Sanità a pagamento contro ticket da capogiro: fuga nelle cure private per 12 mln di italiani

Ticket alti, tempi d’attesa troppo lunghi e sempre più ricorso al portafoglio se la visita non si può rinviare. Una ricerca del Censis fotografa la difficile vita del paziente italiano nella sanità post-spending review

Fonte: Immagine dal web

Che ruolo sta giocando la sanità integrativa inquesta fase di spending review, di manovre di bilancio che stringono la sanità pubblica, di sanità negata per tanti cittadini e di maggiore ricorso alla spesa di tasca propria da parte di tanti altri? In prospettiva, quali opportunità risiedono nella sanità integrativa? E in che misura i cittadini sono informati sul ruolo e le modalità operative della sanità integrativa? Sono solo alcuni dei grandi temi affrontati dalla ricerca realizzata dal Censis ‘Il ruolo della sanità integrativa nel Servizio Sanitario nazionale’, presentata il 4 giugno in occasione della terza edizione del ‘Welfare Day’.

A causa della crisi, infatti, della caduta dei consumi e i tagli ai bilanci pubblici, icomportamenti sanitari degli italiani si stanno evolvendo rapidamente. Tra questi viene evidenziato un crescente ricorso alla sanità a pagamento. Inoltre le liste di attesa, la cui situazione non è certo migliorata a seguito delle manovre, rendono quasi ineludibile laddove necessaria e non rinviabile il ricorrere alla prestazione privata o intramoenia. Di contro, sono ormai tanti gli italiani che vivono il paradosso di ticket che, almeno su prestazioni a bassa intensità tecnologica, sono spesso più alti del costo intero della prestazione nel privato.

SANITÀ A PAGAMENTO? GLI ITALIANI SI ORGANIZZANO COSI’. In questo contesto, il Rapporto evidenzia come, di fronte al crescente ricorso alla sanità a pagamento, “minoranze robuste” di italiani maturano una sensibilità verso le forme di sanità integrativa insieme a una propensione a utilizzare anche le proprie risorse per aderire, se possibile, ad essa. Si sta assistendo, di fatto, a un riposizionamento degli italiani nella crisi, che va dalla ridefinizione della matrice dei consumi a una allocazione diversa di decrescenti risorse familiari tra le varie destinazioni. Se è vero che si uscirà dalla crisi diversi da come si era prima, la responsabilizzazione verso forme di investimento sociale anche in proprio, quali sono quelle nella sanità integrativa, può costituire un importante strumento sia di costruzione di nuova e più sostenibile copertura sociale, sia anche, a livello macro, di virtuosa riallocazione delle risorse dal consumo immediato all’investimento sociale a redditività differita.

SANITÀ INTEGRATIVA TRA GLI OBIETTIVI DEL WELFARE. Pagare il costo della prestazione per intero quando insorge il bisogno vuol dire, infatti, assumere su se stessi un rischio dal costo potenzialmente molto elevato, da cui la considerazione secondo cui presumibilmente si stanno aprendo spazi significativi per modalità alternative di finanziamento e copertura sanitaria. Perché questo avvenga, però, è importante agire per colmare opportunamente le cavità informative sulla sanità integrativa, mondo non ancora conosciuto nel modo e nella misura necessari per comprendere il ruolo effettivo che potrebbe giocare. Informare e far conoscere la sanità integrativa sono obiettivi a questo punto imprescindibili, non solo per i soggetti della sanità integrativa, ma per tutti coloro che ritengono che il welfare italiano abbia al suo interno le risorse per riposizionarsi virtuosamente nel periodo successivo alla crisi.

IL TICKET, LA TASSA PIÙ ODIATA DAGLI ITALIANI. Il 50 per cento degli italiani ritiene che il ticket sulle prestazioni sanitarie sia una tassa iniqua, il 19,5 per cento pensa che sia inutile e il 30 per cento lo considera invece necessario per limitare l’acquisto di farmaci. Il 56 per cento dei cittadini ritiene troppo alto il ticket pagato su alcune prestazioni sanitarie, mentre il 41 per cento lo reputa giusto. Si lamentano di dover pagare ticket elevati soprattutto per le visite ortopediche (53 per cento), l’ecografia dell’addome (52 per cento), le visite ginecologiche (49 per cento) e la colonscopia (45 per cento). Molto diffusa è la percezione di una copertura pubblica sempre più ristretta: il 41 per cento degli italiani dichiara che la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali e tutto il resto bisogna pagarselo da soli, per il 14 per cento la copertura pubblica è insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45 per cento ritiene adeguata la copertura per le prestazioni di cui ha bisogno. 

PER CURARSI, SEMPRE PIÙ MANO AL PORTAFOGLIO. Negli anni della crisi per curarsi 12,2 milioni di italiani hanno aumentato il ricorso alla sanità a pagamento, dalle prestazioni private all’intramoenia. La ragione principale è la lunghezza delle liste d’attesa (per il 61,6 per cento) e la convinzione che se paghi vieni trattato meglio (per il 18 per cento). La fuga nel privato riguarda soprattutto l’odontoiatria (90 per cento), le visite ginecologiche (57 per cento) e le prestazioni di riabilitazione (36 per cento). Ma il 69 per cento delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73 per cento ritiene elevato il costo dell’intramoenia. 

PRESTAZIONI NEL PRIVATO MENO CARE DEL TICKET. Il 27 per cento degli italiani è capitato di constatare che il ticket per una prestazione sanitaria era superiore al costo da sostenere nel privato, pagando tutto di tasca propria (il dato sale al 37 per cento nelle Regioni con Piani di rientro, la cui sanità pubblica è stata colpita più delle altre dalla scure dei tagli). Si tratta di un paradosso relativo per ora ad accertamenti a bassa intensità tecnologica, ma non va sottovalutato, perché rende insicuri rispetto alla copertura pubblica. È questo l’esito più estremo di tagli e spending review, che per il 61 per cento degli italiani hanno prodotto l’effetto di ridurre i servizi pubblici e abbassarne la qualità, piuttosto che eliminare gli sprechi e razionalizzare le spese. Per il 73 per cento hanno accentuato le differenze della copertura sanitaria tra le regioni e tra i ceti sociali. Per il 67 per cento si punta troppo sui tagli, invece di cercare anche nuove fonti di finanziamento.

PRONTI PER LA SANITÀ INTEGRATIVA. Il 20 per cento degli italiani sarebbe disposto a spendere una somma annuale pari in media a 600 euro per avere una copertura sanitaria integrativa per alcune prestazioni. La percentuale sale tra le famiglie con figli (23,4 per cento), disposte a versare in media 670 euro all’anno. Il ricorso crescente alla spesa privata spinge minoranze consistenti a guardare con occhi diversi la spesa per la sanità integrativa. Vorrebbero che offrisse una copertura soprattutto per le visite specialistiche e la diagnostica ordinaria (52 per cento), le cure dentarie (43 per cento) e i farmaci (23 per cento). Sarebbero incentivati ad aderire a forme integrative se l’iscrizione al Fondo sanitario garantisse un’assistenza medica per 24 ore 7 giorni alla settimana (il 39 per cento lo indica come fattore incentivante), se riducesse i tempi d’attesa per le prestazioni di cui si ha bisogno (32 per cento), se offrisse la copertura per tutta la famiglia, non solo per il sottoscrittore (30 per cento). 

I BUCHI INFORMATIVI SULLA SANITÀ INTEGRATIVA. Complessivamente il 68 per cento degli italiani non ha mai sentito parlare di sanità integrativa (33 per cento) o ne ha sentito parlare ma non sa cosa sia esattamente (35 per cento). È sconosciuta soprattutto ai giovani (il 46 per cento non ne ha mai sentito parlare) e agli anziani (44 per cento), ed è poco compresa anche dagli adulti (il 40 per cento dei 30-44enni non la conosce). Il 53 per cento dei cittadini non conosce la differenza tra una polizza malattia e un Fondo sanitario integrativo, e il 57 per cento non sa che i Fondi sanitari integrativi comportano un vantaggio fiscale rispetto alle polizze malattie. 

CHI LA SANITÀ INTERATIVA CE L’HA. Sei milioni gli italiani che hanno aderito a un Fondo sanitario integrativo. Considerando anche i loro familiari, si sale a circa 11 milioni di assistiti. L’84 per cento di essi valuta positivamente la copertura offerta.

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Addio all’euro? Per gli italiani è un progetto che va completato. È la crisi la vera emergenza

Il sondaggio di Eurobarometro conferma il consenso del Bel Paese all’Eurozona che, secondo la maggioranza del campione, deve invertire la rotta e dare la priorità nelle sue politiche allo stallo economico

 

Nonostante le difficoltà economiche, le variespending review e i sacrifici a cui sono sottoposti gli italiani hanno ancora fiducianell’Europa, ritenendolo un progetto da completare. Secondo i dati Eurobarometro dello scorso marzo, infatti, solo il 2 per cento dei cittadini vorrebbe abbandonare la moneta unica, e solo l’1 per cento si augura che lo faccia l’Unione europea nel suo complesso. Di contro, è la crisi economica il tema chiave sul quale il 59 per cento degli italiani vorrebbe, invece, una maggiore incisività da parte dell’Ue che deve ritenerla “una priorità” delle sue politiche. 

La tendenza emersa dall’indagineEurobarometro, basata su interviste effettuate a un campione di 1.032 italiani lo scorso novembre, rappresenta secondo il vicepresidente della Commissione Ue e responsabile per l’Industria e l’Imprenditoria Antonio Tajani, “un messaggio chiaro: l’Europa deve invertire la rotta e fare di più per affrontare una crisi che resta il primo problema. C’è una “richiesta di più Europa nel segno, tuttavia, di più interventi su economia reale”. “La direzione – ha aggiunto – è quella di una maggiore crescita per realizzare l’economia sociale di mercato, come previsto dai Trattati”. Anche Gian Maria Frara, presidente dell’Eurtispes, che ha analizzato il fenomeno nell’ultimo Rapporto Italia dello scorso gennaio, il sondaggio dimostra come “non sia vero che gli italiani rifiutano l’Europa. Vorrebbero più Europa ma le risposte dell’Ue non riescono a materializzarsi o tardano ad arrivare”.

LA MONETA UNICA, UN RISULTATO POSITIVO PER MOLTI. Per il 31 per cento del campione di Eurobarometro, il passaggio alla moneta unica ha rappresentato un risultato “positivo”, una percentuale in crescita rispetto al 29 per cento registrato a maggio 2012. Un gradimento che viene riconosciuto anche nel campione dell’Eurozona, soddisfatto nel 32 per cento dei casi. Una tendenza che, dunque, fa da contraltare all’esigua minoranza dell’1 per cento che, invece, vorrebbe il ritorno alla lira. 

LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE, UN SUCCESSO DELL’UE…Nel rapporto di Eurobarometro è stato poi rilevato anche il gradimento di altri “cardini” dell’Eurozona, come la libertà di circolazione di beni, persone e servizi da un paese all’altro della Comunità grazie al Trattato Schengen, considerato una conquista positiva dal 46 per cento degli italiani (era il 43 per cento a maggio 2012). Stessa tendenza in crescita anche per il campioneeuropeo: il 52 per cento vede nell’area di libero movimento di Schengen e nel mercato interno europeo i più grandi successi dell’Ue, un punto percentuale in più rispetto all’ultimo rilevamento.

….MA NON PER TUTTI I CITTADINI ITALIANI ED EUROPEI. Nonostante i cittadini riconoscano all’Unione europea di aver permesso la libera circolazione delle persone, la netta maggioranza del campione sia italiano che europeo, rispettivamente il 55 per cento degli italiani e il 54 per cento dei cittadini Ue, non ritiene comunque di aver fruito dei vantaggi dell’assenza di frontiere tra i paesi dell’Unione europea membri dell’area Schengen. Il 55 per cento degli italiani e il 68 per cento degli europei dichiara anche di non avere mai tratto vantaggio da voli meno costosi o dalla più ampia scelta di compagnie aeree, che è frutto diretto della liberalizzazione del trasporto aereo decisa a livello Ue.

FARA: “O MAGGIORE INTEGRAZIONE, O TUTTI A CASA!”. “Siamo in mezzo al guado, o si procede rapidamente verso una maggiore integrazione culturale e politica, o saremo costretti tutti a un rapido ritorno a casa”. Il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, non ha usato mezzi termini sottolineando il fatto che se da tra i risultati più importanti indicati dal campione la nascita della moneta unica  è ai primi posti insieme alla libera circolazione di persone beni e servizi, è anche vero che da sola la stessa moneta non è più sufficiente e quasi 7 italiani su 10 ammettono di non conoscere i diritti derivanti dallo status di cittadino europeo.

I GIOVANI SONO I PIÙ EUROPEI. Il 51 per cento degli intervistati dichiara di sentirsi cittadino europeo e il dato, disaggregato per classi d’età, mostra quanto i giovani si sentano già pienamente parte della casa europea. Anche tra i 40 e i 54 anni si registrano percentuali sopra la media (58 per cento del totale), al contrario delle persone anziane, che ancora faticano a sentirsi europei: tra gli over-55 anni solo il 45 per cento dichiara di riconoscersi nel nuovo status. E, non è un caso, che proprio il tema dei giovani e delle donne sia stato al centro della presentazione dei dati dell’Eurobarometro. “L’euro non può rappresentare un fine – ha concluso Fara – ma deve assolutamente tornare ad essere uno strumento. I dati confermano che gli italiani non rifiutano l’Europa, ma sono delusi dal fatto che, troppo spesso, le risposte europee tardano ad arrivare”. 

Ospedali, le regioni affilano i bisturi: la spending review vuole tagli per 30mila posti letto

Entro il 31 dicembre le regioni devono mettere a punto il piano deciso dal Ministero: si passerà dai 4,2 letti ogni mille abitanti al rapporto di 3,7. Ampiamente sotto la media europea

spending review ospedali

 

Fonte: Dreamstime

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spending review bisSpending review, non è finita. A settembre nuove misure: le anticipazioni. E intanto lo Stato vende palazzi per 1,5 miliardi

Allo studio nuove misure per abbattere la montagna del debito pubblico. Tra queste la vendita di immobili pubblici e la tassazione al 25% dei capitali in Svizzera

Negli ospedali italiani ci saranno 30mila posti letto in meno. Si sta delineando la portata dei tagli, effetto della spending review messa a punto dal Governo la scorsa estate. Entro il 31 dicembre le Regioni, loro malgrado, dovranno indicare dove e come effettueranno la riduzione. In pratica, si dovrà passare nel prossimo triennio 2013-2015 dalla media nazionale attuale che prevede 4,2 letti ogni mille abitanti (di cui 3,6 per mille dei letti per acuti e 0,6 per mille per le lungodegenze), al rapporto di 3,7.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che i recenti tagli si sommano alle “diete” già inflitte al comparto Sanità dell’ultimo decennio: in tutto quasi 45 mila posti letto tagliati dal 2000 al 2009, partendo dal rapporto posti letto/abitanti pari al 5,1 ogni mille abitanti di 12 anni fa.

E qual è l’offerta ospedaliera presente nel nostro Paese in termini di posti letto, in rapporto al livello europeo? La riduzione è stata attuata anche negli altri Paesi dell’UE, ma non in misura così pesante come in Italia, che rimane costantemente sotto la media dell’Europa a 27.
Nel 2000 la media italiana per posti per acuti(escluse dunque le lungodegenze) era infatti pari a4,70 posti per 1000 abitanti, mentre la media UE era di 6,39. E, dieci anni, dopo nel 2009, si registrano le stesse proporzioni con l’Italia su una media di 3,6 letti per mille e l’Europa a quota 5,5 per mille.
Poco più della metà dei letti a disposizione inFrancia, che nel 2009 segnano una media di 6,60e meno della metà rispetto alla Germania, con8,22 posti letto per acuti ogni 1000 abitanti (dati Eurostat).

Alcune regioni, come Emilia RomagnaVeneto,Toscana Lombardia, si sono portate avanti e avendo già avviato una ristrutturazione della Sanità locale; mentre per altre si parte da zero. E sono quelle che già lamentano alti deficit di bilancio a dover fare i conti con gli interventi più drastici: i governatori di Lazio (-19,9%), Trentino (-20,9%) eMolise (-33,2%) dovranno affilare il bisturi.

In realtà, il documento redatto dal ministero della Salute parla soprattutto di “riconversione”, nell’intenzione di alleggerire le spese elevate dei posti letto, trasferendo ove possibile le prestazioni ai servizi territoriali.  Lo 0,7% dei posti disponibili serviranno per le terapie di lungodegenza e per i servizi di assistenza agli anziani.  
I tagli non vogliono essere indiscriminati, nel progetto di riduzione della spesa sanitaria si parla anche diabolire primariati-doppione, di tutelare le strutture con più esperienza, di occupare al meglio i letti di un reparto, arrivando almeno a un tasso di riempimento del 90%

Ma gli effetti dei tagli sulle piccole strutture, ancorché di primaria importanza per i cittadini, non saranno indolori. Le proteste non mancano. E’ il caso, ad esempio, dell’ospedale di Portoferraio, sull’Isola d’Elba, che in base alle misure della spending review dovrebbe chiudere i battenti. Il sindaco Roberto Peria non ci sta e annuncia le proprie dimissioni: la chiusura dell’ospedale lede “diritti costituzionalmente garantiti“. Le dimissioni diventeranno esecutive tra venti giorni. Il sindaco le revocherà solo se “vi saranno mutamenti sostanziali”.
Secondo il segretario nazionale dell’Anaao Assomed (Associazione medici dirigenti), Costantino Troise, il nuovo parametro di 3,7 per mille abitanti fissato per la determinazione dei posti letto, comprensivo non solo di quelli per acuti, ma anche di quelli nelle residenze socio sanitarie, “ci relegatra gli ultimi posti in Europa e suona una campana a morte per le liste di attesa e per il ruolo dei Pronto soccorso destinati a trasformarsi in reparti di ricovero inappropriati, insicuri e, non di rado, non dignitosi”. 

“La radiografia per la cervicale? Meglio se ripassa tra 3 anni”

il caso

Tempi biblici per le liste d’attesa sanitarie

di Valerio Baroncini

 
Una dottoressa consulta una radiografia in una foto d'archivio (Ansa)

Una dottoressa consulta una radiografia in una foto d’archivio (Ansa)

Bologna, 13 settembre 2012 – Volete fare una risonanza magnetica perché avete problemi di cervicale? Meglio evitare Bologna. Al momento di fissare l’esame vi sentireste dire: «Ripassi pure fra tre anni».
La sanità alle prese con la tortuosa spending review, la revisione dei costi, (ri)scopre il fiume carsico delle liste d’attesa. Anzi, le liste della disperazione.

 

TORNANDO alla prestazione dell’altro giorno: il paziente, un bolognese di 58 anni, è stato rinviato a tre anni e un po’, per la precisione 1.113 giorni. L’attonito cittadino, che con il mal di testa proprio non riesce più a stare, dovrà farsene una ragione, dal momento che dal 10 settembre s’è visto proiettato all’équipe radiologica dell’ospedale Maggiore di Bologna al 29 settembre, ma del 2015. Leggere lo statino qui accanto per credere. Non si tratta del primo caso. Perché le radiografie avrebbero bisogno loro stesse di un’iniezione curativa.

 

LANFRANCO Ceci, un altro bolognese, è senza parole: «Mi sono recato al Cup per prenotare una risonanza magnetica al rachide cervicale. Prima disponibilità 21/04/2015. Avete capito bene: quasi 960 giorni di attesa». Non va meglio per una mammografia. Esempio certificato: una giovane donna necessita di una mammografia bilaterale, la richiesta arriva dal medico di base. In città (al Bellaria e al policlinico Sant’Orsola-Malpighi) non è possibile prenotare, perché l’agenda è chiusa. Tecnicamente significa che non si accede al servizio, tanti saluti. I primi tre posti disponibili? Il 30 agosto 2013 a Vergato, in appennino; oppure il 24 gennaio 2014 a Bazzano o il 12 giugno 2014 a San Giovanni in Persiceto.

 

RESTA inteso un dato: pagando, si può ottenere la prestazione anche domani. Nello stesso ospedale dove poi ci si ritroverebbe con la mutua nel 2015. Ed è quantomeno singolare nel capoluogo di regione, che ospita anche i principali ospedali della nostra area. Nel 2002 in Emilia-Romagna ci sono state 60 milioni di prestazioni specialistiche, nel 2011 sono arrivate a 80 milioni.

 

L’assessore alla sanità Carlo Lusenti, a una tavola rotonda dove gli si chiedeva come risolvere l’annosa questione, se l’era cavata con un altro interrogativo: «Ma è più importante il tempo di ogni prestazione o invece la misurazione dell’accessibilità, della continuità delle cure, dell’appropriatezza della prescrizione e della gestione appropriata della domanda?».
 

di Valerio Baroncini

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Spending review alla Rai: una forbice si aggira per viale Mazzini

Un’azienda in difficoltà, ma che continua a essere, all’occorenza, generosa e munifica. Ai nuovi vertici l’incarico di fa tornare i conti. Ma non sarà facile…

rai viale mazziniFonte: ANSA
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raiNiente canone Rai per i possessori di computer

Marcia indietro dell’ente televisivo: la tassa si paga solo per il possesso di un televisore

IL BLOG 

gubitosiViva la Rai: Gubitosi ha il posto fisso

Per il dg 650mila euro annui e un contratto a tempo indeterminato. Ma non c’era la spending review?

Venti di austerity dicono stiano per abbattersi su una delle roccaforti dello sperpero pubblico. Segnali emblematici sono già nell’aria: il nuovo direttore generale di viale Mazzini, Luigi Gubitosi, dovrebbe rinunciare sua sponte al controverso contratto a tempo indeterminato e la presidente Anna Maria Tarantola, si è detta disponibile a ridursi il compenso. Poche settimane fa l’assemblea degli azionisti – cioè il Tesoro – aveva stabilito unariduzione del 30% dei compensi per i componenti del Cda Rai, inspiegabilmente escludendo dal provvedimento le indennità dei due nuovi vertici appena insediati.
Adesso, nell’agenda delle due neo-nomine di viale Mazzini, l’obiettivo prioritario di far tornare i conti dell’azienda.

A voler tagliare c’è solo l’imbarazzo della scelta e l’intervento dovrà essere draconiano se si vogliono curare i bilanci: a fine anno, si legge suRepubblica, è atteso un rosso tra i 60 e i 100 milioni di euro, con un indebitamento intorno ai 300 milioni e una raccolta Sipra (la concessionaria) che nei primi tre mesi del 2012, prima degli Europei, sarebbe calata del 25%.

Oltre 11mila dipendenti ne fanno la più grande azienda pubblica del Paese, il quinto gruppo televisivo del continente. E le cifre, quando si parla di Rai tendono tutte all’eccesso.

Dipendenti e organizzazione
Quindici canali, 9 testate giornalistiche, con relative direzioni. I giornalisti sono 1.650, di cui 327 con qualifica di dirigenti. Duemila circa sono i dipendenti del settore amministrativo, mentre tra operatori e montatori l’organico raggiunge le 600 unità. I quattro centri di produzione (Roma, Milano, Torino e Napoli) valgono 3.800 addetti, e l’insieme delle sedi regionali, ne portano altri 1.500. Sul libro paga inoltre figurano inoltre 160 profesisonisti che mettono a punto il trucco e la capigliatura delle star prima della messa in onda.

Compensi
Una query sul motore di ricerca, e con un clic posso conoscere gli stipendi che la Bbc eroga al proprio staff. Ma la Rai non è la Bbc e l’Italia, a differenza del Regno Unito, non ha aderito alFreedom of Information Act. Falliti anche i tentativi dall’ex ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta di portare un po’ di trasparenza, è difficile conoscere l’entità delle spese sostenute per le persone che gravitano su viale Mazzini.
Emergono le punte dell’iceberg, i capricci delle star, i collaboratori d’oro, l’eterno scandalo delle auto blu. E un sistema balordo, che svincola i contratti dai risultati degli ascolti.
Tra gli esempi più eclatanti, le voci sull’accordo da 3 milioni e 800mila euro per un biennio di Antonella Clerici; 1,5 milioni per Fabio Fazio; i doppi incarichi di Licia Colò, nei panni di conduttrice e produttrice dei filmati che manda in onda durante la trasmissione. L’attuale direttore del Tg1 Alberto Maccari preferisce usare ben 5 collaboratori esterni, la maggior parte dei quali pensionati della Rai, pur avendo 140 redattori, si legge su Lettera43.
Tempi di crisi, eppure la televisione pubblica non bada a spese. Ma nonostante le cifre da capogiro, chi deve intervenire sui bilanci sa che quando si tratta di Rai, tagliare non sarà facile.

http://economia.virgilio.it/

Abbonamento ‘salva tasche’ Vedere la Pro Sesto costa solo 2 euro

Il presidente onorario Massimo Nava ha deciso di offrire abbonamenti al prezzo di 35 euro, per dare a tutti la possibilità di andare allo stadio

 

 

Massimo Nava, presidente onorario della Pro Sesto (Spf)

Massimo Nava, presidente onorario della Pro Sesto (Spf)

 

Sesto San Giovanni, 21 luglio 2012 – La scure della crisi miete vittime? E la Pro sesto lancia, per i tifosi, la tessera “spending review’’. La squadra di Sesto San Giovanni, iscritta al campionato di Serie D, lancia l’abbonamento “salva tasche”: meno di 2 euro a partita, poco più del costo di un caffè

“In un periodo in cui la crisi è così forte – dice il presidente onorario Massimo Nava – abbiamo deciso di offrire abbonamenti al prezzo di 35 euro. Meno di 2 euro a partita per dare un po’ a tutti la possibilità di venire allo stadio cercando anche di fronteggiare la concorrenza televisiva dei grandi club’’.

http://www.ilgiorno.it/

TAGLIANO I FARMACI, NON LE PENSIONI D’ORO

Aspettavamo con ansia la spending review. Ma in realtà la spending review rischia di trasformarsi in un’altra beffa: l’unica cosa che per il momento sembrano in grado di tagliare, infatti, è la spesa per farmaci. Ergo: un’altra tassa occulta a caricio dei cittadini. In compenso le pensioni d’oro rimangono intonse: c’era un emendamento per tagliare tutte quelle superiori ai 6mila euro, e inevitabilmente è stato bocciato. Così le sanguisughe continueranno a prendere le loro pensioni d’oro (ricordate? C’è anche quello che prende dall’Inps 90mila euro al mese…), e i cittadini pagheranno la tassa occulta sui farmaci. Alla faccia della spending review.

Sanguisughe, di Mario Giordano