di sostanze.

C’è un’altra faccenda sul tavolo, che è l’impiego degli erbicidi a man bassa in se stessi, al di là del binomio con gli ogm. Ci sono già in circolazione studi che analizzano i residui degli stessi nelle acque e nella pioggia, tipo questo. O anche questo rapporto dell’USGS. Ovviamente esiste pure il problemi dei residui nel cibo: la presenza di queste sostanze decade esponenzialmente, ma logicamente non si azzera. Tutte queste faccende potrebbero acquisire rilevanza man mano che si diffondono fenomeni di resistenza agli erbicidi: diventa forte la tentazione di aumentare le dosi.

Ora a qualcuno verrà da dire che i problemi che stanno emergendo ci costringeranno a cambiare strada in maniera drastica; qualcun altro dirà invece che possiamo risolvere ogni inconveniente con nuove piante e nuove sostanze chimiche. E poi, invariabilmente, si continueranno ad accendere dispute attorno alla pericolosità reale o presunta di un organismo o di una molecola. Quello che manca, e che mancherà a lungo in molte discussioni, è la percezione dell’importanza dell’orizzonte temporale. Le nostre pregresse avventure con contaminazioni estensive hanno dimostrato che i danni dovuti a malattie croniche e degenerative si mostrano dopo 20 o 30 anni; e che i problemi correlati divengono gravi e diffusi con ulteriore ritardo. Stessa logica per i danni al suolo ed agli ecosistemi: per manifestarsi richiedono tempi lunghi.

L’avventura delle sementi biotech è iniziata l’altro ieri, e non è poi così importante sapere che alcune di esse sono in difficoltà dopo appena un decennio di impiego realmente estensivo. Quel che conta davvero è che non è ancora passato tempo a sufficienza per poter cominciare a ragionare sugli effetti cronici dell’immissione nell’ambiente di nuove piante e sostanze in quantità così massicce. Gli effetti di lungo termine su suoli, rese agricole e salute ancora non possiamo misurarli, non c’è modo di farlo; non sono effetti acuti, ma semmai cronici. Ed è cosa ben diversa. Possiamo comunque attendere, che so, un paio di decenni: il tempo è galantuomo, e riuscirà come sempre a chiarirci le idee.

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