Il caregiver

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo […]
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza […]
Ti salverò da ogni malinconia
Perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te
Io sì, che avrò cura di te

(“La cura” di Franco Battiato)

Caregiver, è un termine inglese che indica coloro che si occupano di offrire cure ed assistenza ad un’altra persona. I caregiver possono essere familiari, amici o persone con ruoli diversi, che variano a seconda delle necessità dell’assistito.

In Italia il termine è sconosciuto alla lingua. Infatti, la responsabilità di aiutare un membro della famiglia con cancro o altre malattie è insito nel proprio ruolo familiare. Se l’assenza di un vocabolo per indicare una persona che offre assistenza a un’altra può risultare significativo, alcuni potrebbero obiettare che il non dare un nome a un ruolo così importante potrebbe isolare e far passare sotto silenzio molti caregiver che si prendono cura di malati oncologici privi di riconoscimento, assistenza e sostengo.


Nel momento in cui uno specialista ha il delicato compito di comunicare una diagnosi di cancro a una sua paziente, nella maggioranza dei casi, sentimenti di dolorosa rabbia, di soprafazione e vuoto prendono il sopravvento.
Questa complessità, data da una situazione drammatica, influisce non di rado soprattutto sui familiari, che vivono la disperazione e percepiscono, come non mai, il loro essere impotenti davanti a un destino che si presenta incerto e fuor di dubbio angosciante.

La figura del caregiver non va in alcun modo sottovalutata, perché se investita da sentimenti eccessivi di inadeguatezza, invece di risultare una risorsa per la donna malata, può finire col rappresentare un ulteriore aggravante in un contesto di per sé già difficile. Le persone colpite da una forma tumorale sono, infatti, costrette a confrontarsi con un tipo di patologia il cui andamento è fra i più difficili da sostenere, sia a livello fisico che psichico, ed è per questo, che l’apporto di uno o più familiari, può rivelarsi fondamentale per affrontare e rendere più sopportabili quei momenti in cui, sul malato, lo sconforto prenderà per forza di cose il sopravvento.

Comune denominatore tra le pazienti oncologiche, è proprio l’estremo bisogno di una vicinanza emotiva, che nella gran parte delle situazioni viene reclamata attraverso una costante richiesta di presenza, che solo in casi isolati, viene paradossalmente mascherata con quello che risulta essere un apparente ed inspiegabile isolamento. In realtà, per il malato poter continuare a sentirsi parte integrante del nucleo familiare, mantenere una comunicazione sincera, che non sfoci mai nel pietismo, rappresenta il punto di partenza per opporsi con forza ad un destino che appare crudele, ma che non è da escludere, non possa essere cambiato.

I familiari devono aver ben chiaro il concetto che la malattia non si combatte per mezzo della compassione, “utile” solo a creare un senso di amarezza ed inidoneità a chi invece ha bisogno, più di ogni altra cosa, di continuare a credere e sperare di poter vincere su tutto e soprattutto, su ciò che al momento pare essere invincibile.

L’intervento psico-sociale quindi, deve vertere anche sulla valutazione delle risorse e dei limiti del nucleo familiare, che va aiutato al fine di riconoscere e gestire al meglio le problematiche correlate alla malattia. L’obiettivo principale è quello di prendersi cura dell a paziente senza farle perdere la considerazione che ha di sé stessa e in particolare, mantenendo intatta la sua dignità di individuo, perché solo così facendo, si potrà migliorare la qualità della sua vita pesantemente minata dalla malattia stessa.

Da sottolineare, che il gruppo familiare e il caregiver possono avere un ruolo decisivo oltre che per favorire l’elaborazione delle sue preoccupazioni, anche per facilitare la sua capacità di sostenere il traumatico percorso terapeutico che lo attende.

Si tratta spesso di un carico oneroso che può avere conseguenze importanti da un punto di vista fisico e psicologico. In alcune situazioni i compiti di assistenza possono essere tanto impegnativi o totalizzanti da far sì che il ruolo di caregiver diventi il modo principale con il quale relazionarsi con la persona malata e questo può avere conseguenze negative sulle persone coinvolte. 

Per esempio se a svolgere il ruolo di caregiver è un figlio in giovane età, si corre il rischio che i ruoli si invertano se è il figlio a prendersi cura del genitore. Per questo il carico di assistenza deve essere proporzionato all’età del figlio/a cercando di preservare gli spazi naturali utili per la sua crescita e la socializzazione.

Se il caregiver è il partner, il rischio può essere quello di sacrificare il ruolo di compagno/a con quello di assistente. Nel caso in cui le mansioni di assistenza siano molto impegnative è necessario adoperarsi per mantenere spazi distinti in cui si vive la dimensione di coppia rispetto a quelli in cui si presta assistenza.


In generale è importante non dimenticare che il benessere del caregiver è fondamentale anche per il benessere della persona malata e lo si può garantire a partire da semplici accorgimenti. Al caregiver deve essere data la possibilità di ritagliarsi del tempo da dedicare a se stesso, mantenere delle relazioni sociali e a chiedere aiuto a sua volta.


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Ricerca dopo ricerca si comicia a capire come mai, pur individuando le cellule cancerose ed attaccandole, non riusciamo a sconfiggere il tumore

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«Nemici esterni e “traditori” interni si insinuano tra le nostre cellule. Un fuoco continuo senza tregua ci colpisce e noi di rimando ci difendiamo con i linfociti. Non ci accorgiamo quasi di queste battaglie silenziose, che ci salvano la vita. Non sempre però possiamo fidarci dei nostri difensori professionali, talvolta qualcosa accade a livello del nostro sistema immune a scombinare le carte e gli agenti di difesa “passano al nemico”. 

L’immunologia è la scienza che studia la capacità del nostro organismo di far fronte agli invasori da dentro e da fuori: patogeni e cellule cancerose. Dopo molte illusioni, alternanza di successi e fallimenti, l’immunologia torna alla frontiera della battaglia contro il cancro, alla luce delle novità scientifiche. Alberto Mantovani, Francesco Marincola e colleghi rilanciano in questi giorni su Lancet, rivista medica internazionale tra le più note, l’immunologia come arma vincente, nel contesto del microambiente del tumore. 

I “battaglioni” specializzati L’evoluzione d ha dotato di un sistema immune, poiché siamo costantemente esposti ad un enorme numero di organismi patogeni che tentano di utilizzare i nostri corpi per potersi propagare a nostro danno. Talvolta delle alterazioni possono insorgere nelle nostre stesse cellule, determinando una crescita rapi da, aggressiva ed incontrollata, quale il cancro. Come può il nostro corpo re spingere e controllare questi eventi preservando la nostra salute? Risulta innanzitutto necessario che le cellule che ci difendono, i globuli bianchi, sappiano riconoscere chi è il nemico ed ucciderlo, senza attaccare le cellule sane del nostro corpo. Infatti, quando il patogeno si trova all’interno delle nostre cellule (come nel caso delle infezioni virali) il globulo bianco non può “vederlo” direttamente e deve poter discriminare quali siano le cellule infette da eliminare da quelle sa ne che stanno loro accanto.

Il sistema immune è il nucleo di difesa della nostra salute ed ha a disposizione diversi tipi di eserciti, spedalizzati a seconda dell’attacco subito. Alcuni globuli bianchi costituiscono la prima linea di difesa (granulociti, principalmente neutrofili e macrofagi). A questo scopo sono già armati e pronti a combattere, ma sono capaci di riconoscere solo alcuni “nemici” esterni alle cellule, come ad esempio i batteri, e con poca specificità. Di conseguenza l’eradicazione di infezioni gravi richiede dei veri esperti, i linfociti, capaci di riconoscere in modo specifico gli “antigeni”, cioè molecole diverse da quelle del nostro organismo e presenti negli agenti patogeni. I linfociti sono distinti in tré grandi categorie, linfociti T, B e Natural Killer (o NK) che esplicano funzioni differenti, rese possibili da un diverso corredo di molecole presenti sulla loro superficie. 

I linfociti T sono “soldati” spedalizzati nell’individuare i minimi indizi dimostranti la presenza di patogeni: ogni mi lite viene selezionato nel nostro organismo per riconoscere con estrema efficacia un singolo segnale d’infezione (ad esempio una proteina virale espressa dalla cellula inietta) e a non attaccare le cellule sane. Di conseguenza, i linfociti T non vengono attivati in toto, la mobilitazione interesserà soltanto i quelli adatti allo scopo. In questo modo il nostro organismo può reagire in modo specifico contro il singolo patogeno. I linfociti T riescono a riconoscere un antigene solo se esso viene frammentato all’interno della cellula e i suoi frammenti sono presentati sulla superficie di una cellula legato alle proteine del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC), e non nella sua forma solubile. Ogni linfocita T possiede un sistema recettoriale, chiamato appunto “T cell receptor” (TCR), che è differente in ciascun linfocita, tramite il quale viene riconosciuto il frammento di antigene assodato alle proteine dell’MHC. Esistono delle cellule che sono in grado di “in formare” i linfociti di un’infezione. Si chiamano “antigen-presenting-cell” (APC) perché sono in grado di stimola re il recettore delle cellule T, “presentandogli” l’antigene frammentato, associato alle loro molecole MHC. In realtà il sistema è molto complesso in quanto esistono varie popolazioni di linfociti T. I linfociti T citotossiche (CTL) riconoscono e uccidono qualsiasi tipo di cellula del nostro organismo che presenti sulla sua superficie frammenti di molecole estranee. 

I linfociti T “helper” (Th) si attivano soprattutto in risposta alle APC, che catturano antigeni nel l’ambiente circostante e li presentano. Le molecole MHC di classe I sono specializzate nel presentare l’antigene alle cellule T citotossiche, quelle di classe II presentano alle cellule Thelper. In risposta al riconoscimento antigenico i linfociti Th producono fattori solubili, chiamati interleuchine, che stimolano altre classi di linfociti T. I linfociti T helper sono a loro volta classificati in Thi e Th2. I linfociti Thi stimolano meccanismi di difesa cellulare mediati dai macrofagi e dai linfociti T citotossici, mentre i Th2 inducono la produzione di particolari anticorpi. 

Le plasmacellule I linfociti B riconoscono l’antigene in forma solubile. Quando il nostro organismo è attaccato da virus e batteri, i linfociti B capaci di riconoscerli si moltiplicano, entrano in contatto fisico con i linfociti Th che li attivano e si trasformano in plasmacellule. Le plasmacellule producono anticorpi che si legano in maniera specifica agli antigeni del patogeno stesso. Alcuni anticorpi possono neutralizzare direttamente gli agenti patogeni, bloccando i recettori che permettono l’infezione. Altri anticorpi possono in durre l’uccisione di agenti patogeni tra mite l’attivazione del sistema del Complemento che provvede alla distruzione per lisi del patogeno, o possono indurre la sua cattura da parte dei macrofagi o dei granulociti, che lo “divorano”. 

Esistono tuttavia situazioni in cui cellule pur infettate da virus o modificate per l’effetto di una trasformazione neoplastica, non espongono in maniera adeguata frammenti antigenici e molecole MHC capaci di stimolare il riconosci mento da parte dei linfociti T. In questi casi saremmo in balia del patogeno con conseguenze letali. 

I killer Nel nostro organismo è stata quindi selezionata un’altra popolazione di linfociti detti NK, cioè “naturai killer” che ha l’inconsueta capacità di riconoscere cellule non esprimenti le proprie proteine MHC di superficie (self). Di conseguenza le NK individuano cellule “nude”, prive di molecole MHC, in cui il self, il concetto di sé, è venuto a mancare. I meccanismi che mediano l’azione NK rappresentano un esempio affascinante ed elegante di come il self control sia alla base di una difesa veramente efficace. Le NK risultano utili anche quando i nemici di vengono troppo numerosi ed eterogenei per poter essere riconosciuti singolarmente, in questi casi è più facile individuare i propri alleati ed attaccare i restanti, nel caso concreto salvando chi esprime il giusto “self ed eliminando tutte le altre cellule. Costantemente in perlustrazione nel nostro corpo, le NK, “perquisiscono” tutte le cellule cui passano vicino, verificando che esprima no il giusto “documento di riconosci mento” l’MHC (complesso maggiore di istocompatibilità) indipendente mente dal peptide presentato. Non stanno cercando cellule infette, ma cellule non identificabili. 

I vari tipi di MHC sono legati da specifici recettori delle NK detti KIR (recettori inibitori delle killer) che operano la verifica dei “documenti”. In pratica, se è presente l’MHC, la cellula NK da l’ok e passa oltre, in caso contrario scatena un attacco immediato, letale per qualsiasi cellula senza passa porto. Oltre al sistema di “disattivazione” ne esiste uno di stimolazione. Ovvero si trovano sulle NK altri recettori che possono promuovere segnali atti a sti molarle a “premere il grilletto”. Alcuni di questi (tra cui NKp46, NKp}o e NKP40) definiti come recettori di cito tossicità naturale Nrc, sono stati scoper ti dall’equipe di Lorenzo Moretta (Gasli licaziom ni, Genova). 

Le NK, che sono pronte ad agire subi to, mentre i linfociti necessitano un tempo di “apprendimento” rappresentano una linea di difesa precoce ed estremamente efficiente. Le cellule NK, opportunamente coltivate e sensibilizzate, possono essere impiegate nel trat tamento di alcune leucemie, e recente mente, secondo Cristina Bottino (Gaslini), anche per il medulloblastoma. In conclusione, il nostro sistema immune ha evoluto (e sta ancora evolvendo) strategie difensive sempre più sofisticate: i compiti sono stati suddivisi tra i diversi comparti di globuli bianchi, disponendo ora della fanteria, degli strateghi, delle armi intelligenti… e degli immancabili eroi in prima linea, le cellule NK, i James Bond con licenza di uccidere!

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La serie tv preferita si conclude? È un dramma

Un’angoscia simile a quella di cui si soffre quando finisce un rapporto d’amore, anche se meno intensa. Ci si sente smarriti e, allo stesso tempo, un po’ depressi. E’ questo l’effetto che sortisce, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Mass Communication and Society da un gruppo di studiosi dell’Ohio State University guidati da Emily-Moyer Gusi, la serie tv preferita che arriva a conclusione. E le repliche, quando mandate in onda, non bastano a lenire il disagio che si prova: sono solo copie.

Dexter, CSI, Justified, Grey’s Anatomy, Friends: quale sia il tipo di telefilm che si preferisce guardare non incide sul dolore che si prova quando ce se ne separa, spiega Moyer-Gusi. A fare la differenza è piuttosto il motivo per il quale lo si segue: da questo dipende il livello di stress percepito quando non lo si trova più sullo schermo televisivo.

 

Lo studio statunitense ha esaminato come gli spettatori – tutti universitari – hanno reagito davanti alla fine del proprio programma preferito. Ai partecipanti è stato anche chiesto quanto spesso guardavano la televisione e i motivi che li spingevano a farlo, e quanto fosse importante per loro. Dai risultati è emerso che i ragazzi che affermavano di sentirsi in “forte relazione” con i personaggi erano coloro che si sentivano più a disagio quando i telefilm interrompevano le programmazioni: “’Ci sono alcuni aspetti dei rapporti con i personaggi televisivi che possono essere paragonati ai rapporti reali – spiega la studiosa – ma l’intensità è, in genere, ridotta”. Alcuni affermano di “percepire un disagio reale”, simile a quello che si prova quando finisce un rapporto d’amore o d’amicizia, anche se l’intensità dell’angoscia che si prova, spiega la ricercatrice, “non è paragonabile a quella che si prova nella realtà”.

 

Lo shock dell’“abbandono”, però, rimane, e in molti accusano il colpo. Conclusa la serie tv, come si impiega il tempo che prima si trascorreva davanti allo schermo? Quasi la metà dei partecipanti allo studio – il 40% – ha sostituito la visualizzazione della serie tv con altre attività multimediali, come l’utilizzo di internet, mentre il 18% ha dichiarato di trascorrere più tempo con amici e familiari.

Chi l’ha visto

Scomparso

Marco Zanot

Sesso:M
Età:40 (al momento della scomparsa)
Corporatura:robusta
Statura:178
Occhi:castani
Capelli:castani
Abbigliamento:Un piumino viola, maglia bianca e jeans
Segni particolari:Ha una cannula oro-faringea. Ha dei tatuaggi sul collo con alcune lettere
Scomparso da:Ardea (Roma)
Data della scomparsa:21/03/2011
Data pubblicazione:23/03/2011

 

Marco Zanot è scomparso da Ardea (Roma) il 21 marzo, dopo aver chiamato al telefono la compagna e la madre. Ha una cannula oro-faringea grazie alla quale può respirare e parlare. Non ha con sé i farmaci per la sua terapia quotidiana.

 

http://www.chilhavisto.rai.it/dl/clv/Scomparsi/ContentSet-9e1ad524-b66d-4316-a903-f4690acd3c8a.html

Come essere d’aiuto?

Suggerimenti pratici 
Una delle sensazioni più comuni di amici e parenti, che desiderano sostenere un malato di cancro, è non sapere da che parte cominciare, nonostante le migliori intenzioni. In questo capitolo seguiremo un percorso logico che potete imitare e che vi aiuterà a stabilire dove il vostro aiuto è più prezioso e da dove cominciare.
Questi suggerimenti valgono in particolare per gli amici al di fuori della cerchia familiare e parentale che sono quelli maggiormente chiamati a svolgere funzioni di supporto.

1. Fare la propria offerta
Innanzitutto dovete scoprire se il vostro aiuto è richiesto oppure no. Nel primo caso, fate la vostra offerta. L’Esplicitate nello specifico come volete e potete  essere d’aiuto attraverso azioni concrete, evitate frasi del tipo “Fammi sapere se c’è qualcosa che posso fare per te”. Inoltre rendetevi disponibili a ripassare per vedere se potete rendervi utili. Ovviamente, se siete il padre/la madre di un bambino malato o il partner di un paziente oncologico, non dovete chiedere nulla. Ma se siete fuori dalla cerchia familiare è importante sapere se siete nella posizione giusta per ‘dare una mano’. A volte un conoscente o un collega è più gradito di un parente stretto, per cui non esprimete un giudizio affrettato sulla vostra utilità. Non rimanete male se il malato non sembra gradire il vostro appoggio. Non fatene un fatto personale. Se proprio volete rendervi utili, chiedete a coloro che sono più vicini al malato se hanno bisogno d’aiuto. Dopo aver fatto l’offerta iniziale non aspettate di essere chiamati, ma fatevi risentire.

2. Informarsi
Se volete essere utili, dovete necessariamente essere informati sulla situazione medica, ma solo quel tanto che basta per fare progetti razionali. Non dovete assolutamente diventare esperti sull’argomento. Molti di coloro che vogliono aiutare i malati sono spinti ad acquisire sempre più dettagli che non sono necessariamente pertinenti alla situazione del loro amico/parente. A volte sono spinti dalla curiosità, a volte dal desiderio di essere padroni della situazione.

3. Valutare le esigenze del malato e dei suoi familiari
Naturalmente qualunque valutazione non sarà mai definitiva e sarà carica di incertezze perché il futuro è spesso imprevedibile. Ma devono essere prioritarie le esigenze del malato. Queste, è chiaro, variano a seconda di quanto sia invalidante la malattia in quel momento (ammesso che lo sia). Se le condizioni del malato sono seriamente compromesse, forse vi porrete delle domande. Chi si prenderà cura di lui durante il giorno? Può alzarsi dal letto e andare in bagno? Può prepararsi da mangiare? Ha bisogno di cure che non può fare da solo? E poi potreste chiedere ai suoi familiari. Ci sono bambini da accompagnare a scuola e andare a riprendere? Il partner è in buone condizioni di salute o ci sono cose di cui ha bisogno? La casa si presta ad assistere qualcuno nelle sue condizioni oppure ha bisogno di essere adattata? Per quante domande ci vengano in mente, non sono mai esaustive per la singola situazione. Fatevi un elenco personalizzato ricostruendo una giornata ‘tipo’ della vita del vostro amico e pensando a ciò di cui può avere bisogno in ogni fase.

4. Stabilire che cosa si può e si vuole fare
Che cosa sapete fare? Potreste cucinare per il nostro amico? Portare dei pasti surgelati precotti è sempre ben accetto. Potreste preparare da mangiare per gli altri membri della sua famiglia? Siete abili nei piccoli lavori domestici? Sapreste installare dei servoscala o rampe per sedie a rotelle, se necessario? Sapreste badare alla casa? Potreste portare i bambini allo zoo per un giorno in modo da lasciare la coppia tranquilla per un po’ di tempo? Se non siete in grado di fare niente di tutto ciò, ve la sentireste, per esempio, di pagare una colf per mezza giornata la settimana in modo che dia una mano al vostro posto? Potreste procurare delle letture adatte al vostro amico? Siete in grado di trovare delle videocassette di suo gradimento? Se avesse bisogno di adattare il suo appartamento, sareste in grado di aiutarlo? Se è una donna, vi ricorderete di farle trovare dei fiori a casa al ritorno dall’ospedale?

5. Cominciare con piccole cose pratiche
Scorrete l’elenco delle cose che siete disposti a fare e cominciate offrendovi di farne alcune. Non vi dichiarate disponibili a fare tutto, altrimenti il vostro amico avrà la sensazione di essere ‘soffocato’. Privilegiate alcuni piccoli compiti pratici che il malato potrebbe non essere in grado di eseguire con una certa facilità. Fate programmi di minima: raggiungere un obiettivo modesto è molto meglio che puntare ad un ideale difficilmente raggiungibile. Ci vogliono un po’ di attenzione e tatto. 

Un nostro conoscente, Mario, era solito farsi tagliare i capelli tutte le settimane. Niente di particolare, ma faceva parte della sua routine. Quando fu ricoverato, un suo amico prese accordi con il barbiere dell’ospedale perché andasse a tagliargli i capelli una volta alla settimana. Fu un gesto molto carino e premuroso. Esistono molti esempi di questo genere, come offrirsi per badare alle piante di casa, oppure per portare fuori il cane.

6. Evitare gli eccessi
Non fate doni enormi che sono fuori luogo e imbarazzano. In certe situazione i regali nascono da un senso di colpa e di difficoltà del donatore e inducono disagio anche nel destinatario. Analogamente le vostre offerte di aiuto dovrebbero essere modeste e adatte al malato e ai suoi familiari. Siate sensibili.

7. Ascoltare
Il tempo è un dono prezioso che, invece, potete fare in qualunque momento. Se non lo avete già fatto, leggete il capitolo che parla di come diventare un ‘buon ascoltatore’ e cercate di passare regolarmente del tempo con il vostro amico. È meglio essere una presenza costante dedicandogli dieci, quindici minuti ogni giorno o a giorni alterni piuttosto che due ore una volta al mese. Siate affidabili e sempre disponibili.

8. Coinvolgere altre persone
Siate sinceri con voi stessi e riconoscete i vostri limiti. Tutti coloro che forniscono il proprio aiuto e sostegno desiderano fare del loro meglio. Potreste essere tentati da gesti eroici per un senso di ira e rabbia contro quanto è capitato al vostro amico e contro l’ingiustizia della situazione. Ma se vi ponete ideali troppo alti e poi fallite, sarete voi stessi a disagio anziché essere d’aiuto. Per voi stessi, per il vostro amico, dovete essere capaci di intraprendere sforzi ragionevoli che potete portare a compimento. Ciò vuol dire che dovrete essere sempre realistici su ciò che siete in grado di fare ed essere disponibili a farvi aiutare quando non ce la fate.

Ripassare questa lista mentalmente è utile in quanto consente un vero approccio pratico a qualcosa che probabilmente non vi è familiare, e serve anche a placare il dolore che provate quando non sapete da che parte cominciare. Quali che siano i vostri piani, cambieranno senz’altro con il tempo, in quanto le condizioni muteranno. Siate disposti ad essere flessibili e ad imparare cammin facendo.

http://www.aimac.it/informazioni-tumore/parlare-malato-cancro/essere-di-aiuto_k6ab_k6Wa_k6Wa_3p.html

Come capire che cosa prova il malato

Può essere di grande aiuto per voi tentare di comprendere ciò che il vostro parente o amico sta provando e rendervi conto delle paure che sta vivendo. Naturalmente sono molti, moltissimi, i diversi aspetti di una malattia che possono indurre paura. E quando la diagnosi è quella di tumore, le paure possono aumentare ed essere ingigantite. Sono tante le paure che possono arrovellare la mente di un paziente oncologico, e quelle che vi segnaliamo di seguito vogliono essere solo degli esempi. Sappiate, però, che sono assolutamente comuni e naturali. Ciò che amplifica il disagio e la sofferenza è non aver nessuno con cui poterne parlare. Ecco perché potete essere una risorsa preziosa per il vostro amico o parente.La minaccia per la salute 
Quando stiamo bene, la possibilità di una malattia seria sembra remota e pochissimi ci pensano prima che accada. Quando poi ci viene diagnosticata, siamo scioccati e confusi, spesso arrabbiati o addirittura avvelenati.

Incertezza
Lo stato di incertezza può essere più difficile da sopportare di una cattiva o persino di una buona notizia. Non sapere dove siete e che cosa vi aspetta è uno stato molto doloroso. Potete aiutare il vostro amico o parente semplicemente condividendo insieme la spiacevolezza dell’attesa e dell’incertezza. 

Mancanza di familiarità
Gli esami e il trattamento della malattia possono richiedere la partecipazione di diverse figure professionali, ognuna esperta del proprio campo. Molto spesso il malato si sente impreparato e smarrito in mezzo a personale qualificato e indaffarato. Potete aiutarlo sottolineando il fatto che non è possibile conoscere in anticipo tutti i dettagli; anche procurarsi le risposte ad alcune delle domande che arrovellano la sua mente può essere utile.

Sintomi fisici
Questo libretto si sofferma soprattutto sulle questioni psicologiche, ma naturalmente anche i sintomi fisici (come dolore, nausea, fatigue…) sono molto importanti, considerando anche il fatto che possono cambiare considerevolmente nelle varie fasi del trattamento. Non esitate a parlare di tale argomento con la persona malata, aiutandola anche a discuterne con il personale curante.

Segni visibili del trattamento o della malattia
Altrettanto vale per i segni ‘esteriori’ della malattia o del trattamento, per esempio la perdita di capelli conseguente alla chemioterapia o alla radioterapia alla testa. Potete aiutare il malato a sentirsi meno in imbarazzo; se si tratta di una donna forse potete aiutarla a scegliere la parrucca o il foulard.

Isolamento sociale
La maggior parte delle malattie serie, e il cancro in particolare, sembrano innalzare una barriera invisibile tra il malato e il resto della società. Andarlo a trovare invitando gli amici comuni a fare altrettanto è una buona soluzione per ridurre l’impatto di quella barriera e i disagi che la malattia e le terapie comportano.

La minaccia della morte
Molti malati di cancro guariscono, ma la minaccia della morte è sempre presente, e a volte continua a ossessionare anche chi è guarito. Naturalmente non potete eliminare questa paura, ma potete consentire al malato di parlarne e, ascoltandolo, potete ridurre l’impatto e il dolore derivati da questa minaccia. Come sempre non dovete avere tutte le risposte. Semplicemente ascoltare le domande farà molto bene.

 

http://www.aimac.it/

Il decalogo del buon ascoltatore

Il ‘buon ascoltatore’ può essere definito come colui che ha un approccio alla conversazione sia con la dimensione fisica che con quella psicologica. A volte, molti degli imbarazzanti vuoti di comunicazione che si creano durante uno scambio interpersonale, sono causati dal fatto che ignoriamo le poche, semplici regole che favoriscono la libera comunicazione.

1. Creare l’atmosfera
Questo punto è molto importante e deve essere curato nei dettagli: mettetevi comodi, sedetevi, cercate di apparire rilassati  e mandate dei segnali che facciano capire che avete intenzione di fermarvi e di dedicare tempo alla persona malata (ad esempio, toglietevi il cappotto). 
Guardate sempre l’interlocutore negli occhi, possibilmente tenendo lo sguardo allo stesso livello, il che quasi sempre vuol dire mettersi a sedere. Il contatto visivo è ciò che trasmette all’altro il senso di esclusività della conversazione e lo fa sentire accolto e ascoltato. Se in un momento doloroso non riuscite a guardarlo dritto negli occhi, almeno avvicinatevi e stringetegli la mano; oppure, se potete, accarezzatelo.

Come regola generale, se il vostro caro si trova in ospedale, mettersi a sedere sul letto è meglio che stare in piedi. A volte le circostanze potrebbero darvi l’impressione di essere sfavorevoli: ad esempio, potreste rendervi conto che non è possibile sedersi sul letto, oppure che l’unica seduta disponibile è il piano di un tavolo o di un comodino. Anche se ciò vi causa un certo imbarazzo, cercate di sedervi: è sempre meglio che cercare di parlare a qualcuno dominandolo e guardandolo dall’alto in basso.
L’atmosfera deve essere quanto più intima possibile, anche se, nonostante i vostri sforzi, ci possono essere sempre delle interruzioni (il telefono che squilla, il campanello che suona, i bambini che vanno e vengono, il personale ospedaliero che entra). Evitate di parlare in un corridoio o sulle scale. Ciò sembra ovvio, ma ricordatevi che spesso la comunicazione non riesce ad essere libera e autentica proprio perché subisce  l’influenza di queste piccole cose. Fate attenzione alla prossimità. Non siate troppo distanti dall’interlocutore, infatti una distanza maggiore di circa mezzo metro renderebbe la conversazione imbarazzata e formale, mentre una minore potrebbe far sentire il malato ‘circondato’, soprattutto se è costretto a letto e quindi impossibilitato a sottrarsi. Assicuratevi che non si frappongano tra di voi ostacoli fisici (tavoli, comodini, ecc.). Anche in questo caso può non essere facile, ma se dite qualcosa del tipo “Non è facile parlare da una parte all’altra di questo tavolo. Posso spostarlo?”, può essere di aiuto ad entrambi.

2. Capire se il malato ha voglia di parlare
Può darsi che il vostro amico o parente non si senta, o non abbia voglia, di parlare quel giorno. Può anche darsi che abbia voglia di parlare di cose banali (i programmi della televisione, gli abiti di moda, i risultati delle partite o altre cose quotidiane). Non dispiacetevi: anche se siete mentalmente preparati per una conversazione impegnativa, non scoraggiatevi se in quel momento l’interlocutore non risponde alle vostre aspettative. Potete comunque essergli di grande aiuto conversando con lui di cose quotidiane; o semplicemente ‘ascoltando il suo silenzio’. Se non siete sicuri di quello che desidera, chiedetegli: “Ti va di parlare un po’?”. Piuttosto che avviare una conversazione profonda non desiderata, è meglio partire da questa semplice domanda. Oppure, se il malato è stanco o ha appena parlato con qualcun altro, potete dirgli: “Parlami solo se te la senti”.

3. Ascoltare il malato mostrando di ascoltare
Quando il vostro amico o familiare parla, ascoltate ciò che vi sta comunicando anziché pensare a quello che dovreste dire voi, e mostrategliche gli prestate attenzione. 
Evitate di anticipare le parole del vostro interlocutore o di interpretare il suo pensiero, perché così facendo rischiate di perdere di vista ciò che, invece, egli sta effettivamente esprimendo. Evitate anche di interromperlo. Mentre parla non intervenite, ma aspettate che abbia finito prima di interloquire. Se, invece, è l’interlocutore ad interrompervi con un “Ma” o un “Credevo”, o con un’espressione analoga, fermatevi e lasciatelo parlare.

4. Incoraggiare il malato ad aprirsi
Un ‘buon ascoltatore’ deve poteraiutare il suo interlocutore ad aprirsi, senza timore di esprimere  ciò che gli passa per la mente. Ci sono semplici espressioni che vanno benissimo: cercate di annuire e pronunciate parole semplici del tipo “Sì”, “Capisco”, “Vai avanti”. Nei momenti di tensione sono proprio le cose semplici quelle che facilitano le situazioni.
Per mostrare al  vostro caroche le sue parole sono veramente ascoltate , potete anche ripetere due o tre parole dell’ultima frase che ha pronunciato. , oppure potete sintetizzare il concetto che egli ha appena espresso, in parte per verificare che abbiate compreso il senso del suo discorso, in parte per dimostrargli che ascoltate e vi sforzate di comprenderlo. Potete, per esempio, dire “Allora intendi dire che …”, oppure “Se ho ben capito senti che …”.

5. Prestare attenzione al silenzio e alla comunicazione non verbale
Se qualcuno smette di parlare,  può significare che sta pensando a qualcosa di doloroso o delicato. Rispettate per un  po’ il suo silenzio, se ne avete voglia stringetegli la mano o accarezzatelo, e poi chiedetegli con dolcezza a cosa stia pensando. Non mettetegli fretta anche se vi sembra che il silenzio duri secoli.
Può darsi che il silenzio vi induca a pensare “Oddio, adesso non so cosa dire”. Ma il silenzio può indicare che effettivamente non c’è bisogno di parlare. Se questo è il motivo, non abbiate paura di tacere ma rimanete vicino al vostro caro. In queste situazioni toccare delicatamente il suo volto o mettergli un braccio intorno alla spalla può valere più di tante parole.
A volte la comunicazione non verbale dice molto di più sulle emozioni del parente o amico di quanto si possa immaginare. Ecco un esempio tratto dall’esperienza di un medico.

Avevo in cura una donna anziana di nome Antonietta che sembrava molto contrariata e chiusa. Io cercavo di spronarla a parlare, ma non riuscivo a scucirgli una parola di bocca. Durante un incontro mentre parlavo allungai le mani verso le sue. Era più che altro un tentativo, perché non ero affatto sicuro che fosse la cosa giusta. Con mia grande sorpresa la donna afferrò la mia mano e la strinse a lungo. L’atmosfera mutò all’istante e all’istante Antonietta iniziò a parlare delle sue paure di dover subire altri interventi e di essere lasciata sola dalla sua famiglia. Il messaggio del mio contatto non verbale era ‘provaci e vedi come va’. Se, per esempio, Antonietta non avesse reagito positivamente, avrei potuto ritirare la mia mano e nessuno dei due avrebbe riportato un insuccesso in conseguenza di quel gesto. 

6. Non avere timore di esprimere i propri sentimenti
L’autenticità è alla base di una comunicazione libera. Non temete di manifestare il vostro diasgio usando espressioni del tipo “Mi è difficile parlare di …”, oppure “Non sono molto bravo a parlare di …”, o anche “Non so cosa dire”.
Riconoscere i sentimenti che sono di solito abbastanza comuni per entrambi (anche se in questo caso si tratta dei vostri sentimenti e non di quelli del malato) può migliorare incredibilmente l’atmosfera, riducendo spesso quel senso di distanza e imbarazzo che avvertiamo talvolta. È straordinario quanto ciò possa migliorare la comunicazione tra voi e il malato.

7. Accertarsi di non aver frainteso
Se siete certi di aver compreso ciò che il vostro caro intende dire, potete sottolinearlo attraverso frasi come “Mi sembri molto abbattuto” oppure “Immagino che ciò ti abbia fatto infuriare”. Tuttavia se non siete sicuri di ciò che ha voluto esprimere, non abbiate timore di domandargli, per esempio, “Come ti sentivi?”, “Che ne pensi?”, “Come ti senti adesso?”. Supposizioni errate, infatti, possono causare  malintesi. Una domanda esplicita del tipo “Fammi capire meglio che cosa vuoi dire” può rivelarsi utile a capire meglio che cosa pensa l’interlocutore. 

8. Non cambiare argomento
Se il vostro caro vuole parlare di quanto si senta male, consentiteglielo. Può essere doloroso per voi ascoltare alcune delle cose che dice, ma, se non vi crea eccessivo turbamento, rimanetegli vicino mentre parla. Se, invece, vi sentite troppo a disagio e ritenete di non essere in grado di affrontare questi argomenti in quel momento, diteglielo con chiarezza e proponete di rimandare a un’altra volta. Potete anche usare una frase del tipo “Ciò mi mette molto a disagio in questo momento. Possiamo riprendere a parlare più tardi?”. Evitate di lasciar cadere il discorso o di cambiare argomento senza esplicitare il fatto che il vostro interlocutore ha sollevato questioni che vi hanno turbato e di cui al momento non sentite di riuscire a parlare.

9. Non cominciate mai col dare consigli
Sarebbe bello se i consigli fossero dati solo quando sono richiesti, ma purtroppo molto spesso non è così. Cercate sempre di evitare, però, di dare consigli in apertura di conversazione perché inibireste il dialogo. Se non sapete proprio trattenervi, cercate almeno di ricorrere a frasi del tipo “Hai pensato a provare questo o quell’altro?”. Oppure, se siete diplomatici per natura, dite: “Un mio amico una volta ha provato questo e quell’altro”. Sono espressioni meno sfrontate di “Se fossi in te, farei …” il che induce il vostro interlocutore a pensare (e forse anche a dire) “Ma tu non sei in me!…”. E così davvero la conversazione finirebbe lì.

10. Essere pronti alla battuta
Normalmente si ritiene che non ci sia proprio nulla da ridere quando qualcuno è gravemente malato o sta morendo. In questo modo, però, si trascura una  possibilità molto importante per le persone, che è quella di utilizzare l’umorismo. L’umorismo, infatti, consente di esorcizzare grandi minacce e paure dandoci la possibilità di sfogare anche i sentimenti forti e negativi. Nella vita spesso è proprio facendo ricorso  all’umorismo  che riusciamo ad affrontarecose che ci sembrano impossibili. Basti pensare agli argomenti su cui si incentrano più comunemente le barzellette: la suocera, la paura di volare, l’ospedale e i dottori, il sesso, ecc. Tutti questi argomenti nascondono dei timori. Una discussione con la suocera, per esempio, può essere molto penosa per tutte le parti in causa, ma proprio questo è stato per secoli il cavallo di battaglia dei monologhi dei comici, perché tutti noi siamo portati a esorcizzare le paure ridendo delle situazioni che affrontiamo meno facilmente. 

In un ospedale c’era una paziente di una quarantina d’anni il cui trattamento aveva comportato l’inserimento di un catetere a permanenza in vescica. Durante la degenza portava il sacchetto di drenaggio come una borsetta e si lamentava ad alta voce che era una vergogna che nessuno avesse pensato a fare dei sacchetti di colore diverso, da abbinare al suo foulard o ai suoi guanti. Al di fuori di quel contesto tutto ciò potrebbe sembrare fuori luogo, ma per quella donna era il modo per far fronte a un problema estremamente doloroso. Stava a dimostrare il suo coraggio e il suo desiderio di porsi al di sopra dei problemi fisici.

Ridere aiuta le persone ad affrontare le situazioni in maniera diversa. Se il vostro parente o amico è disposto a vedere l’aspetto umoristico della propria malattia, anche se ciò può sembrare macabro ad un estraneo, è bene assecondarlo. Ciò non vuol dire che dovete cercare di tirarlo su raccontando una barzelletta dopo l’altra. Non servirebbe. Potete essergli di maggior aiuto se rispondete in maniera intelligente al suo umorismo anziché creare voi delle situazioni umoristiche.

Riassumendo: l’obiettivo di un atteggiamento di ascolto sensibile è quello di comprendere nel modo più completo possibile ciò che l’altra persona sente. Non potrete mai raggiungere una comprensione totale, ma quanto più vi avvicinerete capire l’altro nella sua complessità, tanto migliore sarà la comunicazione tra di voi. Tanto più cercherete di comprendere i suoi sentimenti, maggiore sarà l’aiuto che gli darete.

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Gli ostacoli alla conversazione

Esistono quattro principali ostacoli alla libera comunicazione tra la persona malata e voi:

  • il malato vuole parlare ma voi non  ve la sentite;

  • il malato non vuole parlare ma voi  insistete per farlo;

  • il malato vuole parlare ma  ha delle remore e voi non sapete come sollecitarlo ad aprirsi;

  • il malato sembra non avere voglia parlare, ma in realtà ne ha bisogno, e voi non sapete quale sia la cosa migliore da fare, ovvero se assecondare il suo silenzio o se spronarlo, invece, a parlare.


Tali ostacoli appaiono spesso come barriere insormontabili , ma non lasciatevi intimorire. Esistono, infatti, dei modi per rendervi disponibili ad ascoltare e parlare senza imporvi contro la volontà del vostro parente o amico, così come esistono dei modi per accertarsi se il vostro caro ha bisogno o voglia di parlare oppure no.

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L’importanza di ascoltare e parlare

Volete aiutare il vostro amico o parente, ma non sapete quale sia la cosa migliore da fare? Bene, forse il punto più logico da cui cominciare è quello di parlare e ascoltarlo. Esistono, infatti, tre ottime fondamentali ragioni per parlare e, naturalmente, per ascoltare.

1. Parlare è il miglior modo di comunicare che abbiamo
Naturalmente, oltre al linguaggio verbale, esistono molti altri modi di comunicare: baciarsi, toccarsi, ridere, disapprovare, e anche ‘non parlare’. Tuttavia parlare è di gran lunga il miglior modo per rendere chiara ed esplicita la comunicazione tra gli esseri umani. Gli altri modi di comunicare sono molto importanti, ma perché siano d’aiuto, prima dobbiamo parlare.

2. Il solo parlare della sofferenza aiuta a lenirla
Nella quotidianità abbiamo molte ragioni per parlare. Alcune sono ovvie (dire ai bambini di non toccare la stufa calda, raccontare una barzelletta, chiedere i risultati delle partite di calcio, informarsi degli ultimi acquisti, ecc.), altre, invece, lo sono molto meno, come il semplice desiderio di essere ascoltati. In molte circostanze, in particolare quando le cose vanno male,  parlare aiuta a togliersi un peso dallo stomaco e serve per essere ascoltati. Un esempio abbastanza comune è il comportamento dei bambini. Se rimproverate vostro figlio, spesso dopo lo sentirete bofonchiare con il suo orsacchiotto o redarguire il suo pupazzo preferito ‘rifacendovi il verso’. Non si tratta esattamente di un dialogo o di una conversazione, ma ha una sua utilità, perché allenta la pressione. Questo è molto importante perché noi siamo in grado di sopportare il carico di tensione solo fino ad un certo punto. Non oltre. Parlare può essere un sollievo. Il che vuol dire che voipotete dare sollievo a un malato ascoltandolo e facendolo parlare. Ovvero: potete aiutare il vostro amico anche se non avete le risposte a tutte le sue domande.

Il solo fatto di porsi come ‘buoni ascoltatori’ aiuta di per sé. Negli Stati Uniti è stato condotto uno studio interessante su un gruppo formato da persone che avevano appreso le semplici regole del ‘saper ascoltare’ e da malati volontari invitati a parlare dei loro problemi. Gli ascoltatori potevano solo annuire con il capo e commentare con espressioni del tipo “Capisco” oppure “Vai avanti”, ma non potevano rivolgere domande ai malati né interloquire sui problemi che essi andavano esponendo. Alla fine della prima seduta quasi tutti i malati hanno ritenuto di aver fatto un’ottima terapia e alcuni di loro hanno telefonato ai loro ascoltatori per ringraziarli e per chiedere quando si sarebbero rivisti. 

3. I sentimenti inespressi prima o poi fanno male
Una delle ragioni che amici e familiari avanzano per giustificare il fatto dinon parlare esplicitamente al malato è che parlare della paura, dei timori, dell’incertezza potrebbe essere fonte d’ansia, soprattutto se questa non era percepita prima della conversazione. In altre parole: un amico, o un parente, potrebbe pensare: “Se gli chiedo se è preoccupato per la radioterapia e non lo è, potrei essere io a far nascere in lui la paura e a farlo preoccupare”. Non è così. Studi condotti da psicologi sui pazienti nella fase avanzata della malattia hanno dimostrato chiaramente che le conversazioni tra i malati e i familiari/amici non creano nuove paure e ansie. Anzi, è vero il contrario: non parlare di una paura la ingigantisce. Chi non può condividere con altri le proprie angosce assai spesso diventa ansioso e depresso. È stato, inoltre, dimostrato che uno dei maggiori problemi di chi è gravemente malato consiste nel senso di isolamento. In parole semplici, se un’ansia seria assorbe tutti i propri  pensieri e le attenzioni, è difficile  dedicarsi ad altro e provare a stare meglio. 

Un altro motivo per cui la gente reprime i propri sentimenti è la vergogna. Molti si vergognano soprattutto se provano sensazioni di paura o ansia per qualcosa e sentono che non dovrebbero averne. Uno dei più grandi servigi che potete rendere al vostro amico o parente malato è ascoltare le sue paure e stargli vicino dopo averle ascoltate, facendogli in questo modo capire che le accettate e le comprendente, contribuendo anche a ridurre la paura e il senso di vergogna.

Tuttavia, iniziare una conversazione sincera e aperta di fronte ad un malato di cancro è spesso molto difficile e imbarazzante, soprattutto perché spesso vi sono ostacoli che si frappongono alla libera comunicazione.