Usa, in arrivo il bebè su misura. “Come lo vogliono mamma e papà” Capelli biondi è castani, occhi chiari o neri: negli Stati Uniti le coppie potranno scegliere i tratti del bebé

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genitori potranno scegliere le caratteristiche del proprio bambino. Capelli biondi è castani, occhi chiari o neri: negli Stati Uniti le coppie potranno scegliere i tratti del bebé. Ma soprattutto potranno scegliere di proteggerli dalla predisposizione a determinate malattie (come alcuni tipi di tumore).

Ed è a questo secondo scopo più nobile che, assicura l’azienda statunitense 23andme, che ha brevettato la tecnica, verrà destinata la scoperta. Il progetto, la cui richiesta di brevetto era stata avanzata nel dicembre 2008, si chiamerà Family Traits Inheritance Calculator (Calcolatore di eredità dei tratti famigliari), e permetterà alla coppia che utilizza lo spermatozoo di un donatore, di selezionare i tratti desiderati, prendendoli da un apposito modulo su cui barrare le caselle preferite. ù

L’azienda, in un post dichiara: “Quando si presenta una richiesta di brevetto non si ha ben chiaro per cosa potrà servire la tecnologia. All’epoca pensavamo a un utilizzo del Calculator nelle cliniche per la fertilità, mentre ora i nostri clienti lo usano per scopi divertenti, come sapere quale sarà il colore più probabile dei capelli del proprio figlio o se è possibile che diventi intollerante al lattosio”.

(Affaritaliani.it)

I cellulari? Solo il 23% degli italiani li usa per telefonare

Con il boom degli smartphone, un utente su tre preferisce attività social su Facebook, Twitter e Instagram o chattare su Whatsapp. In declino gli sms

 

 

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smartphone ap 367Sms in crisi, per la prima volta le chat superano i messaggini

Lo scorso anno gli utenti iscritti alle chat hanno inviato 19 miliardi di messaggi, contro i 17,6 sms. Il sorpasso è certamente dipeso dalla grande diffusione di smartphone

C’erano una volta i telefoni cellulari che servivano per telefonare e – al massimo – mandare e ricevere “messaggini” sms. Oggi infatti meno di un italiano su tre (per la precisione il 23%) usa il telefonino per effetturare chiamate. Complice la sempre maggiore diffusione degli smartphone, un terzo degli utenti dichiara di usare il cellulare principalmente perattività social su Facebook, Twitter, Instagram e via dicendo. C’è poi un 26,4% che lo utilizza per chattare su Whatsapp, mentre solo il 9,7% si limita all’invio di sms.

Sono i numeri che emergono da un sondaggio realizzato da Kingston Technology per far luce come sia cambiato negli ultimi anni l’utilizzo dei “telefonini”. Chissà se Martin Cooper, ingegnere americano di Motorola, quel 3 aprile del 1973, mentre entrava nella storia con la prima chiamata effettuata da un portatile da 1,5kg, si era immaginato che 6 lustri dopo la sua invenzione avrebbe avuto questo tipo di evoluzione. Non a caso, se un tempo lo smarrimento più temuto era quello del portafogli (oggi lo è ancora per il 26,3%), oggi la maggior parte (32,9%) dichiara che la perdita più scioccante sarebbe proprio quella dello smartphone. Al secondo posto troviamo la perdita di un dente (19,7%) e solo al quarto le chiavi (11,8%).

Del resto lo smartphone può rispondere alle esigenze più disparate: tra le loro varie funzioni, vengono sfruttati dal 21,1% per distrarre i figli durante una cena al ristorante, evitando fastidiose scorribande tra i tavoli. Per contro, in alcuni casi possono alimentare le preoccupazioni di chi teme che possano svelare scappatelle e tradimenti: sebbene il 57,9% dichiari di non aver nulla da nascondere (o forse non è completamente sicuro della forma anonima del questionario), il 22,4% ammette, per evitare di essere colto in flagrante, di non lasciare mai il telefono incustodito; il 10,5% invece, mette al riparo le proprie attività telefoniche da occhi indiscreti inserendo un codice d’accesso al telefono.

A sottolineare come in pochi anni il boom degli smartphone abbia cambiato la vita a tanti italiani è il fatto che, solo cinque anni fa, il 41,3% degli intervistati riteneva impensabile che il cellulare avrebbe sostituito il navigatore satellitare, mentre il 26,7% non avrebbe mai pensato di poter identificare lecanzoni trasmesse dalla radio semplicemente aprendo un’app. E se la fotocamera integrata ha da tempo stravolto l’abitudine di scattare foto solo in vacanza, il 13,3% non si sarebbe immaginato di poterle ritoccare o arricchire con effetti speciali direttamente dal dispositivo mobile. In attesa di scoprire quali rivoluzionarie funzioni ci riserveranno i modelli del prossimo futuro: arriverà davvero il telefonino in grado di fare il caffè?

(Affaritaliani.it)

Lo portano all’obitorio. Ma è ancora vivo, muore 2 giorni dopo

Un uomo di 57 anni era stato ritrovato senza sensi nella sua abitazione di Pskov. E’ deceduto nella cella frigorifera per assideramento

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Un film horror? Sembra, ma purtroppo non lo è. Un uomo di 57 anni, ritrovato senza sensi nella sua abitazione di Pskov, sperduto villaggio nell’Ovest della Russia, è stato dichiarato morto. Così è stato portato in obitorio e messo in una cella frigorifera. Due giorni dopo il medico legale ha scoperto che era ancora vivo. Si è risvegliato lì, al buio. Ma ormai era troppo tardi ed è deceduto poco dopo. Stavolta per davvero…
 
“Il 4 febbraio, un uomo di 57 anni è stato dichiarato morto nella sua casa. Nello stesso giorno è stato portato all’obitorio e collocato in una cella frigorifera” ha riferito la commissione d’inchiesta in un comunicato. Ma “l’autopsia sul corpo effettuata il 6 febbraio ha dimostrato che l’uomo era ancora vivo quando è stato portato all’obitorio”.
 
Secondo un sito web locale, pln-pskov.ru, “quando il medico legale ha estratto il corpo dalla cella ha notato che il corpo era ancora caldo”. Allora, “ha chiamato i medici dell’ospedale che hanno a loro volta constatato che le pupille dell’uomo reagivano alla luce”.
 
Ma i tentativi di rianimare lo sfortunato 57enne sono stati tutti inutili. L’uomo è morto poco dopo. Peccato che chi lo aveva trovato senza sensi nella sau casa di Pskov pensava fosse morto già due giorni prima.

(Affaritaliani.it)

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

 Dal quotidiano on-line affaritaliani.it

 

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

Martedì, 21 agosto 2012 –

 

di Lorenzo Lamperti

Clini e il governo stanno facendo allarmismo. Cercano di metterci l’uno contro l’altro ma non attacca. Taranto non si beve più le loro bugie”. Francesco Maresca ha lavorato per 31 anni all’Ilva di Taranto, reparto parchi minerali. Insieme ad altri ex operai in pensione e a un tecnico di Legambiente sta lavorando a un documento (“Produrre acciaio pulito è possibile”) e racconta la sua esperienza in azienda ad Affaritaliani.it: “Non è vero che un altoforno si riaccende in otto mesi. Bastano tre settimane. Non inquinare è possibile, ma ci vuole la volontà a spendere soldi. I milioni di Ferrante e del governo? Una barzelletta. Se non si investe lo Stato espropri”.

Forte la critica ai sindacati: “Nel periodo della gestione pubblica era forte. Quando c’erano problemi per la sicurezza non si andava a lavorare. Con i Riva invece è stato lasciato tutto in mano all’azienda e nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente”. Sulla salute: “Non è mai stato fatto niente per tutelarla. Là dentro è un macello, quando si fanno le colate è un inferno“. E sulle istituzioni: “Siamo delusi da tutti, daVendola al governo. Fanno accordi, sono tutti contenti e poi cade tutto neldimenticatoio“.

Francesco Maresca, il ministro Passera ha detto che se si chiude l’area a caldo chiude tutto lo stabilimento. E’ davvero così?

L’argomento viene usato politicamente dai ministri che si esercitano a parlare dell’Ilva. Chiudendo l’area a caldo ci sarebbe bisogno di comprare acciaio altrove, e non credo che il patron Riva ne abbia l’intenzione. Per questo tecnicamente è vero: se si chiude l’area a caldo chiude l’Ilva. Ma solo perché l’azienda non vuole comprare altrove.

Il governo sostiene che far ripartire l’altoforno sia un’operazione molto lunga che richiede anche otto mesi. Addirittura si paventa l’ipotesi che sia una cosa “infattibile”. E’ davvero così?

No, sono sicuro che per riattivare un altoforno ci vogliano circa tre settimane. Bisogna considerare il problema dell’abbassamento delle temperature, è ovvio: se si spegnesse di colpo togliendo per intero il calore si spacca tutto. Se la temperatura viene abbassata gradualmente, invece, l’altoforno potrebbe ripartire in breve tempo.

Quindi è possibile risanare e tornare a produrre. Il limite a questa operazione è solo il costo per l’azienda, dunque?

Eh certo. Non si tratta solo di spendere per ammodernare e limitare le emissioni inquinanti ma anche di perdere produttività.

Non si potrebbe produrre “a moduli”, spegnendo per esempio un altoforno per volta e continuare a produrre con gli altri (l’Ilva ne ha cinque, ndr)?

Sì, questo è fattibile e di fatto avviene già. Quando un altoforno finisce la propria campagna si opera in questo modo. Ma il problema non sono solo gli altoforni. Il problema vero sta nelle cokerie, nell’agglomerato e nei parchi minerali.

Come si potrebbe intervenire su questi settori?

Insieme ad altri ex dipendenti e una ricercatrice che si occupa di temi di lavoro ho scoperto che esistono tecnologie in funzione da diversi anni che si chiamano Corex e Finex. Un sistema che saltando il processo di sinterizzazione abbatte drasticamente l’emissione di inquinanti. Si parla addirittura del 70 e dell’80%. Adottando questo sistema si risolverebbe il problema delle cokerie e dell’agglomerato. Resterebbe la questione dei parchi minerali.

Quindi produrre acciaio pulito è possibile?

Stiamo lavorando a una proposta organica per diversificare la produzione e far sì che questo sistema sia adottato in diversi stabilimenti. Perché non si dovrebbe produrre anche a Novi Ligure o a Genova? Si potrebbe ridurre il peso su Taranto, che attualmente produce con quattro altoforni dieci milioni di tonnellate di acciaio e, se si riutilizzasse anche il quinto altoforno, si arriverebbe a dodici tonnellate e mezzo.

Come se ne esce da questa vicenda?

Alla situazione attuale se ne esce male. Se i finanziamenti sono quelli di cui si è parlato finora stiamo freschi. Tra qualche settimana siamo a punto e a capo.

Non sono abbastanza dunque i 146 milioni di cui parla Ferrante?

Macché, e nemmeno i 336 del governo. Sono una barzelletta, con queste cifre non si combina niente.

E’ vero che dall’alto, anche dal governo, si sta cercando di mettere l’una contro l’altra due parti di Taranto, gli operai che difendono il loro posto di lavoro e chi invece vorrebbe vedere tutelata la propria salute?

Su questo ci si può mettere la firma. Stanno riproponendo vecchi schemi, vecchi modi di mettere calunnie in giro per screditare quelli più in vista. E’ una tecnica ormai consolidata che su chi conosce come funzionano queste cose non fa nessun effetto. Ma per i tanti giovani dell’Ilva che non hanno mai fatto politica o sindacato il rischio si fa più alto.

A proposito di sindacato, come giudica il suo operato?

Avrei preferito non dover rispondere a questa domanda. C’è da tener conto che tra Fiom, Fim e Uilm ci sono stati spesso contrasti e posizioni divergenti. Ricordo quando qualche anno fa licenziarono i due delegati della Fiom. Addirittura una parte del sindacato non solo non si schierò a favore dei due sindacati ma cercò di togliere l’acqua da sotto la barca isolandoli. La colpa dei due delegati? Fermare una siviera che faceva acqua e che poteva comportare gravi rischi per la sicurezza. Sulla questione dell’ambiente però non ci sono state differenze: Fim, Fiom e Uilm hanno tutti firmato gli accordi di programma che si sono succeduti nel corso degli anni. Si stanno differenziando più sulla vicenda dei magistrati che sul contenuto delle cose.

Parlando di magistratura, la città è davvero schierata con il gip Todisco?

Su questo non c’è dubbio, anche se secondo me stare in modo così pernicioso sulla Todisco non le fa bene. Lei sta solo facendo il suo lavoro, farne un santino del gip provoca danni soprattutto a lei.

Da molte parti si dice che il governo stia facendo pressione sulla magistratura. Lei è d’accordo?

Direi che per questo parlano le frasi dei ministri riportate anche dai giornali. Basta leggerle… Clini e il governo stanno facendo allarmismo perché hanno paura di perdere una così grossa produzione di acciaio. Ma su una parte della città le loro sparate non attecchiscono più. Anzi, in molti che erano dalla parte dell’azienda vedendo le falsità che vengono dette passano dall’altra parte.

Lei ha lavorato per 31 anni all’Ilva e ha visto sia la gestione pubblica sia la gestione privata. Nella tesi difensiva si dice che i morti e le malattie sono stati causati dalla gestione dello Stato e non da quella di Riva. Il Riesame però smentisce questa ricostruzione. Qual è la verità?

Le malattie che provoca il siderurgico si possono sviluppare in 3 o 4 anni come quelle asmatiche ma quelle tumorali sono di lungo periodo. Hanno uno sviluppo tra i 20 e i 30 anni. Oggi cominciamo a vedere che muoiono sempre più operai in pensione.

Sta dicendo che i veri effetti della produzione dei Riva si vedrà solo tra qualche anno?

Purtroppo sì. E la sensazione è molto negativa, perché non è mai stato fatto nulla per tutelare ambiente e salute. Anni fa, dopo che Sebastio gli ordinò di aumentare le ore di cottura del coke, Riva si rifiutò. Uno dei problemi delle cokerie, infatti, sono le ore di cottura: non producono solo benzoapirene, ci sono anche gli idrocarburi. Meno ore di cottura ci sono e più porcherie le cokerie buttano fuori. Basterebbe imporre di alzare le ore di cottura per ridimensionare le emissioni inquinanti.

Poi però ci sono anche le emissioni diffuse…

Quando scaricano il coke è un macello. La situazione diventa da inferno dantesco.

Lei lavorava nell’area dei parchi minerali, quindi una di quelle a rischio. I lavoratori non chiedevano mai all’azienda conto dei rischi che si correvano? E cosa vi veniva risposto?

Nel periodo della gestione pubblica e dei primissimi anni della gestione Riva c’era ancora la vecchia classe operaia. Quando le cose non funzionavano non si andava a lavorare. Finché non si metteva a posto non si lavorava. Molto spesso abbiamo bloccato i lavori dove c’era l’amianto. Si doveva litigare con i capi perché dicevano che non era amianto. Poi si chiamavano i tecnici, si facevano le analisi e veniva fuori che era amianto. Con i nuovi, i giovani hanno avuto vita più facile. Il sindacato ha lasciato fare all’azienda e con tutta la storia dei contratti di formazione e la paura che non fossero rinnovati nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente.

Il Riesame, citando il caso della presunta “mazzetta” al professor Liberti, scrive che le pressioni dell’Ilva è una politica aziendale. Anche tra gli operai c’era questa sensazione?

Ma certo, figuriamoci. Un’azienda del genere quando si trova in difficoltà unge le ruote per farle girare. Sarebbe sciocco credere il contrario.

Il governatore Vendola ha fatto dell’ambiente una propria bandiera. Come giudica il suo operato sulla vicenda Ilva?

Noi siamo delusi da tutte le istituzioni locali. Ogni volta che c’è un accordo sono tutti soddisfatti ma mai una volta che si vada a verificare che gli accordi siano messi in atto. Nel 2005, per esempio, erano stati stanziati 55 milioni per bonificare i Tamburi. Poi però sono stati usati altrove. I politici sono sempre tutti contenti, ma alla fine non c’è mai nessun risultato. Vendola ha fatto qualcosa per la diossina, ma il problema sono i controlli. Non li puoi fare tre volte all’anno perché poi quello che succede negli intervalli di tempo non lo puoi sapere. E intanto intorno all’Ilva la città cade a pezzi…

Ferrante può portare i cambiamenti che servono?

Finora non vedo molti elementi positivi, però staremo a vedere e cercheremo di conoscerlo un po’ meglio. Teniamo conto che Ferrante, come tutti quelli che vanno mandati avanti dai proprietari effettivi, fanno quello che gli viene detto dall’alto.

La storia rischia di chiudersi come le altre volte? Un accordo di facciata che faccia contenti tutti e poi non cambia nulla?

Il potere gioca sul tempo. Se il movimento di protesta che si è creato non dovesse raggiungere qualche risultato in breve tempo tutto cadrà di nuovo nel dimenticatoio. Taranto è una città disgraziata che vive di sobbalzi. Adesso c’è un sobbalzo: speriamo che duri, perché poi quando arriva la disillusione è un problema. Ora c’è una parte di città che è più attenta. Bisogna insistere su questa e non perdere lo slancio, altrimenti sarà stato di nuovo tutto inutile.

E’ possibile che Riva lasci Taranto?

Secondo me non la lascerà mai. Non gli conviene, l’azienda va bene e produce profitto anche in un momento di crisi come questo. Il problema sono i soldi necessari ad ambientalizzare. Se Riva non li vuole mettere, lo Stato faccia l’esproprio dello stabilimento e si ritorni alla gestione pubblica.

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