Amianto: il peggio deve ancora venire (picco tumori tra il 2015 e il 2020)

Eternite

Il Ministero della Salute ha comunicato che in Italia devono essere smaltite ancora trentadue milioni di tonnellate di amianto. Sono infatti trentaquattromila i luoghi rubricati come pericolosi, a seguito dell’ultima mappatura sul nostro Paese.

I dati sono stati illustrati nel corso di un incontro tenutosi a Casale Monferrato. All’iniziativa hanno partecipato il Ministro del Lavoro insieme ad alcuni rappresentanti del Ministero della Salute e dell’Ambiente.

 

La significativa presenza dell’amianto è dovuta al fatto che, tra 1945 e il 1992, in tutto il mondo occidentale sono state impiegate ingenti quantità di tale materiale per la realizzazione di vari tipi di costruzioni, per via della sua resistenza al calore e per le note proprietà anti incendio. Inoltre è solo dal 1992 che in Italia è vietato l’impiego di Eternit [1].

Come ha evidenziato il Ministro Balduzzi, quella dell’amianto è “un’emergenza nazionale”. I dati sono allarmanti: ancora mille persone all’anno si ammalano di tumore ai polmoni per l’esposizione alla polveri prodotte dall’Eternit.

 

Le fibre di absesto, infatti, possono permanere nell’organismo anche per oltre trent’anni. Per questo, alcune previsioni profetizzano che il picco delle malattie e delle morti correlate all’impiego di amianto si avrà tra il 2015 ed il 2020.

 

 

[1] L.  n. 257 del 1992.

 

 

La foto del presente articolo è un’opera artistica di Dantemanuele De Santis, DS Photostudio, ©. Ogni riproduzione riservata.

 


 

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PRESENTAZIONE LIBRO AMIANTO/ASBESTO

una panoramica di una parte del salone durante la presentazione del libro del prof. Giancarlo Ugaziouna panoramica di una parte del salone durante la presentazione del libro del prof. Giancarlo Ugazio

Grande partecipazione all’assemblea del Comitato e alla presentazione del libro AMIANTO/ASBESTO Ieri, oggi, domani.

Il salone del Centro di Iniziativa Proletaria sabato 22 settembre era strapieno come nelle grandi occasioni, con persone che non sono riuscite ad entrare per la presentazione del libro del prof. Giancarlo Ugazio.

Dopo l’illustrazione dell’autore si è aperto il dibattito con domande di approfondimento e considerazioni molto interessanti a cui il prof Ugazio ha dato prontamente risposta. Una giornata all’insegna dell’approfondimento sulle malattie derivanti dall’amianto che ha dimostrato come queste siano molte (non solo il mesotelioma) e che le fibre d’amianto siano cancerogene non solo se respirate, ma anche se ingerite con il cibo e l’acqua.

Il dialogo e lo scambio reciproco fra le vittime e gli ex esposti amianto con il dott. Ugazio sono stati un momento importante sul terreno della prevenzione primaria.

Amianto. Quali sono le patologie asbesto-correlate?

Come già accennato, l’Italia è stata fino al bando del 1992 uno dei maggiori Paesi produttori e importatori di amianto grezzo, con oltre 3,5 milioni di tonnellate consumate a partire dal secondo dopoguerra alla messa fuori legge. 

 

Ma cosa comporta questo per la salute? Negli anni la cronaca ci ha spiegato che la polvere di amianto è carcinogena, e riconosciuta causa del mesotelioma, una forma di tumore particolarmente aggressiva che colpisce in particolare la pleura: a dirlo sono i decessi avvenuti in tutta Italia a causa di questa patologia, di cui esempio emblematico sono le diverse migliaia di morti a Casale Monferrato dove si trovavano le fabbriche di Eternit AG, e dove i morti e i malati di tumore individuati tra cittadini e soprattutto tra alcuni tipi di lavoratori sono più che altrove e non accennano a diminuire a distanza di anni: per circa il 10% dei casi infatti l’esposizione è avvenuta in ambito residenziale o familiare, ma i settori di attività maggiormente coinvolti sono quelli con uso diretto di amianto, come la cantieristica navale, l’edilizia e l’industria del cemento-amianto.

                                     

Il mesotelioma

Il tasso di incidenza di mesotelioma per 100 mila abitanti è pari, per la sede pleurica, a 3,6 casi negli uomini e 1,6 nelle donne. La latenza è particolarmente lunga (oltre i 40) e non è identificabile una soglia di esposizione al di sotto della quale il rischio sia assente. La diagnosi precoce, inoltre, è difficoltosa, visto che la patologia non ha sintomi riconoscibili nella fase iniziale, né sono ancora stati trovati biomarker in grado di fornire prova di avvenuta attivazione del processo eziopatologico.

Per questo, il migliore strumento in mano ai medici è la TAC multistrato, insieme alla PET e alla risonanza magnetica. Con questi strumenti è possibile infatti diagnosticare il mesotelioma pleurico, capire lo stadio di avanzamento della malattia, ma soprattutto definire l’istotipo (epiteliale, bifasico, sarcomatoide) e dunque capire prognosi e terapia. 

 

Quali cure? Il farmaco più attivo è il cis-platino in monoterapia e la combinazione con antifolati, terapia che comporta un miglioramento significativo nella sopravvivenza. Il ruolo della chirurgia rimane invece controverso: la pleuropneumonectomia extrapleurica è limitata dall’età e dalla stadiazione del tumore, e comunque eseguita esclusivamente in Centri di eccellenza; la pleurectomia/decorticazione ha mostrato risultati sovrapponibili, con minore morbidità e mortalità.

 

Le altre patologie neoplastiche e non

L’inalazione di fibre di amianto però, non è solo causa di mesotelioma, ma anche di tumori del polmone, laringe e ovaio, nonché di malattie non neoplastiche, come asbestosi e pleuropatie.

Tuttavia, in questi casi spesso comprendere l’effettiva portata del ruolo dell’amianto è più complicato: ad esempio, per il tumore polmonare lo spettro di carcinogeni che possono essere coinvolti nell’insorgenza è molto più ampio del solo asbesto. Nonostante questo, si stima siano circa 1000 i casi di questa neoplasia che ogni anno sono attribuibili all’esposizione professionale all’amianto. In questo caso, al contrario che per il mesotelioma, esistono però degli indicatori che potrebbero permettere la diagnosi precoce, anche se il loro utilizzo per campagne di screening è ancora lontano. Anche in questo caso, dunque l’esame più importante rimane la TAC spirale. 

 

E oltre ai tumori? Anche le manifestazioni non neoplastiche dovute all’amianto (asbestosi, pleurite essudativa acuta e cronica, placche pleuriche, ispessimento pleurico diffuso, bronco pneumopatia cronica ostruttiva) hanno un’epidemiologia non ben definita, anche per via delle forme silenti o dell’assenza di diagnosi nelle stadi iniziali. Di nuovo, sono stati proposti biomarcatori e test non invasivi per la diagnosi precoce, per la stadiazione e per la prognosi delle patologie asbesto-correlate, tuttavia l’utilizzo di TAC spirale a bassa dose rimane una delle prime scelte. Non esistono terapie specifiche, ma si usano per lo più glucocorticoidi, da soli o in associazione con altri farmaci.

 

La prevenzione

Chiaramente, il metodo più efficace per prevenire le patologie asbesto-correlate rimane impedire o limitare più possibile l’inalazione delle fibre. Ciò vuol dire però che bisogna adottare misure tecniche volte proprio a questo scopo: da una parte sistemi di prevenzione primaria durante le opere di bonifica, o nelle attività che obbligano a convivere con il materiale; dall’altra la prevenzione secondaria, ovvero l’istituzione di intervento sanitario specifico per il trattamento di queste patologie.

I MORTI SUL LAVORO SONO OMICIDI

 

L’ESTATE RALLENTA I RITMI DEL LAVORO MA NON ARRESTA LA TRAGEDIA DELLE MORTI BIANCHE. TRA GIUGNO E LUGLIO SONO STATE 100 LE VITTIME NEL NOSTRO PAESE. 308 DALL’INIZIO DELL’ANNO.

 

Nonostante l’estate e il rallentamento del ritmo delle attività produttive, il bilancio delle morti bianche non si arresta. Sono 308 le vittime del lavoro registrate nei primi sette mesi del 2012 contro le 300 del 2011 con un incremento del 2,7 per cento. E ancora: nei soli mesi di giugno e luglio sono morti 100 lavoratori. Come fossero deceduti in due mesi tutti i dipendenti di una media azienda.

Questi i primi dati che emergono nella più recente indagine condotta dagli ingegneri dell’Osservatorio Vega Engineering di Mestre.

Continuano così a definirsi sempre più nitidamente i contorni delle situazioni peggiori nel nostro Paese con la Lombardia che conta 41 morti bianche, seguita dall’Emilia Romagna (40), dalla Toscana (30), dal Veneto 24, dalla Campania (23) e dal Piemonte (20).

Mentre per incidenza di vittime rispetto alla popolazione lavorativa – si tratta quindi della misurazione del rischio effettivo – è l’Abruzzo a guidare la classifica con un indice di 34,4 contro una media nazionale pari a 13,5. Seguono Trentino Alto Adige e Molise (27,7) e Basilicata (27).

Tra le province italiane è Modena a far rilevare il maggior numero di vittime sul lavoro con 17 decessi da gennaio a luglio. Seconda è Brescia (13 – 2 in più rispetto a fine giugno), terza Salerno con Torino (10). Il più alto rischio di mortalità rispetto alla popolazione lavorativa viene invece registrato a Grosseto (93,5). Seguono: Modena (55,9), Nuoro (52,9), Pescara (51), Avellino (48,3), Benevento (45,7).

La principale causa di morte registrata dall’Osservatorio è quella provocata da una caduta dall’alto (22,7 per cento delle morti), seguita dal ribaltamento di un veicolo/mezzo in movimento (22,1 per cento); al terzo posto lo schiacciamento dovuto alla caduta di oggetti pesanti dall’alto (17,5 per cento).

Ancora in agricoltura il maggior numero di morti bianche con 37,8 per cento del totale delle vittime sul lavoro; nel settore delle costruzioni invece è deceduto il 24,8 per cento dei lavoratori. L’8,1 per cento degli eventi mortali, invece, è stato rilevato nel commercio e nelle attività artigianali; mentre il 6,2 nei trasporti, magazzinaggi e comunicazioni;

Il dettagliato studio dell’emergenza condotto dagli esperti dell’Osservatorio Vega Engineering (tutti i dati sono disponibili sul sito www.vegaengineering.com) continua quindi con la nazionalità delle vittime. Si scopre così che gli stranieri deceduti sul lavoro sono il 12,9 per cento del totale. I rumeni i più numerosi. Mentre le fasce d’età più colpite sono quelle che vanno dai 45 ai 54 anni (77 vittime), quella dei 35 – 44enni (63 morti), degli ultrasessantacinquenni (62). Rispetto alla popolazione lavorativa l’indice di incidenza più preoccupante è proprio quello degli ‘over 65’ (165); segue il 21,9 della fascia 55-64 e il 12,3 dei 45-54.

 

Informazioni per la stampa

Ufficio Stampa: Dott.ssa Annamaria Bacchin

Tel 0413969013 – bacchin@vegaengineering.com

www.vegaengineering.com

http://www.comitatodifesasalutessg.com/2012/08/28/i-morti-sul-lavoro-sono-omicidi/

 

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

 Dal quotidiano on-line affaritaliani.it

 

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

Martedì, 21 agosto 2012 –

 

di Lorenzo Lamperti

Clini e il governo stanno facendo allarmismo. Cercano di metterci l’uno contro l’altro ma non attacca. Taranto non si beve più le loro bugie”. Francesco Maresca ha lavorato per 31 anni all’Ilva di Taranto, reparto parchi minerali. Insieme ad altri ex operai in pensione e a un tecnico di Legambiente sta lavorando a un documento (“Produrre acciaio pulito è possibile”) e racconta la sua esperienza in azienda ad Affaritaliani.it: “Non è vero che un altoforno si riaccende in otto mesi. Bastano tre settimane. Non inquinare è possibile, ma ci vuole la volontà a spendere soldi. I milioni di Ferrante e del governo? Una barzelletta. Se non si investe lo Stato espropri”.

Forte la critica ai sindacati: “Nel periodo della gestione pubblica era forte. Quando c’erano problemi per la sicurezza non si andava a lavorare. Con i Riva invece è stato lasciato tutto in mano all’azienda e nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente”. Sulla salute: “Non è mai stato fatto niente per tutelarla. Là dentro è un macello, quando si fanno le colate è un inferno“. E sulle istituzioni: “Siamo delusi da tutti, daVendola al governo. Fanno accordi, sono tutti contenti e poi cade tutto neldimenticatoio“.

Francesco Maresca, il ministro Passera ha detto che se si chiude l’area a caldo chiude tutto lo stabilimento. E’ davvero così?

L’argomento viene usato politicamente dai ministri che si esercitano a parlare dell’Ilva. Chiudendo l’area a caldo ci sarebbe bisogno di comprare acciaio altrove, e non credo che il patron Riva ne abbia l’intenzione. Per questo tecnicamente è vero: se si chiude l’area a caldo chiude l’Ilva. Ma solo perché l’azienda non vuole comprare altrove.

Il governo sostiene che far ripartire l’altoforno sia un’operazione molto lunga che richiede anche otto mesi. Addirittura si paventa l’ipotesi che sia una cosa “infattibile”. E’ davvero così?

No, sono sicuro che per riattivare un altoforno ci vogliano circa tre settimane. Bisogna considerare il problema dell’abbassamento delle temperature, è ovvio: se si spegnesse di colpo togliendo per intero il calore si spacca tutto. Se la temperatura viene abbassata gradualmente, invece, l’altoforno potrebbe ripartire in breve tempo.

Quindi è possibile risanare e tornare a produrre. Il limite a questa operazione è solo il costo per l’azienda, dunque?

Eh certo. Non si tratta solo di spendere per ammodernare e limitare le emissioni inquinanti ma anche di perdere produttività.

Non si potrebbe produrre “a moduli”, spegnendo per esempio un altoforno per volta e continuare a produrre con gli altri (l’Ilva ne ha cinque, ndr)?

Sì, questo è fattibile e di fatto avviene già. Quando un altoforno finisce la propria campagna si opera in questo modo. Ma il problema non sono solo gli altoforni. Il problema vero sta nelle cokerie, nell’agglomerato e nei parchi minerali.

Come si potrebbe intervenire su questi settori?

Insieme ad altri ex dipendenti e una ricercatrice che si occupa di temi di lavoro ho scoperto che esistono tecnologie in funzione da diversi anni che si chiamano Corex e Finex. Un sistema che saltando il processo di sinterizzazione abbatte drasticamente l’emissione di inquinanti. Si parla addirittura del 70 e dell’80%. Adottando questo sistema si risolverebbe il problema delle cokerie e dell’agglomerato. Resterebbe la questione dei parchi minerali.

Quindi produrre acciaio pulito è possibile?

Stiamo lavorando a una proposta organica per diversificare la produzione e far sì che questo sistema sia adottato in diversi stabilimenti. Perché non si dovrebbe produrre anche a Novi Ligure o a Genova? Si potrebbe ridurre il peso su Taranto, che attualmente produce con quattro altoforni dieci milioni di tonnellate di acciaio e, se si riutilizzasse anche il quinto altoforno, si arriverebbe a dodici tonnellate e mezzo.

Come se ne esce da questa vicenda?

Alla situazione attuale se ne esce male. Se i finanziamenti sono quelli di cui si è parlato finora stiamo freschi. Tra qualche settimana siamo a punto e a capo.

Non sono abbastanza dunque i 146 milioni di cui parla Ferrante?

Macché, e nemmeno i 336 del governo. Sono una barzelletta, con queste cifre non si combina niente.

E’ vero che dall’alto, anche dal governo, si sta cercando di mettere l’una contro l’altra due parti di Taranto, gli operai che difendono il loro posto di lavoro e chi invece vorrebbe vedere tutelata la propria salute?

Su questo ci si può mettere la firma. Stanno riproponendo vecchi schemi, vecchi modi di mettere calunnie in giro per screditare quelli più in vista. E’ una tecnica ormai consolidata che su chi conosce come funzionano queste cose non fa nessun effetto. Ma per i tanti giovani dell’Ilva che non hanno mai fatto politica o sindacato il rischio si fa più alto.

A proposito di sindacato, come giudica il suo operato?

Avrei preferito non dover rispondere a questa domanda. C’è da tener conto che tra Fiom, Fim e Uilm ci sono stati spesso contrasti e posizioni divergenti. Ricordo quando qualche anno fa licenziarono i due delegati della Fiom. Addirittura una parte del sindacato non solo non si schierò a favore dei due sindacati ma cercò di togliere l’acqua da sotto la barca isolandoli. La colpa dei due delegati? Fermare una siviera che faceva acqua e che poteva comportare gravi rischi per la sicurezza. Sulla questione dell’ambiente però non ci sono state differenze: Fim, Fiom e Uilm hanno tutti firmato gli accordi di programma che si sono succeduti nel corso degli anni. Si stanno differenziando più sulla vicenda dei magistrati che sul contenuto delle cose.

Parlando di magistratura, la città è davvero schierata con il gip Todisco?

Su questo non c’è dubbio, anche se secondo me stare in modo così pernicioso sulla Todisco non le fa bene. Lei sta solo facendo il suo lavoro, farne un santino del gip provoca danni soprattutto a lei.

Da molte parti si dice che il governo stia facendo pressione sulla magistratura. Lei è d’accordo?

Direi che per questo parlano le frasi dei ministri riportate anche dai giornali. Basta leggerle… Clini e il governo stanno facendo allarmismo perché hanno paura di perdere una così grossa produzione di acciaio. Ma su una parte della città le loro sparate non attecchiscono più. Anzi, in molti che erano dalla parte dell’azienda vedendo le falsità che vengono dette passano dall’altra parte.

Lei ha lavorato per 31 anni all’Ilva e ha visto sia la gestione pubblica sia la gestione privata. Nella tesi difensiva si dice che i morti e le malattie sono stati causati dalla gestione dello Stato e non da quella di Riva. Il Riesame però smentisce questa ricostruzione. Qual è la verità?

Le malattie che provoca il siderurgico si possono sviluppare in 3 o 4 anni come quelle asmatiche ma quelle tumorali sono di lungo periodo. Hanno uno sviluppo tra i 20 e i 30 anni. Oggi cominciamo a vedere che muoiono sempre più operai in pensione.

Sta dicendo che i veri effetti della produzione dei Riva si vedrà solo tra qualche anno?

Purtroppo sì. E la sensazione è molto negativa, perché non è mai stato fatto nulla per tutelare ambiente e salute. Anni fa, dopo che Sebastio gli ordinò di aumentare le ore di cottura del coke, Riva si rifiutò. Uno dei problemi delle cokerie, infatti, sono le ore di cottura: non producono solo benzoapirene, ci sono anche gli idrocarburi. Meno ore di cottura ci sono e più porcherie le cokerie buttano fuori. Basterebbe imporre di alzare le ore di cottura per ridimensionare le emissioni inquinanti.

Poi però ci sono anche le emissioni diffuse…

Quando scaricano il coke è un macello. La situazione diventa da inferno dantesco.

Lei lavorava nell’area dei parchi minerali, quindi una di quelle a rischio. I lavoratori non chiedevano mai all’azienda conto dei rischi che si correvano? E cosa vi veniva risposto?

Nel periodo della gestione pubblica e dei primissimi anni della gestione Riva c’era ancora la vecchia classe operaia. Quando le cose non funzionavano non si andava a lavorare. Finché non si metteva a posto non si lavorava. Molto spesso abbiamo bloccato i lavori dove c’era l’amianto. Si doveva litigare con i capi perché dicevano che non era amianto. Poi si chiamavano i tecnici, si facevano le analisi e veniva fuori che era amianto. Con i nuovi, i giovani hanno avuto vita più facile. Il sindacato ha lasciato fare all’azienda e con tutta la storia dei contratti di formazione e la paura che non fossero rinnovati nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente.

Il Riesame, citando il caso della presunta “mazzetta” al professor Liberti, scrive che le pressioni dell’Ilva è una politica aziendale. Anche tra gli operai c’era questa sensazione?

Ma certo, figuriamoci. Un’azienda del genere quando si trova in difficoltà unge le ruote per farle girare. Sarebbe sciocco credere il contrario.

Il governatore Vendola ha fatto dell’ambiente una propria bandiera. Come giudica il suo operato sulla vicenda Ilva?

Noi siamo delusi da tutte le istituzioni locali. Ogni volta che c’è un accordo sono tutti soddisfatti ma mai una volta che si vada a verificare che gli accordi siano messi in atto. Nel 2005, per esempio, erano stati stanziati 55 milioni per bonificare i Tamburi. Poi però sono stati usati altrove. I politici sono sempre tutti contenti, ma alla fine non c’è mai nessun risultato. Vendola ha fatto qualcosa per la diossina, ma il problema sono i controlli. Non li puoi fare tre volte all’anno perché poi quello che succede negli intervalli di tempo non lo puoi sapere. E intanto intorno all’Ilva la città cade a pezzi…

Ferrante può portare i cambiamenti che servono?

Finora non vedo molti elementi positivi, però staremo a vedere e cercheremo di conoscerlo un po’ meglio. Teniamo conto che Ferrante, come tutti quelli che vanno mandati avanti dai proprietari effettivi, fanno quello che gli viene detto dall’alto.

La storia rischia di chiudersi come le altre volte? Un accordo di facciata che faccia contenti tutti e poi non cambia nulla?

Il potere gioca sul tempo. Se il movimento di protesta che si è creato non dovesse raggiungere qualche risultato in breve tempo tutto cadrà di nuovo nel dimenticatoio. Taranto è una città disgraziata che vive di sobbalzi. Adesso c’è un sobbalzo: speriamo che duri, perché poi quando arriva la disillusione è un problema. Ora c’è una parte di città che è più attenta. Bisogna insistere su questa e non perdere lo slancio, altrimenti sarà stato di nuovo tutto inutile.

E’ possibile che Riva lasci Taranto?

Secondo me non la lascerà mai. Non gli conviene, l’azienda va bene e produce profitto anche in un momento di crisi come questo. Il problema sono i soldi necessari ad ambientalizzare. Se Riva non li vuole mettere, lo Stato faccia l’esproprio dello stabilimento e si ritorni alla gestione pubblica.

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Per il Tribunale del Riesame l’Ilva sapeva di inquinare

Il dispositivo depositato dai giudici: “Produzione potrà continuare solo se resa ecocompatibile”. Clini: ‘lavoriamo nella stessa direzione’

Per il Tribunale del Riesame l'Ilva sapeva di inquinare
Taranto, 20 ago. (TMNews) – Per i giudici del Riesame non ci sono dubbi sulle responsabilità dell’inquinamento ambientale dell’area dello stabilimento dell’Ilva di Taranto, determinato nel corso degli anni “attraverso una costante e reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti” dell’Ilva. I giudici del Riesame di Taranto, Morelli, Ruberto e Romano, nel confermare il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo dello stabilimento tarantino a cui sono stati posti i sigilli lo scorso 25 luglio, hanno ribadito anche gli accertamenti svolti sulla qualità dell’aria, del suolo e dei reparti animali, dai periti del gip durante l’incidente probatorio. Nel provvedimento, composto di 123 pagine, non ci sono dubbi sulle responsabilità di questo disastro “determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante e reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”. Così come sono adesso, gli impianti sequestrati, sono pericolosi e necessitano di lavori di adeguamento. E’ dunque confermato il sequestro senza facoltà d’uso per gli impianti Ilva di Taranto, con la possibilità affidata ai custodi giudiziari di fermare gli impianti. Fra le 123 pagine di motivazioni, un capitolo è dedicato alle esigenze cautelari degli otto indagati. I giudici tarantini chiamati a rivedere l’ordinanza di arresto ai domiciliari per Emilio e Fabio Riva, per il direttore dello stabilimento Capogrosso e per cinque dirigenti delle aree sequestrate, confermano l’arresto dei primi tre ed il pericolo di reiterazione dei reati e di inquinamento delle prove e ribadiscono “la spiccata pervicacia, spregiudicatezza e capacità a delinquere di cui i Riva ed il Capogrosso, quali organi di vertice della società che gestisce lo stabilimento, hanno dato prova, persistendo nelle condotte delittuose nonostante la consapevolezza della gravissima offensività, per la comunità cittadina ed i lavoratori, delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali”. “La strada indicata dal Tribunale del riesame è convergente con quella del governo. Lavoriamo nella stessa direzione, ora spetta all’Ilva investire”. Così il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha commentato a margine del Meeting di Comune e liberazione a Rimini l’interpretazione del Tribunale del riesame. Difendere l’ambiente non vuol dire bloccare lo stabilimento dell’Ilva di Taranto. Questo aprirebbe la strada a “fenomeni sociali che sarebbero drammatici”, ha aggiunto il ministro. Int

Amianto sulle auto cinesi?

In Australia, può partire un richiamo di auto importate dall Cina: il dubbio è che per la loro costruzione sia stato utilizzato amianto

auto cinese

Per ora è solo un sospetto, che per dovere di cronaca ci limitiamo a riportare: le autorità australiane hanno richiesto di effettuare un richiamo di auto importate dalla Cina, perchépare che per la loro costruzione sia stato utilizzato l’amianto. Si tratterebbe, secondo l’agenzia Bloomberg, di vetture appartenenti alle aziende Great Wall (quella che era stata accusata da Fiat di aver clonato la Panda) e Chery (che dà i pezzi all’italiana DR, la quale li assembla nel nostro Paese).

VIETATO – Il Wall Street Journal è più circostanziato: “Un importatore australiano ha richiamato 23.000 auto cinesi dopo che una sonda del Governo ha trovato amianto nelle guarnizioni del motore e nello scarico”. La Commissione australiana per la concorrenza ha dichiarato chel’importatore Ateco Automotive Pty. Ltd. sta richiamando le auto prodotte da Great Wall Motor Co. e la Chery Automobile Co. Stando alla commissione, l’amianto è proibito dalla legge australiana, anche se non costituisce un rischio immediato per i conducenti che utilizzano i veicoli. Sembra che Chery abbia già diramato un comunicato in merito: l’utilizzo di amianto nelle unità di esportazione sarebbe stato un errore. Chery e Great Wall Motor hanno spiegato di aver cessato l’utilizzo di amianto nelle guarnizioni per le auto destinate al mercato estero proprio dopo un esame effettuato dalle autorità australiane. Ma il passaggio chiave è un altro: i portavoce di entrambe le società si sarebbero difesi sostenendo che l’uso di amianto per guarnizioni risulterebbe comunque legale in Cina. Insomma, la loro difesa parrebbe questa: nella nazione della Grande Muraglia, usiamo l’amianto, perché è legale; se c’è amianto nelle macchine esportate, si tratta di un errore. C’è anche da dire che Chery offre i vari componenti all’italiana DR di Di Risio (Macchia d’Isernia, Molise), assemblati in Italia: anche DR diramerà un comunicato per spiegare che tutti i pezzi Chery sono assolutamente privi di amianto? Ricordiamo che se, sul pianeta, l’amianto era presente nelle auto (pastiglie dei freni, frizioni e alcuni pannelli di isolamento acustico e termico, vernici), nelle navi, nelle case e altrove, nel nostro Paese è vietato dal 1992 perché causa il cancro ai polmoni e crea gravi problemi all’ambiente.

LA CINA È LONTANA – Se davvero in Autostralia le autorità dovessero seguire la strada del richiamo, e se emergesse la presenza di amianto, sarebbe un duro colpo sotto il profilo dell’immagine per le due aziende cinesi, che hanno (legittimamente) piani di espansione negli Stati Uniti e in Europa. Nazioni come la Russia, Iran, Algeria e Iraq sono i mercati preferiti degli esportatori cinesi. Il fatto è che il basso livello di sicurezza delle auto cinesi era già un motivo più che sufficiente per stare alla larga dalle vetture orientali, adesso la possibile presenza di amianto in alcune componenti delle vetture di due grandi marchi con gli occhi a mandorla è una ragione ulteriore per diffidarne. Oppure il possibile prezzo ultra low cost delle vetture cinesi in Europa e in Italia farà dimenticare al consumatore qualsiasi genere di pericolo?

http://www.sicurauto.it/

Prevenzione ed ecosostenibilità sono sottovalutate dagli italiani che ancora non sanno se schierarsi a difesa della natura

Negli anni Settanta vi furono i casi dell’IPCA di Ciriè, fabbrica di colori dove l’anilina provocava tumori alla vescica, e dell’ICMESA, dalla quale fuoriuscì diossina in quello che è ricordato come il disastro di Seveso (a dire il vero, preannunciato da avvisaglie rimaste senza seguito) cui dovette seguire una bonifica ambientale durata oltre 10 anni. Del febbraio scorso è la sentenza di condanna per i due manager dell’Eternit, ai quali il tribunale di Torino ha contestato più di duemila morti per tumori causati dall’amianto. A fine settimana è esploso il caso Ilva di Taranto, sigillata per disastro ambientale, e con esso la contraddizione fra tutela dell’ambiente e della salute, da una parte, e tutela dei posti di lavoro dall’altra. Una contraddizione insensata eppure drammaticamente inevitabile in tempi di crisi di crisi economica e occupazionale, ma soprattutto di confusione rispetto ai valori. L’antropologo Clyde Kluckhohn scriveva che il “valore” è la concezione del desiderabile, che influenza l’azione con la selezione fra modi, mezzi e fini disponibili. Prevenzione ed ecosostenibilità sono, per nostra miopia, relegati al ruolo di accessori di lusso anziché di opportunità di crescita. Se non sappiamo da quale parte schierarci, le istituzioni ce la mettono tutta per confonderci ancora di più: da ultimo il Consiglio di Stato, che ha sospeso “cautelativamente” il provvedimento che cercava di liberare il centro di Milano dalla congestione del traffico e dall’inquinamento.

AMBIENTE E SALUTE Veleni e tumori, libro bianco di Giordano e Tarro

Dossier choc dell’istituto Pascale: a Napoli s’ammala di cancro il 47 per cento in più della popolazione rispetto al resto d’Italia. Un dato è impressionante ma non nuovo. Gli studiosi Antonio Giordano e Giulio Tarro lanciano l’allarme da anni. Denunce cadute nel vuoto.
Oggi, i loro studi, le indagini scientifiche, la raccolta di decine di pareri qualificati, diventano un libro bianco dal titolo “Campania, terra di veleni” che il Denaro pubblica in esclusiva.
Il testo è già disponibile in versione e-book e prenotabile in versione cartacea. Tutte le informazioni sono su denaro.it
“Avevo solo 15 anni – avverte Giordano – quando nel 1977 mio padre Giovan Giacomo, professore, primario anatomo patologo dell’Istituto per lo Studio e la Cura dei Tumori Pascale, pubblicava un libro bianco dal titolo: ‘Salute e ambiente in Campania’, edito dal Centro Studi di Politica Economica e Sociale Nuovo Mezzogiorno, nel quale denunciava la presenza di aree ad alto rischio tumori nella città di Napoli. Precorrendo i tempi, mio padre, coordinando un’equipe di studiosi napoletani, tracciava una mappa della nocività nella provincia di Napoli, evidenziando come la popolazione napoletana corresse maggiori rischi di ammalarsi nelle zone più industrializzate della città partenopea”.
Dopo 35 anni, Antonio Giordano, figlio dell’illustre anatomo patologo Giovan Giacomo, da ordinario di Anatomia & Istologia Patologica presso l’università di Siena e direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadelphia (Usa) insieme a Giulio Tarro, virologo e primario emerito dell’Azienda ospedaliera Cotugno di Napoli, chairman della commissione sulle Biotecnologie della Virosfera, Wabt – Unesco a Parigi, è autore di questo nuovo libro bianco che affronta le tematiche legate alla salute in Campania. Un libro che accende i riflettori anche sulle indagini epidemiologiche disponibili che mostrano quanto il territorio campano sia stato danneggiato dal dramma, di nuovo attuale, dei rifiuti. In vent’anni la morte per tumori in Italia e’ diminuita tra il 12 e il 15 per cento grazie alla prevenzione e miglioramento dlee cure. Per gli uomini la diminuzione è da 350 a 300 casi per 100 mila abitanti, per le donne da 220 a 200 casi per 100 abitanti. Nella zona rossa tra Napoli e Caserta è tutto in controtendenza: 400 casi per gli uomini e oltre 200 per le donne per ogni 100.000 abitanti.
Un’incidenza nettamente superiore anche alle altre province campane dove i tassi sono stabili e inferiori al dato nazionale. In totale 25 Comuni, circa 700 mila abitanti nella provincia di Napoli e 300 mila nel Casertano, in una zona fortemente degradata dal punto di vista ambientale.

 

Il dossier del Pascale

Settanta chilometri di terre, tra Napoli e Caserta, che fin dai dagli antichi romani producevano ogni genere di delizia. Oggi, invece, le statistiche sulle morti per cancro dell’Istituto contro la lotta ai tumori Pascale di Napoli raccontano tutta un’altra storia. La storia di un territorio che, spiegano gli esperti, nel giro di vent’anni, dal 1988 al 2008, probabilmente ha fatto impennare i decessi in 25 Comuni di quelle zone anche del 20 per cento, del 30 per cento e anche dell’80 per cento. Quella che gli esperti considerano la zona rossa si estende al Vesuviano a ridosso del Sarno al Casertano a ridosso del Volturno. La comunità scientifica non si sbilancia. Secondo le ipotesi del responsabile epidemiologia del Pascale, Maurizio Montella, che ha condotto lo studio elaborando dati Istat, una spiegazione potrebbe essere l’inquinamento prolungato delle matrici ambientali. “’Questa ipotesi spiegherebbe anche gli altri 4 Comuni fuori dalla zona rossa, a ridosso di Sarno e Volturno, i più inquinati d’Europa”. Ecco i dati Il linfoma non-Hodgkin è aumentato per gli uomini del 44% nella provincia di Napoli e del 58% nella provincia di Caserta, nelle donne del 79% nella provincia di Napoli e oltre il 100% in quella di Caserta. Per il mieloma gli aumenti vanno dal 40% a oltre il 100%. ”Sono tumori rari – spiega Montella -, sono quelli che vengono monitorati quando ci sono problemi con le centrali nucleari’”. Aumentano anche le morti per tumori al colon retto (+30%), dei dotti biliari (+50%), del pancreas (70%), del polmone (+30%), nonché dello stomaco (in Italia la media è -50%, tra Napoli e Caserta gli aumenti sono tra il 3% e il 10%), dei tessuti molli e della mammella. Leggera diminuzione per i tumori alla laringe e all’utero. ‘Il veicolo potrebbe essere l’acqua, non tanto quella potabile, ma quella dei fiumi e quella usata per le irrigazioni. Un inquinamento non massivo, ma prolungato e cronico, lento nel tempo.

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