Non solo Taranto, ecco tutte le Ilva d’Italia Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento industriale

Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più “tossici” del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi, la seconda più grande del Paese dopo Civitavecchia.

Qui, al confine con il Salento, dal 2007 il sindaco ha indetto una ordinanza che vieta la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da molti anni i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto una inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. A contaminare i terreni, le colture, l’acqua e l’atmosfera, secondo la perizia affidata a Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, sarebbe la polvere del combustibile usato nella centrale. Stessa conclusione a cui è arrivato uno studio della Università del Salento e Arpa Puglia, che individua «la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile» come «fonte potenziale più probabile delle emissioni». Il processo partirà il prossimo 12 dicembre e la provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile.

Dopo Cerano, bisogna aspettare il 52esimo posto per trovare gli stabilimenti a rischio chiusura dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni (all’80esimo posto della lista Eea).

Alla 69esima posizione compaiono le Raffinerie Sarde Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. Si tratta della raffineria più grande d’Italia, con una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, ossia il 15% della capacità italiana di raffinazione. Una vera e propria città del petrolio addossata al paese di Sarroch, in cui molte case sono state costruite quasi a ridosso dei serbatoi. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro.

Non solo Saras. L’aria della Sardegna risulta altamente inquinata anche a causa della presenza della centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo (Sassari), nell’area industriale di Porto Torres, e della centrale “Grazie Deledda” di Portoscuso, nel Sulcis. Rispettivamente all’87esimo e al 186esimo posto della classifica Eea. Il Sulcis, nell’area di Portovesme, è un bacino che accoglie aziende diverse, dalla produzione di alluminio (Alcoa, Eurallumina), bitume e polistirolo, al trattamento dei gas e alla gestione di rifiuti speciali e mercantili. E, ciliegina sulla torta, c’è anche una miniera di carbone (Carbosulcis spa). «Non ci possono essere corsie preferenziali per le bonifiche ambientali: Porto Torres e il Sulcis sono nelle stesse condizioni dell’Ilva di Taranto e devono essere immediatamente avviate», ha dichiarato il deputato Pdl Mauro Pili nei giorni scorsi. «Bisogna ricorrere anche qui alla magistratura, rischiando di far crollare tutto il sistema industriale sardo?», si chiedono in tanti sull’isola.

Secondo il Wwf, nell’area industriale di Porto Torres «sono state scaricate acque reflue industriali in violazione dei limiti fissati dalla legge con conseguente inquinamento del suolo e immissione di sostanze cancerogene e altamente tossiche per l’ambiente e la fauna marini», generando «un gravissimo pericolo per la pubblica incolumità», con «l’incremento della mortalità per tumore polmonare, altre malattie respiratorie non tumorali, malformazioni alla nascita». In particolare, «nei pressi dell’insediamento petrolchimico è stata rinvenuta una lunga serie di contaminanti tra cui sostanze organiche clorurate, mercurio, solventi, diossine e pesticidi». E anche la salute del Sulcis sarebbe malata: secondo un dossier realizzato da TzdE “Energia e Ambiente”, solo nell’area di Portoscuso tra il 1997 e il 2003 siu sarebbe registrata un0incidenza del tumore ai polmoni superiore al 30% rispetto alla media regionale.

Non si salva neanche l’altra isola, la Sicilia, con il polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina). Queste aree sono state dichiarate «a elevato rischio ambientale» da uno studio dell’Istituo superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l’Iss, si ammalano soprattutto di «tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni».

È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per via dell’inquinamento prodotto dai fumi. «Questa mattina Civitavecchia sembrava la pianura padana e non per colpa della nebbia», ha dichiarato il primo cittadino nel corso della conferenza dei sindaci della Asl Rmf il 31 luglio scorso. «Quella polvere gialla che proviene dalla centrale Enel non possiamo più sopportarla». Ma Enel risponde che «tutti i controlli sulla funzionalità dei sistemi di monitoraggio delle emissioni sono stati effettuati da ditte specializzate, secondo le scadenze previste dall’autorizzazione integrata ambientale e sono state costantemente verificate dagli organi di controllo competenti».

Altra regione in cui sono state individuate numerose aree ad alto rischio ambientale è il Veneto. L’impianto termoelettrico Enel di Fusina è alla posizione 108 delle fabbriche pericolose segnalate dalla Eea, mentre la raffineria di Venezia-Porto Marghera dell’Eni è al posto 403. Senza dimenticare che nell’area industriale c’è un piccolo impianto dell’Ilva con un centinaio di dipendenti che rischiano di stare a casa se gli impianti di Taranto venissero chiusi. Nel 1994 la magistratura avviò un’indagine per il disastro del polo industriale: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi rifiuti tossici. E anche qui ora i politici locali alzano la mano e chiedono che non si pensi solo a Taranto e all’Ilva. La differenza è che a Venezia ci sono stati i «risarcimenti» delle aziende che hanno versato quasi 500 milioni di euro per l’inquinamento prodotto, a Taranto invece per l’Ilva lo Stato stanzia direttamente quasi 360 milioni per bonificare e ridurre l’impatto ambientale dello stabilimento.

Ecco la mappa delle area industriali inquinanti segnalate dalla Agenzia europea per l’ambiente. 

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Bonificare Augusta Priolo, ovvero come salvare vite e denari

Augusta PrioloLa bonifica integrale delle aree industriali inquinate di Augusta-Priolo e di Gela, in Sicilia, potrebbe evitare la morte prematura di 47 persone in media ogni anno, il ricovero ospedaliero di 281 ammalati di cancro e il ricovero ospedaliero di 2.702 persone per tutte le cause. Vi sarebbe, dunque, un significativo beneficio di natura sanitaria. Ma l’operazione sarebbe vantaggiosa anche da un punto di vista economico, visto che consentirebbe il risparmio di oltre 10 miliardi di euro (3,6 miliardi a Priolo e 6,6 miliardi a Gela), assumendo che i benefici per la salute umana saranno osservati solo 20 anni dopo l’operazione di bonifica e che si spalmeranno nell’arco di 30 anni. 

Lo dimostra un articolo pubblicato sulla rivistaEnvironmental Health firmato da due ricercatori, Fabrizio Bianchi e Liliana Cori, dell’Unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, e da due ricercatori, Carla Guerriero e John Cairns, del Department of Health Research Services che fa capo alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, in Inghilterra.
La vicenda nasce dopo la seconda guerra mondiale, quando nei territori iblei e, in particolare, nelle aree di Augusta-Priolo-Melilli e di Gela, in Sicilia, vengono insediati due poli importanti di industrie petrolchimiche e di chimica di base. 
La gestione ecologica del territorio nelle due aree non è ottimale, per usare un eufemismo. Gli scarichi industriali inquinano il territorio con diverse sostanze tossiche e cancerogene che causano effetti sanitari che sono stati misurati: rispetto ai comuni vicini, infatti, ad Augusta-Priolo si registra un aumento da 4 a 6 volte dell’incidenza di tumori al colon retto, al polmone e della pleura, nonché di malattie respiratorie acute; mentre a Gela si registra un aumento dell’incidenza dei tumori in genere e in particolare dei tumori al colon retto nelle donne e alla laringe negli uomini. La situazione di pericolo è evidente. Tanto che nel 1998, con la Legge nazionale n. 426, Priolo-Gargallo e Gela sono inclusi nell’elenco dei primi 15 siti di interesse nazionale (SIN) da bonificare. 
Vengono allocate anche delle risorse: 774,5 milioni di euro per il sito di Priolo e 127,4 milioni di euro per quello di Gela. Si tratta di una copertura delle spese per iniziare la bonifica. Purtroppo questi soldi, benché allocati, non sono stati ancora completamente impiegati. Ma altre ce ne vorrebbero per portare a termine l’opera e mettere in sicurezza la popolazione delle aree interessate.
Oggi lo studio di Fabrizio Bianchi, lo stesso epidemiologo che ha dimostrato l’aumento delle patologie nell’area, e degli altri tre ricercatori dimostra che la bonifica comporterebbe benefici enormi: salvare la via a quasi mille persone ed evitare il ricovero in ospedale di oltre 54.000 persone nei venti anni successivi all’opera di disinquinamento. La bonifica comporterebbe un risparmio economico di 3.592 milioni in trent’anni (circa 120 milioni in media ogni anno) a Priolo e addirittura di 6.639 milioni (circa 220 milioni l’anno) a Gela. 
Occorre, dunque, non solo utilizzare le risorse allocate e portare a compimento la prima fase di bonifica, ma mettere in campo nuove risorse per disinquinare totalmente l’area. I vantaggi in termini di morti premature evitate e più in generale di salute umana sono netti e assolutamente prioritari. I margini, anche da un punto di vista squisitamente economico, sono enormi: si possono aumentare gli investimenti a Priolo di cinque volte e a Gela di 50 volte e comunque si risparmierebbe. Inoltre si darebbe un’occasione di lavoro qualificato e si restituirebbe un territorio morto ad attività produttive,

http://www.unita.it/scienza/notizie/bonificare-augusta-priolo-ovvero-come-salvare-vite-e-denari-1.331487