INQUINAMENTO, IL VERO PERICOLO E’ DENTRO CASA

 

INQUINAMENTO, IL VERO PERICOLO E' DENTRO CASA

Uno studio pubblicato dalla rivista scientifica britannica “The Lancet Respiratory Medicine”rivela che l’aria che respiriamo nelle nostre case può rivelarsi molto pericolosa. Secondo la ricerca, un terzo della popolazione mondiale rischia di avere problemi di salute o di morire prematuramente a causa dell’inquinamento domestico, che secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità (Oms) sarebbe all’origine di oltre 4 milioni di decessi nel 2012; un dato più alto dei 3,7 milioni di morti causati dall’inquinamento atmosferico esterno.

Tra le attività “incriminate” dai ricercatori, c’è la preparazione dei pasti, l’uso del riscaldamento e della luce elettrica. Sarebbero particolarmente a rischio oltre 600 milioni di famiglie, principalmente in Asia e Africa, che preparano i loro pasti o riscaldano le loro case utilizzando combustibili solidi come il carbone o il legno, che producono fumo e sono altamente inquinanti, soprattutto quando gli ambienti sono poco ventilati. Specialmente donne e bambini sono particolarmente sensibili agli effetti tossici di questo genere di inquinamento e sono di fatto esposti alle concentrazioni più elevate.

Tra le malattie più direttamente legate all’inquinamento domestico vi sono le infezioni respiratorie, le bronchiti croniche, l’asma e i tumori ai polmoni o alla gola: ad aggravare il problema, il fatto che la maggior parte dei casi si registrano in Paesi in via di sviluppo dove è molto limitato e oneroso l’accesso alle cure per questo tipo di patologie. Anche il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha condotto di recente uno studio sull’inquinamento domestico, in cui gli autori della ricerca hanno raccolto numerosi suggerimenti per tutelare la salute delle persone coinvolte nella cura della casa. In questo studio, si tende subito a smettere di considerare l’inquinamento solo come un fenomeno esterno alle nostre abitazioni, sulla base del fatto che quello domestico è dalle 65 alle 200 volte superiore a quello esterno. Questo comporta che un ambiente apparentemente sicuro come la casa può nascondere numerosi pericoli.

Di fatto le sostanze pericolose con cui veniamo in contatto quotidianamente tra le mura domestiche sono oltre 150 e tutte possono avere effetti negativi per la salute e l’ambiente. Per esempio, la polvere delle abitazioni è una miscela eterogenea di sostanze tra le quali si possono riconoscere muffe, granuli di polline, scarti alimentari, residui di sostanze vegetali e sintetiche, forfora di animali domestici. La componente allergenica predominante è però costituita dagli acari (Dermatophagoides Pteronyssinus, Dermatophagoides farinae ed Euroglyphus Maynei) e la riduzione della loro concentrazione negli ambienti domestici va considerata, quindi, come il principale trattamento per la prevenzione e cura delle malattie allergiche a essi dovute.

Prestare, dunque, attenzione all’aria che respiriamo nella nostra casa è una sana abitudine per garantire il nostro benessere. È buona regola arieggiare bene la casa ogni mattina e ogni sera prima di andare a dormire. Alcuni amano riposare con la finestra aperta per garantire un migliore apporto di ossigeno e non dimentichiamo che anche se viviamo in città, possiamo “migliorare” l’atmosfera della nostra abitazione usando oli essenziali, erbe e incensi preziosi, scelti con attenzione e di ottima qualità.

Inoltre, lo scenario descritto nei due studi è reso ancora più allarmante dal fatto che ormai gli esseri umani trascorrono il 95% del loro tempo all’interno di edifici e in luoghi chiusi. Purtroppo, il tempo che passiamo a contatto con la natura è insufficiente e il corpo e la psiche ne risentono. Del resto, per migliaia di anni l’uomo ha vissuto in un ambiente naturale al quale il corpo umano si è adattato profondamente allo stesso modo delle piante e degli animali.

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L’esplosione dei tumori in un Paese da bonificare

Il rapporto del Ministero della Salute e Istituto superiore di Sanità incrocia i dati di mortalità, incidenza oncologica e ricoveri ospedalieri. Svelando l’ovvio: vicino alle bombe ambientali ammalarsi è più facile

di Michele Sasso L'esplosione dei tumori in un Paese da bonificare

I siti contaminati italiani provocano tumori mortali. E vanno bonificati il prima possibile. È la conclusione del progetto “Sentieri”, lo studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, un progetto finanziato dal Ministero della salute e coordinato dall’Istituto superiore di sanità.

Dai fumi di Taranto ai veleni della ex fabbrica chimica Caffaro di Brescia il rapporto aggiunge due parametri che raccontano il rischio per chi vive vicino a discariche, aree contaminate, ex zone industriali diventate bombe ambientali: i ricoveri ospedalieri e l’incidenza dei tumori.

Sotto osservazione il rischio dei cosiddetti “Sin”, i siti di interesse nazionale per la gravità dell’inquinamento.
Sono 18 le aree che necessitano bonifiche urgenti e nel rapporto vengono passate sotto la lente dei dati di mortalità, l’analisi dell’incidenza oncologica e i casi di ricovero in ospedale. Ovunque risultati preoccupanti.

PIU’ MALATTIE PER TUTTI
«Abbiamo fatto un passo un più con l’incrocio dei dati sanitari. Ogni sito ha una sua vita propria e anche malattie diverse» spiega Roberta Pirastu dell’Università di Roma, coordinatrice del progetto sentieri: «L’analisi, in aggiunta alla mortalità, dei dati riguardanti l’incidenza oncologica e i ricoveri ospedalieri è cruciale. Quando si ha a che fare con patologie ad alta sopravvivenza, infatti, lo studio della sola mortalità porterebbe a sottovalutarne l’impatto effettivo».

Si scopre quindi che per il tumore della tiroide in alcuni siti sono state rilevate vere esplosioni: a Brescia-Caffaro più 70 per cento per gli uomini e più 56 per le donne; nei Laghi di Mantova, dove il polo chimico-industriale si estende su 260 ettari di ciminiere e torce: più 74 per cento. E ancora alla raffineria della cittadina siciliana di Milazzo: un balzo del 40 per cento per le donne.

Sempre grazie alle analisi dell’incidenza oncologica e dei ricoverati, a Brescia-Caffaro sono stati osservati eccessi per quelle sedi tumorali che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro associa al melanoma o al tumore della mammella e per i linfomi non-Hodgkin con i pericolosi policlorobifenili, le sostanze prodotte qui e sversate nei terreni che hanno contaminato tutta la catena alimentare. L’incidenza di melanoma rivela un eccesso del 27 per cento tra gli uomini e del 19 per cento tra le donne, mentre i ricoveri ospedalieri per la medesima malattia fanno registrare un eccesso rispettivamente del 52 per cento e del 39 per cento.

INCUBO AMIANTO
Capitolo a parte per l’esposizione ad amianto subita dalle popolazioni residenti e che risulta evidente, per gli uomini, dai dati relativi al mesotelioma, il terribile cancro che colpisce i polmoni di chi ha respirato le microparticelle. Schizzano verso l’alto nei Sin siciliani di Biancavilla (Catania) e Priolo (a pochi chilometri da Siracusa), dove è documentata la presenza di asbesto e fibre asbestiformi.

Stessa sorte nelle aree portuali di Trieste, Taranto, Venezia e con attività industriali a prevalente vocazione chimica (Laguna di Grado e Marano, Priolo, Venezia) e siderurgica (Taranto, Terni, Trieste): un dato, questo, che conferma la diffusione dell’amianto nei siti contaminati anche al di là di quelli riconosciuti in base alla presenza di cave e fabbriche di eternit.

Dall’analisi del profilo di rischio oncologico risulta anche una maggiore incidenza di tumore del fegato in entrambi i generi riconducibile, in termini generali, a un diffuso rischio chimico nei pressi di ex industrie chimiche, raffinerie, acciaierie e discariche.

Ma non si tratta solo di tumori. Nel territorio del Basso bacino del fiume Chienti, nelle Marche, sono emersi eccessi per le patologie del sistema urinario, in particolare le insufficienze renali, che inducono a ipotizzare un ruolo causale dei solventi alogenati dell’industria calzaturiera.

A Porto Torres (Sassari) si registrano eccessi in ambedue i sessi e per tutti gli esiti considerati (mortalità, incidenza oncologica, ricoveri ospedalieri) per patologie come le malattie respiratorie e il tumore del polmone, per i quali si suggerisce un ruolo delle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici. Stesse patologie rilevate a Taranto dove anni di emissioni degli stabilimenti metallurgici hanno inciso sui polmoni di chi vive a pochi centinaia di metri dalle ciminiere.

Questo è il quadro che emerge: un Paese da bonificare per abbassare il numero di uomini e donne che ogni anno si ammalano di tumore.

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Non solo Taranto, ecco tutte le Ilva d’Italia Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento industriale

Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più “tossici” del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi, la seconda più grande del Paese dopo Civitavecchia.

Qui, al confine con il Salento, dal 2007 il sindaco ha indetto una ordinanza che vieta la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da molti anni i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto una inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. A contaminare i terreni, le colture, l’acqua e l’atmosfera, secondo la perizia affidata a Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, sarebbe la polvere del combustibile usato nella centrale. Stessa conclusione a cui è arrivato uno studio della Università del Salento e Arpa Puglia, che individua «la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile» come «fonte potenziale più probabile delle emissioni». Il processo partirà il prossimo 12 dicembre e la provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile.

Dopo Cerano, bisogna aspettare il 52esimo posto per trovare gli stabilimenti a rischio chiusura dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni (all’80esimo posto della lista Eea).

Alla 69esima posizione compaiono le Raffinerie Sarde Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. Si tratta della raffineria più grande d’Italia, con una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, ossia il 15% della capacità italiana di raffinazione. Una vera e propria città del petrolio addossata al paese di Sarroch, in cui molte case sono state costruite quasi a ridosso dei serbatoi. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro.

Non solo Saras. L’aria della Sardegna risulta altamente inquinata anche a causa della presenza della centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo (Sassari), nell’area industriale di Porto Torres, e della centrale “Grazie Deledda” di Portoscuso, nel Sulcis. Rispettivamente all’87esimo e al 186esimo posto della classifica Eea. Il Sulcis, nell’area di Portovesme, è un bacino che accoglie aziende diverse, dalla produzione di alluminio (Alcoa, Eurallumina), bitume e polistirolo, al trattamento dei gas e alla gestione di rifiuti speciali e mercantili. E, ciliegina sulla torta, c’è anche una miniera di carbone (Carbosulcis spa). «Non ci possono essere corsie preferenziali per le bonifiche ambientali: Porto Torres e il Sulcis sono nelle stesse condizioni dell’Ilva di Taranto e devono essere immediatamente avviate», ha dichiarato il deputato Pdl Mauro Pili nei giorni scorsi. «Bisogna ricorrere anche qui alla magistratura, rischiando di far crollare tutto il sistema industriale sardo?», si chiedono in tanti sull’isola.

Secondo il Wwf, nell’area industriale di Porto Torres «sono state scaricate acque reflue industriali in violazione dei limiti fissati dalla legge con conseguente inquinamento del suolo e immissione di sostanze cancerogene e altamente tossiche per l’ambiente e la fauna marini», generando «un gravissimo pericolo per la pubblica incolumità», con «l’incremento della mortalità per tumore polmonare, altre malattie respiratorie non tumorali, malformazioni alla nascita». In particolare, «nei pressi dell’insediamento petrolchimico è stata rinvenuta una lunga serie di contaminanti tra cui sostanze organiche clorurate, mercurio, solventi, diossine e pesticidi». E anche la salute del Sulcis sarebbe malata: secondo un dossier realizzato da TzdE “Energia e Ambiente”, solo nell’area di Portoscuso tra il 1997 e il 2003 siu sarebbe registrata un0incidenza del tumore ai polmoni superiore al 30% rispetto alla media regionale.

Non si salva neanche l’altra isola, la Sicilia, con il polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina). Queste aree sono state dichiarate «a elevato rischio ambientale» da uno studio dell’Istituo superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l’Iss, si ammalano soprattutto di «tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni».

È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per via dell’inquinamento prodotto dai fumi. «Questa mattina Civitavecchia sembrava la pianura padana e non per colpa della nebbia», ha dichiarato il primo cittadino nel corso della conferenza dei sindaci della Asl Rmf il 31 luglio scorso. «Quella polvere gialla che proviene dalla centrale Enel non possiamo più sopportarla». Ma Enel risponde che «tutti i controlli sulla funzionalità dei sistemi di monitoraggio delle emissioni sono stati effettuati da ditte specializzate, secondo le scadenze previste dall’autorizzazione integrata ambientale e sono state costantemente verificate dagli organi di controllo competenti».

Altra regione in cui sono state individuate numerose aree ad alto rischio ambientale è il Veneto. L’impianto termoelettrico Enel di Fusina è alla posizione 108 delle fabbriche pericolose segnalate dalla Eea, mentre la raffineria di Venezia-Porto Marghera dell’Eni è al posto 403. Senza dimenticare che nell’area industriale c’è un piccolo impianto dell’Ilva con un centinaio di dipendenti che rischiano di stare a casa se gli impianti di Taranto venissero chiusi. Nel 1994 la magistratura avviò un’indagine per il disastro del polo industriale: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi rifiuti tossici. E anche qui ora i politici locali alzano la mano e chiedono che non si pensi solo a Taranto e all’Ilva. La differenza è che a Venezia ci sono stati i «risarcimenti» delle aziende che hanno versato quasi 500 milioni di euro per l’inquinamento prodotto, a Taranto invece per l’Ilva lo Stato stanzia direttamente quasi 360 milioni per bonificare e ridurre l’impatto ambientale dello stabilimento.

Ecco la mappa delle area industriali inquinanti segnalate dalla Agenzia europea per l’ambiente. 

Visualizza Le Ilva d’Italia in una mappa di dimensioni maggiori

Il tempo è galantuomo, disse l’amianto all’uranio

Era da un po che non scrivevo di agricoltura; curioso per uno che ha imparato prima a tirar su una pianta che a usare una bicicletta. In questi giorni mi è capitato di discutere con alcuni sostenitori delle colture geneticamente modificate, gli ogm. Questo è un tema spinoso, pieno di risvolti imprevedibili. Dunque i mitici ogm: chi sono costoro? Secondo l’enciclopedia sarebbero organismi in cui parte del genoma sia stato modificato tramite le tecniche dell’ingegneria genetica; intendendo l’inserimento o la rimozione di geni dal DNA oggetto dell’esperimento. C’è dentro di tutto, dal pesce fluorescente al batterio che produce l’insulina. Cose futili e cose utili, insomma. Esistono anche leggende metropolitane simpaticissime, come quella che riguarda i “pomodori antigelo”; che si suppone siano resistenti al freddo grazie ai geni di un pesce che vive in acque fredde. Non è mai accaduto,come spiegato qui; tentarono invero di realizzarli, ma non funzionò. E non fu quindi altro che un esperimento fallito. Anche la “fragola con la lisca” condivide sorte simile: è un ogm che non è mai esistito in commercio; eppure è divenuta un’icona.

Ma in agricoltura cosa si usa effettivamente? Quali sono le cultivar ogm reali che hanno avuto successo? Per farsi una idea c’è uno stringato elenco sempre in enciclopedia, che almeno ne indica le tipologie. Si tratterebbe di alcune decine di varietà, come ricordatoanche qui, per gran parte cereali e leguminose. A dominare la scena sono mais, colza, soia, cotone e riso. Cosa fanno queste piante di differente dalle altre? Nell’elenco della wiki sono indicate alcune capacità di resistere a malattie fungine e virosi; ma se guardate bene, metà delle caselle riporta il carattere di “resistenza a erbicida”. E’ questa la caratteristica davvero importante che accomuna le granaglie ingegnerizzate più diffuse.

Come mai si parla tanto di piante resistenti alla siccità, alle malattie o magari capaci di vivere in ambienti poveri di nutrienti e poi, all’atto pratico, le varietà che possiamo acquistare oggi sono essenzialmente resistenti a prodotti chimici usati per eliminare piante infestanti? Beh, una ragione esiste ed è di ordine pratico: una azienda che sviluppa una varietà di pianta – ogm o meno – commerciabile deve recuperare i costi di ricerca. I poveretti che abitano nazioni povere, prive di suoli fertili e d’acqua, non hanno ovviamente il becco di un quattrino in tasca. Inevitabilmente le aziende del comparto sementi dovranno quindi rivolgere le proprie attenzioni agli agricoltori di paesi più ricchi, capaci di spendere qualche soldo in più. Oltre a questa ovvietà, dovremmo ricordare che gli erbicidi prima o poi divengono accessibili a chiunque: i brevetti scadono. Il caso più famoso e chiacchierato è quello del glifosato, il cui brevetto scadeva, se non ricordo male, nel 2000 / 2001. La Monsanto, non potendo più ottenere introiti adeguati in assenza dell’esclusiva garantita dal brevetto, risolse il problema dedicandosi alla creazione di piante coltivabili resistenti all’erbicida. Ed ecco superato il problema: era quindi possibile applicare un nuovo brevetto ai semi delle piante ogm con questa particolare resistenza, e recuperarne una attività economicamente vantaggiosa. Rendendo tra l’altro più efficaci ed economici i trattamenti, dato che l’applicazione dell’erbicida a coltura già avviata riesce a distruggere le infestanti in maniera più incisiva, almeno in confronto al diserbo presemina praticato in precedenza.

Ma quale può essere il problema con questi organismi – e relate tecniche colturali? Fondamentalmente più o meno la stessa tipologia di problemi che incontriamo con la chimica tradizionalmente intesa, e con l’agricoltura in senso lato. Ogni qual volta creiamo o modifichiamo una sostanza o un organismo, per poi immetterli nell’ambiente e nelle catene alimentari, dobbiamo verificare quali siano i possibili effetti negativi sull’ambiente stesso, sull’agricoltura e sugli esseri umani. E qui entra in gioco un fattore che è tanto determinante quanto allegramente ignorato in molte analisi di rischio: il fattore tempo.

I rischi connessi ad un nuovo intervento, infatti, non sono tutti uguali. Nel caso di una sostanza chimica di solito il primo problema che incontriamo è la sua eventuale tossicità acuta: se mi bevo tanto metanolo, rischio di perdere la vista e di morire. Questi effetti non sono difficili da osservare, dato che li vediamo arrivare in maniera velocissima. E ovviamente tutti conosciamo questo problema: non è difficile stabilire un legame deterministico tra l’avvelenamento da metanolo ed i danni subiti. Ci può riuscire chiunque.

Esiste però anche un modo differente di manifestarsi per i rischi sanitari ed ambientali connessi alle sostanze chimiche: il danno cumulato o differito nel tempo. Se passi le tue giornate in un ambiente che ti espone, che so, a vapori di mercurio di certo non muori. Vivrai a lungo. Solo che dopo un po di tempo – parecchi anni – cominci ad accusare dei problemi gravi: diventi matto, come il Cappellaio di Carroll; o ti ammali gravemente, come tanti minatori sudamericani che usavano il mercurio per estrarre oro con la tecnica dell’amalgama. Vedere le simpatiche opzioni disponibili. Attenzione però: questi danni sono sì gravi, ma non correlabili ad una esposizione circoscritta; e richiedono molto tempo – a volte due o tre decenni – per manifestarsi pienamente. Eppure alla fine presentano il conto, e salato.

In questa maniera possiamo ben capire come fanno gli esseri umani a commettere errori di valutazione così marchiani: vivono il rischio chimico / biologico / nucleare come se il problema fosse esclusivamente confinato agli effetti acuti dello stesso. E sovente ignorano gli effetti delle esposizioni prolungate e relative patologie croniche. In questo modo riescono a sviluppare continuamente nuove applicazioni, più o meno interessanti, che si rivelano estremamente dannose per la salute e l’ambiente dopo alcuni decenni: decenni, non anni. Nessuna meraviglia in ciò: i danni cronici e differiti nel tempo richiedono per definizione tempi estesi per manifestarsi.

Quali sono le tempistiche di questi eventi? Può valere la pena di osservare qualche esempio. Il primo e più banale che mi viene in mente è l’impiego di radionuclidi e radioattività. Le indagini sul tema divengono sistematiche negli ultimissimi anni dell’800, grazie a personaggi come Becquerel e Curie. Per trovare applicazioni pratiche dobbiamo però giungere agli anni della Seconda Guerra, con la realizzazione di reattori nucleari destinati alla produzione di plutonio; e ovviamente le famose bombe lanciate sul Giappone. Negli anni ’50 inizia a diffondersi la disciplina della medicina nucleare, che a livello di idea andava sviluppandosi da molti anni. L’espansione definitiva dell’impiego di sostanze radioattive si avrà a partire dal periodo 1954 – 1956, con la nascita dei moderni reattori nucleari di potenza. Negli anni seguenti, un crescendo travolgente di applicazioni ed impianti.

Il cambiamento di prospettiva nel campo dell’impiego di radioattività è iniziato in maniera graduale; già durante gli anni ’70 ci si cominciava a porre seriamente la questione delle implicazioni sanitarie. In verità più sotto l’effetto psicologico della minaccia delle armi contenute negli arsenali. La svolta arriverà con il celebrato incidente di Chernobyl, nel 1986. I recenti eventi occorsi nell’impianto giapponese di Fukushima Dai-ichi hanno solo ribadito la dimensione del problema. In pratica, sono occorsi almeno 30 – 35 anni dal momento in cui le applicazioni tecniche sono divenute importanti per veder mettere in discussione la bontà delle scelte fatte. E la discussione è ancora in corso, in mezzo ad un mare di polemiche; ad almeno sessant’anni di distanza. Il fatto che, ad esempio, Ucraina e Bielorussia spendano per le conseguenze dell’incidente qualcosa come un 5 – 7 % del bilancio pubblico dice parecchio; e giustifica le liti attorno alla conta delle vittime. Sono trascorsi decenni ed i malati sono tanti; anche a causa delle emissioni diffuse, che avvengono dappertutto, lontano dai riflettori. Eppure ancora nessuno pare voler affrontare la questione.

Altra storia: l’amianto. Era una fibra naturale, ottenuta da rocce basiche alterate; è stata una risorsa abbondante anche in Italia. La sua tossicità, intesa come capacità di causare malattie croniche e tumori, era nota già all’inizio del XX secolo. Bisogna però ricordare che l’impiego dell’amianto come isolante leggero si era sviluppato prepotentemente in Inghilterra per tutto l’800. Se prendiamo il caso particolare del cemento – amianto, chiamato anche eternit, possiamo considerare che l’avventura industriale abbia avuto inizio nei primi anni del ’900; curiosamente all’epoca la pericolosità del minerale era già nota. La diffusione di questi manufatti in fibrocemento diviene massiva negli anni ’30, e prosegue nel dopoguerra. La produzione terminerà solo nei primi anni ’90. La tempistica che ha permesso di passare dall’euforia iniziale al riconoscimento della pericolosità del materiale è variabile; a luoghi l’amianto è ancor oggi tranquillamente utilizzato. Per il caso inglese della fibra isolante c’è voluto un secolo o poco meno; nel caso dell’eternit nostrano sono bastati 60 – 70 anni per una messa al bando.

Nella pratica, che si parli di uranio o di asbesto, il riconoscimento della pericolosità di queste applicazioni industriali ha richiesto tempi molto lunghi. Nel caso dell’amianto incluso nel fibrocemento abbiamo già risultati conclusivi: da applicazione pionieristica a rifiuto letale da rimuovere in una settantina di anni. Nel caso dell’energia elettronucleare il cammino non è concluso, dato che ancora non abbiamo tra le mani il problema dello smantellamento degli impianti in essere. E sono passati 60 anni. Pare di scorgere alcune similitudini in queste vicende: l’euforia iniziale per le nuove applicazioni tecniche prosegue indisturbata per decenni, con successi del tutto evidenti a proprio favore. Nel frattempo gli eventuali danni alla salute ed all’ambiente cominciano a prepararsi, ma con lentezza; basti pensare al fatto che l’amianto attende anche trent’anni per uccidere le proprie vittime. Questo significa che una nuova applicazione tecnica può svilupparsi indisturbata per decenni, anche se avrà ricadute distruttive sulla salute e sull’ambiente; è una questione di tempistica.

E così, a partire dal 1996 abbiamo cominciato a commerciare organismi ogm, li abbiamo diffusi su milioni di ettari di terreno. Nel 2010 quasi 160 mln di ha, che sarebbe poi più di cinque volte la superficie totale dell’Italia. Ed abbiamo reso assolutamente comuni pratiche di allegro impiego di erbicidi a pieno campo, intendendoli come sostituto di ogni altro intervento di contenimento delle malerbe. Oggigiorno queste colture sono diffuse ed importanti, in specie nelle Americhe. Sta andando tutto bene? Beh, non proprio. Nel caso del glifosato la resistenza è ormai diffusa, le erbacce si stanno evolvendo: vedere qui, oppure qui; per una analisi italiana c’è questo. Interessante anche questo articolo, su Nature; che segnala che “….Sagers and her team found two varieties of transgenic canola in the wild — one modified to be resistant to Monsanto’s Roundup herbicide (glyphosate), and one resistant to Bayer Crop Science’s Liberty herbicide (gluphosinate). They also found some plants that were resistant to both herbicides, showing that the different GM plants had bred to produce a plant with a new trait that did not exist anywhere else…”. Le piante ingegnerizzate scappano dalla gabbia, si riproducono, si incrociano, si diffondono, divengono a loro volta infestanti. No, non lo dicono i talebani di Greenpeace: lo dicono tecnici qualificati. Quando la vicenda delle resistenze giunge sulle pagine del WSJ, allora è seria. Le strategie proposte per ora sono intuibili: passare ad altre sostanze, peraltro già note e probabilmente passibili di veder nascere velocemente infestanti resistenti; oppure rivedere il modo di coltivare in varia maniera. O ancora usare mix ed alternanze di sostanze.

C’è un’altra faccenda sul tavolo, che è l’impiego degli erbicidi a man bassa in se stessi, al di là del binomio con gli ogm. Ci sono già in circolazione studi che analizzano i residui degli stessi nelle acque e nella pioggia, tipo questo. O anche questo rapporto dell’USGS. Ovviamente esiste pure il problemi dei residui nel cibo: la presenza di queste sostanze decade esponenzialmente, ma logicamente non si azzera. Tutte queste faccende potrebbero acquisire rilevanza man mano che si diffondono fenomeni di resistenza agli erbicidi: diventa forte la tentazione di aumentare le dosi.

Ora a qualcuno verrà da dire che i problemi che stanno emergendo ci costringeranno a cambiare strada in maniera drastica; qualcun altro dirà invece che possiamo risolvere ogni inconveniente con nuove piante e nuove sostanze chimiche. E poi, invariabilmente, si continueranno ad accendere dispute attorno alla pericolosità reale o presunta di un organismo o di una molecola. Quello che manca, e che mancherà a lungo in molte discussioni, è la percezione dell’importanza dell’orizzonte temporale. Le nostre pregresse avventure con contaminazioni estensive hanno dimostrato che i danni dovuti a malattie croniche e degenerative si mostrano dopo 20 o 30 anni; e che i problemi correlati divengono gravi e diffusi con ulteriore ritardo. Stessa logica per i danni al suolo ed agli ecosistemi: per manifestarsi richiedono tempi lunghi.

L’avventura delle sementi biotech è iniziata l’altro ieri, e non è poi così importante sapere che alcune di esse sono in difficoltà dopo appena un decennio di impiego realmente estensivo. Quel che conta davvero è che non è ancora passato tempo a sufficienza per poter cominciare a ragionare sugli effetti cronici dell’immissione nell’ambiente di nuove piante e sostanze in quantità così massicce. Gli effetti di lungo termine su suoli, rese agricole e salute ancora non possiamo misurarli, non c’è modo di farlo; non sono effetti acuti, ma semmai cronici. Ed è cosa ben diversa. Possiamo comunque attendere, che so, un paio di decenni: il tempo è galantuomo, e riuscirà come sempre a chiarirci le idee.

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Smog: call action per avere 2mila euro di risarcimento In 45 città i cittadini potranno chiedere il risarcimento di 2mila euro per essere costretti a vivere in città malsane e inquinate.

co2 smog
ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ 

scarico dieselSmog letale, Oms: certo un rapporto tra cancro e gas scarico diesel

Provata la relazione, diventano più probabili e incisive le class action contro i sindaci che non bloccano la circolazione quando si sforano i limiti.

PEGGIO D’ESTATE 

caldo cittàCaldo e inquinamento: le città soffrono di più a causa del mix dannoso

L’anticiclone africano continua e il Ministero della Salute mette in allerta 7 città, che ricevono il bollino rosso. Ma non sono le sole a doversi preoccupare: gli effetti del caldo possono essere più gravi per la presenza di elevate concentrazioni di inquinanti atmosferici. Ecco la guida del Ministero per evitare le emergenze.

2mila euro di risarcimento danni. È questo quello che possono chiedere (a fronte di un contributo di 6 euro) i cittadini residenti nelle 45 città dove i limite di sforamento delle soglie giornaliere di Pm10 è “eccessivo”, superiore cioè ai 35 giorni all’anno. E questo per il fatto di essere costretti a vivere in un ambiente malsano e inquinato.

L’azione è promossa dal Codacons che, di recente, ha anche presentato un esposto allaProcura della Repubblica chiedendo ilsequestro preventivo di tutti i veicoli diesel diMilano e provincia, alla luce delle dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità che ha indicato come “cancerogeni certi” i gas di scarico di questo tipo di vetture.

Colpevoli di questa situazione, secondo l’associazione, sarebbero le istituzioni, in particolare Regioni Comuni, che sono obbligati a monitorare gli agenti inquinanti e ad adottare misure per contrastarli. Ma, «molti comuni, province e regioni continuano a non tutelare la salute dei cittadini, con la conseguenza che oltre8.500 persone muoiono ogni anno in Italia a causa dello smog» sostengono dal Codacons.

Ecco l’elenco delle città, diviso per Regione, in cui si può chiedere il risarcimento.

Lombardia: Milano, Como, Lodi, Pavia, Bergamo, Cremona, Mantova, Varese, Brescia, Lecco, Monza. PiemonteTorino, Biella, Alessandria, Novara, Asti, Vercelli. Emilia Romagna: Bologna, Modena, Ravenna, Ferrara, Parma, Reggio Emilia, Forlì, Piacenza, Rimini. Veneto: Venezia, Treviso, Padova, Verona, Rovigo, Vicenza. Toscana: Firenze, Lucca. Marche: Ancona, Macerata.Lazio: Roma, Frosinone. Abruzzo: Pescara, Teramo. CampaniaNapoli, Benevento. Sicilia: Palermo. Sardegna: Cagliari.

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Veleni lucani In Basilicata fallito il ciclo dei rifiuti

Il segretario dei radicali lucani, Maurizio Bolognetti, ieri mattina ha consegnato alla commissione Ambiente della Camera dei deputati una memoria sul «Caso Fenice», che riguarda l’impianto di termovalorizzazione dei rifiuti di Melfi: nel documento, è scritto in una nota, si sottolinea che «per anni, in aperta violazione del codice dell’Ambiente, Arpab e Fenice non hanno comunicato che era in atto un grave inquinamento della falda acquifera». Bolognetti ha inoltre descritto «la fallimentare gestione del ciclo dei rifiuti in Basilicata con percentuali di raccolta differenziata lontanissime dagli obiettivi fissati dalle norme del 2006», evidenziando poi la necessità di « u n’indagine epidemiologica e biologica nella zona del Vulture- Alto Bradano». La commissione ha ascoltato nelle ultime settimane tecnici, rappresentanti delle istituzioni e sanitari sulla vicenda dell’im – pianto, in seguito ad alcune risoluzioni presentate dai deputati Elisabetta Zamparutti (radicale, eletta in Basilicata nelle liste del Pd) e Salvatore Margiotta (Pd). Ecco stralci del documento consegnato da Bolognetti.

FENICE – «Con nota datata 6 ottobre 2009 è stato suggerito alla Procura di richiedere ad Arpab di procedere con urgenza al prelievo e all’analisi dell’acqua dei pozzi esistenti in zona a monte e a valle del sito. La richiesta è stata prontamente trasmessa dal pm ad Arpab, ma nonostante i dati richiesti fossero indispensabili per stabilire se le anomalie riscontrate fossero state o siano ancora pregiudizievoli per l’uso delle acque da parte di agricoltori della zona, e nonostante i vari solleciti, alcuna delle analisi richieste è stata consegnata al sottoscritto da Arpab o dalla Procura della Repubblica di Melfi (dalla perizia del professor Franco Fracassi, consulente tecnico della Procura, ndr)».

FONTE

LE DIOSSINE – «Rispetto alle diossine noi non eseguiamo il controllo, ma stiamo in questo momento definendo con la Regione un processo per l’acquisto di strumentazioni (Raffaele Vita, direttore Arpab – da audizione in terza Commissione consiliare permanente del 6 luglio 2011)».

PATOLOGIE – «Nelle popolazioni esposte alle emissioni di inquinanti provenienti da inceneritori sono stati segnalati numerosi effetti avversi sulla salute sia neoplastici che non. Fra questi ultimi si annoverano: incremento dei nati femmine e parti gemellari, incremento di malformazioni congenite, ipofunzione tiroidea, diabete, ischemie, problemi comportamentali, patologie polmonari croniche aspecifiche, bronchiti, allergie, disturbi dell’ infanzia. Ancor più numerose e statisticamente significative sono le evidenze per quanto riguarda il cancro: segnalati aumenti di cancro al fegato, laringe, stomaco, colon-retto, vescica, rene, mammella. Particolarmente significativa risulta l’ associazione per cancro al polmone, linfomi non Hodgkin, neoplasie infantili e soprattutto sarcomi, patologia “sentinella” dell’ inquinamento da inceneritori. Studi condotti in Francia ed in Italia hanno evidenziato inoltre conseguenze particolarmente rilevanti nel sesso femminile (professore ssa Patrizia Gentilini – Isde Italia, ndr)».

OMISSIONI ARPAB – « L’associazione Radicali Lucani, a partire dal 2009, ha ripetutamente denunciato omissioni da parte della locale Agenzia per l’am – biente, ipotizzando – sulla base degli elementi disponibili – i reati di omissione d’atti d’uf ficio, disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari. Dal 2000, anno d’inizio delle attività, l’inceneritore di proprietà della multinazionale francese Edf inquina le falde acquifere con metalli pesanti e composti organici volatili. Per circa 9 anni l’inquinamento non è stato comunicato a enti e cittadini, in palese violazione dell’articolo 5 comma C della Convenzione di Aarhus».

Spiagge italiane, un mare di mozziconi

12mln e 440mila cicche gettate in spiaggia dai fumatori italiani. Questione di maleducazione e di inquinamento, che rimarrà nell’ambiente fino a 5 anni

 

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1Riciclo no limits

Guarda quante cose si possono riciclare!

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gogreenAnche i mozziconi fregano l’ambiente

Di chi è la responsabilità? Solo nostra!

Spiagge affollate, canicola di luglio, ghiacciolo rinfrescante, bagno e una bella sigaretta. Questo l’usuale tran-tran dei bagnanti che si riversano inspiaggia in cerca di refrigerio. 
E quelle sigarette che fine fanno? A meno che non si sia in una spiaggia privata, munita diposacenere, spesso i mozziconi si trasformano in un tappeto di cenere all’aria aperta.

E fosse solo cenere! Il vero problema è che – consapevoli o no – i 13 milioni di fumatori italiani, non spargono solo quella nell’ambiente, ma lasciano in spiaggia un bel mix di sostanzeinquinanti
Nei 3 cm di un mozzicone, infatti, ci sono contenuti: nicotina, classificata come veleno, per una quantità pari a 4,5 milligrammi; polonio 210, sostanza radioattiva altamente cancerogena; e poibenzeneacetonetolueneformaldeide, tutti elementi non certo salubri per la salute. E si potrebbe continuare ancora parlando dell’ammoniaca, dell’acido cianidrico e dell’acetato di cellulosa.

Ma la maleducazione italiana sembra non finire qui. Le coste italiane, infatti, sono ogni anno invase da 45 tonnellate di rifiuti. In testa, ovviamente, le sigarette (27% del totale) e poi, a seguire, cotton fioccannuccestecchi di gelatobuste ebottiglie di plastica.

È tempo di pensare a cosa si getta per terra. E poi a casa propria non si buttano le cicche sul pavimento, perché all’esterno dovrebbe essere diverso?