Sanità a pagamento contro ticket da capogiro: fuga nelle cure private per 12 mln di italiani

Ticket alti, tempi d’attesa troppo lunghi e sempre più ricorso al portafoglio se la visita non si può rinviare. Una ricerca del Censis fotografa la difficile vita del paziente italiano nella sanità post-spending review

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Che ruolo sta giocando la sanità integrativa inquesta fase di spending review, di manovre di bilancio che stringono la sanità pubblica, di sanità negata per tanti cittadini e di maggiore ricorso alla spesa di tasca propria da parte di tanti altri? In prospettiva, quali opportunità risiedono nella sanità integrativa? E in che misura i cittadini sono informati sul ruolo e le modalità operative della sanità integrativa? Sono solo alcuni dei grandi temi affrontati dalla ricerca realizzata dal Censis ‘Il ruolo della sanità integrativa nel Servizio Sanitario nazionale’, presentata il 4 giugno in occasione della terza edizione del ‘Welfare Day’.

A causa della crisi, infatti, della caduta dei consumi e i tagli ai bilanci pubblici, icomportamenti sanitari degli italiani si stanno evolvendo rapidamente. Tra questi viene evidenziato un crescente ricorso alla sanità a pagamento. Inoltre le liste di attesa, la cui situazione non è certo migliorata a seguito delle manovre, rendono quasi ineludibile laddove necessaria e non rinviabile il ricorrere alla prestazione privata o intramoenia. Di contro, sono ormai tanti gli italiani che vivono il paradosso di ticket che, almeno su prestazioni a bassa intensità tecnologica, sono spesso più alti del costo intero della prestazione nel privato.

SANITÀ A PAGAMENTO? GLI ITALIANI SI ORGANIZZANO COSI’. In questo contesto, il Rapporto evidenzia come, di fronte al crescente ricorso alla sanità a pagamento, “minoranze robuste” di italiani maturano una sensibilità verso le forme di sanità integrativa insieme a una propensione a utilizzare anche le proprie risorse per aderire, se possibile, ad essa. Si sta assistendo, di fatto, a un riposizionamento degli italiani nella crisi, che va dalla ridefinizione della matrice dei consumi a una allocazione diversa di decrescenti risorse familiari tra le varie destinazioni. Se è vero che si uscirà dalla crisi diversi da come si era prima, la responsabilizzazione verso forme di investimento sociale anche in proprio, quali sono quelle nella sanità integrativa, può costituire un importante strumento sia di costruzione di nuova e più sostenibile copertura sociale, sia anche, a livello macro, di virtuosa riallocazione delle risorse dal consumo immediato all’investimento sociale a redditività differita.

SANITÀ INTEGRATIVA TRA GLI OBIETTIVI DEL WELFARE. Pagare il costo della prestazione per intero quando insorge il bisogno vuol dire, infatti, assumere su se stessi un rischio dal costo potenzialmente molto elevato, da cui la considerazione secondo cui presumibilmente si stanno aprendo spazi significativi per modalità alternative di finanziamento e copertura sanitaria. Perché questo avvenga, però, è importante agire per colmare opportunamente le cavità informative sulla sanità integrativa, mondo non ancora conosciuto nel modo e nella misura necessari per comprendere il ruolo effettivo che potrebbe giocare. Informare e far conoscere la sanità integrativa sono obiettivi a questo punto imprescindibili, non solo per i soggetti della sanità integrativa, ma per tutti coloro che ritengono che il welfare italiano abbia al suo interno le risorse per riposizionarsi virtuosamente nel periodo successivo alla crisi.

IL TICKET, LA TASSA PIÙ ODIATA DAGLI ITALIANI. Il 50 per cento degli italiani ritiene che il ticket sulle prestazioni sanitarie sia una tassa iniqua, il 19,5 per cento pensa che sia inutile e il 30 per cento lo considera invece necessario per limitare l’acquisto di farmaci. Il 56 per cento dei cittadini ritiene troppo alto il ticket pagato su alcune prestazioni sanitarie, mentre il 41 per cento lo reputa giusto. Si lamentano di dover pagare ticket elevati soprattutto per le visite ortopediche (53 per cento), l’ecografia dell’addome (52 per cento), le visite ginecologiche (49 per cento) e la colonscopia (45 per cento). Molto diffusa è la percezione di una copertura pubblica sempre più ristretta: il 41 per cento degli italiani dichiara che la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali e tutto il resto bisogna pagarselo da soli, per il 14 per cento la copertura pubblica è insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45 per cento ritiene adeguata la copertura per le prestazioni di cui ha bisogno. 

PER CURARSI, SEMPRE PIÙ MANO AL PORTAFOGLIO. Negli anni della crisi per curarsi 12,2 milioni di italiani hanno aumentato il ricorso alla sanità a pagamento, dalle prestazioni private all’intramoenia. La ragione principale è la lunghezza delle liste d’attesa (per il 61,6 per cento) e la convinzione che se paghi vieni trattato meglio (per il 18 per cento). La fuga nel privato riguarda soprattutto l’odontoiatria (90 per cento), le visite ginecologiche (57 per cento) e le prestazioni di riabilitazione (36 per cento). Ma il 69 per cento delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73 per cento ritiene elevato il costo dell’intramoenia. 

PRESTAZIONI NEL PRIVATO MENO CARE DEL TICKET. Il 27 per cento degli italiani è capitato di constatare che il ticket per una prestazione sanitaria era superiore al costo da sostenere nel privato, pagando tutto di tasca propria (il dato sale al 37 per cento nelle Regioni con Piani di rientro, la cui sanità pubblica è stata colpita più delle altre dalla scure dei tagli). Si tratta di un paradosso relativo per ora ad accertamenti a bassa intensità tecnologica, ma non va sottovalutato, perché rende insicuri rispetto alla copertura pubblica. È questo l’esito più estremo di tagli e spending review, che per il 61 per cento degli italiani hanno prodotto l’effetto di ridurre i servizi pubblici e abbassarne la qualità, piuttosto che eliminare gli sprechi e razionalizzare le spese. Per il 73 per cento hanno accentuato le differenze della copertura sanitaria tra le regioni e tra i ceti sociali. Per il 67 per cento si punta troppo sui tagli, invece di cercare anche nuove fonti di finanziamento.

PRONTI PER LA SANITÀ INTEGRATIVA. Il 20 per cento degli italiani sarebbe disposto a spendere una somma annuale pari in media a 600 euro per avere una copertura sanitaria integrativa per alcune prestazioni. La percentuale sale tra le famiglie con figli (23,4 per cento), disposte a versare in media 670 euro all’anno. Il ricorso crescente alla spesa privata spinge minoranze consistenti a guardare con occhi diversi la spesa per la sanità integrativa. Vorrebbero che offrisse una copertura soprattutto per le visite specialistiche e la diagnostica ordinaria (52 per cento), le cure dentarie (43 per cento) e i farmaci (23 per cento). Sarebbero incentivati ad aderire a forme integrative se l’iscrizione al Fondo sanitario garantisse un’assistenza medica per 24 ore 7 giorni alla settimana (il 39 per cento lo indica come fattore incentivante), se riducesse i tempi d’attesa per le prestazioni di cui si ha bisogno (32 per cento), se offrisse la copertura per tutta la famiglia, non solo per il sottoscrittore (30 per cento). 

I BUCHI INFORMATIVI SULLA SANITÀ INTEGRATIVA. Complessivamente il 68 per cento degli italiani non ha mai sentito parlare di sanità integrativa (33 per cento) o ne ha sentito parlare ma non sa cosa sia esattamente (35 per cento). È sconosciuta soprattutto ai giovani (il 46 per cento non ne ha mai sentito parlare) e agli anziani (44 per cento), ed è poco compresa anche dagli adulti (il 40 per cento dei 30-44enni non la conosce). Il 53 per cento dei cittadini non conosce la differenza tra una polizza malattia e un Fondo sanitario integrativo, e il 57 per cento non sa che i Fondi sanitari integrativi comportano un vantaggio fiscale rispetto alle polizze malattie. 

CHI LA SANITÀ INTERATIVA CE L’HA. Sei milioni gli italiani che hanno aderito a un Fondo sanitario integrativo. Considerando anche i loro familiari, si sale a circa 11 milioni di assistiti. L’84 per cento di essi valuta positivamente la copertura offerta.

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Collaboratori domestici e crisi economica: così i familiari prendono il posto dei badanti

Nonostante gli assistenti stranieri siano aumentati del 53% in dieci anni, la spesa media di 667€ al mese per sostenerli è diventata elevata in bilancio. Così nel 15% dei casi un membro dello stesso nucleo ha lasciato il lavoro per assistere un congiunto

» FamigliaAura De Luca – 24/05/2013
 
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Di loro c’è un bisogno divenuto negli ultimi anniquasi irrinunciabile. Eppure, nonostante la loro presenza sia aumentata del 53 per cento in dieci anni, avvalersi dei servizi di assistenza familiare di badanti e collaboratori domestici, soprattutto in tempi di crisi, per molti italiani è divenuto un costo troppo alto da sostenere. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis e dall’Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) per il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali da cui viene fuori che sostenere un badante all’interno di un nucleo costa, in media, 667 euro al mese per famiglia. 

È vero, evidenzia il dossier, che il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Ma è anche vero che i servizi di collaborazione domestica in Italia sono caratterizzati ancora da una forte destrutturazione, soprattutto quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Non solo. Questo tipo di welfare, cosiddetto ‘informale’, ha un costo che grava quasi interamente sulle famiglie e, stando ai numeri del Censis, solo il 31,4 per cento riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si traduce per i più nell’accompagno. Ecco perché, in un contesto di questo genere, soprattutto con una domanda crescente di protezione sociale, viene sottolineate l’importanza di incrociare il ‘welfare familiare’, che impiega rilevanti risorse private, con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantirne la sostenibilità sociale.

I DATI IN GENERALE. Nell’ultimo decennio l’area dei servizi di cura e assistenza per le famiglie ha rappresentato per il nostro Paese un grande bacino occupazionale. Il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Sono 2 milioni 600mila le famiglie (il 10,4 per cento del totale) che hanno attivato servizi di collaborazione, di assistenza per anziani o persone non autosufficienti, e di baby sitting. E si stima che, mantenendo stabile il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei collaboratori salirà a 2 milioni 151mila nel 2030 (circa 500mila in più). 

UN SERVIZIO ASSISTENZIALE ANCORA MOLTO DESTRUTTURATO NONOSTANTE LA CRESCENTE DOMNADA. I servizi di collaborazione domestica in Italia si caratterizzano ancora per la forte destrutturazione, anche quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Si configurano come un lavoro domestico a tutto tondo, con una quota dell’83,4 per cento dei collaboratori occupati nel governo della casa, fino all’assistenza avanzata a persone non autosufficienti (15,3 per cento) e a bambini (18,3 per cento). C’è poi una sottovalutazione del valore delle competenze, visto che solo il 14,3 per cento dei collaboratori ha seguito un percorso formativo specifico, sebbene il 60 per cento di essi si occupi dell’assistenza di una persona anziana. 

DA LAVORO DI “RIPIEGO” A PROFESSIONE CHE GLI STRANIERI SCELGONO SEMPRE PIÙ CONSAPEVOLMENTE. Va sottolineata anche l’assenza di intermediazione nel rapporto di lavoro. Solo il 19 per cento delle famiglie si avvale di intermediari per il reclutamento. Ed esiste un’ampia area di lavoro totalmente irregolare (il 27,7 per cento dei collaboratori) e “grigio” (il 37,8 per cento) che si accompagna però al progressivo consolidamento di un quadro di tutele. La scelta lavorativa dei collaboratori ha un carattere residuale, se il 71 per cento di essi si trova nell’attuale condizione per necessità e il 35,4 per cento perché ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41 per cento). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali hanno fatto apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza (il 70 per cento) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16 per cento sta cercando attivamente un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani il 25 per cento).  

LE DIFFICIOLTÀ DI INCONTRO E DI GESTIONE TRA DOMANDA E OFFERTA. In questo quadro, non possono essere trascurate le difficoltà che sempre più famiglie incontrano non solo nel reclutamento, ma anche nella gestione del rapporto con i collaboratori. La pesantezza del “fattore organizzativo” le porta oggi a chiedere con forza, oltre agli sgravi di natura economica, una maggiore semplificazione per l’assunzione e la regolarizzazione dei collaboratori (lo chiede il 34 per cento contro il 40 per cento che richiede gli sgravi), ma anche servizi che sul territorio favoriscano l’incontro tra domanda e offerta (29 per cento). Inoltre, il 34,5 per cento delle famiglie vorrebbe l’istituzione di registri di collaboratori al fine di garantirne la professionalità, il 39 per cento vorrebbe invece che venissero create o potenziate le strutture che si occupano di reclutamento, mentre il 25,7 per cento sarebbe pronto ad affidarsi totalmente a un’agenzia privata che sollevi la famiglia da tutte le incombenze di carattere burocratico e gestionale. 

IL WELFARE INFORMALE È QUASI INTERAMENTE A CARICO DEI FAMILIARI. Ma le vere incognite che oggi incombono sulla sostenibilità del sistema sono soprattutto di natura economica. Il welfare informale ha un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari. A fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4 per cento delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’accompagno (19,9 per cento). Se la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5 per cento sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4 per cento) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2 per cento ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2 per cento ha intaccato i propri risparmi, il 2,8 per cento si è dovuto addirittura indebitare. L’irrinunciabilità del servizio sta peraltro portando alcune famiglie (il 15 per cento, ma al Nord la percentuale arriva al 20 per cento) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa rinunci al lavoro per prendere il posto del collaboratore.

DEI BADANTI C’È BISOGNO MA PER MOLTI IL COSTO DEL SERVIZIO È GIÀ DA ORA INSOSTENIBILE. Intrappolate nella spirale perversa delle esigenze crescenti a fronte di risorse calanti, il 44,4 per cento delle famiglie pensa che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di aumentare il numero dei collaboratori o delle ore di lavoro svolte. Ma al tempo stesso la metà delle famiglie (il 49,4 per cento) sa che avrà sempre più difficoltà a sostenere il servizio e il 41,7 per cento pensa addirittura che dovrà rinunciarci.

TRA I PARENTI CHE DECIDONO DI ASSISTERE UN FAMILIARE LA MAGGIORNAZA SONO DONNE CHE LASCIANO IL LAVORO. Tra le famiglie attualmente prive di badante, il 20 per cento dichiara che in casa è presente una persona che ha bisogno di cura e assistenza. In questi casi non ci sono esborsi economici da sostenere, ma un costo non irrilevante grava comunque sulla famiglia: la rinuncia a lavorare da parte di un suo componente. Si stima che nel 25 per cento delle famiglie in cui è presente una persona da assistere, e non si possa ricorrere ai servizi di un collaboratore, vi è una donna (nel 90,4 per cento dei casi) giovane (il 66 per cento ha meno di 44 anni) che ha rinunciato al lavoro interrompendolo (9,7 per cento), riducendo significativamente l’impegno (8,6 per cento) o smettendo di cercarlo (6,7 per cento).

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Sanità: Italia tra gli ultimi in Europa per risorse destinate alla protezione sociale dei disabili

Dalla ricerca Fondazione Cesare Serono/Censis, per i servizi il Bel Paese spende ogni anno 438 euro pro-capite, meno della media europea (€531) e del Regno Unito (€754). Il modello rimane assistenzialistico con responsabilità scaricate sulle famiglie

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Italia fanalino do coda nel confronto europeosui servizi messi in campo nella gestione e l’assistenza dei bisogni delle persone con disabilità. Con 438 euro pro-capite annui, infatti, l’Italia si colloca molto al di sotto della media dei Paesi dell’Unione europea (531 euro). In Francia si arriva a 547 euro per abitante all’anno, in Germania a 703 euro, nel Regno Unito a 754 euro, e solo la Spagna (395 euro) si colloca più in basso del Bel Paese. I dati arrivano dalla ricerca di Censis e Fondazione Cesare Serono, che dopo aver studiato e approfondito le esigenze assistenziali e i problemi socio-economici dei malati di Parkinson, Down, autismo e sclerosi multipla, in questo quarto appuntamento del progetto ‘Centralità della persona’ si concentrano ora sull’analisi dell’offerta di servizi per cronici e disabili da parte della sanità italiana.

Così, scorrendo le pagine del dossier, si scopre che ancora più grande è la sproporzione tra lemisure erogate sotto forma di benefici cash, ossia di prestazioni economiche, e quelle in natura, ossia sotto forma di beni e servizi. In quest’ultimo caso il valore pro-capite annuo in Italia non raggiunge i 23 euro, cioè meno di un quinto della spesa media europea (125 euro), un importo lontanissimo dai 251 euro della Germania e pari a meno della metà perfino della spesa rilevata in Spagna (55 euro). 

SOSTEGNO ECONOMICO EROGATO DALL’INPS E ASSISTENZA DELEGATA ALLE FAMIGLIE.Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia le misure economiche erogate dall’Inps in favore di persone che hanno una limitata o nessuna capacità lavorativa sono pari a circa 4,6 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui 1,5 milioni tra assegni ordinari di invalidità e pensioni di inabilità e 3,1 milioni per pensioni di invalidità civile, incluse le indennità di accompagnamento, per una spesa complessiva di circa 26 miliardi di euro all’anno. Ma il modello italiano rimane fondamentalmente assistenzialistico e incentrato sulla delega alle famiglie, che ricevono il mandato implicito di provvedere autonomamente ai bisogni delle persone con disabilità, di fatto senza avere l’opportunità di rivolgersi a strutture e servizi che, sulla base di competenze professionali e risorse adeguate, potrebbero garantire non solo livelli di assistenza migliori, ma anche la valorizzazione delle capacità e la promozione dell’autonomia delle persone con disabilità.

IL RITARDO ITALIANO SU INSERIMENTO LAVORATIVO DEI DISABILI. L’Italia è ancora molto indietro sul fronte dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano i dati sui tassi di occupazione. Le differenti definizioni di disabilità in uso nei diversi Paesi europei rendono difficile il confronto. Ma ad esempio in Francia, dove il 4,6 per cento della popolazione (una quota simile a quella italiana) ha un riconoscimento amministrativo della propria condizione di disabilità, si arriva al 36 per cento di occupati tra i 45-64enni disabili, mentre in Italia il tasso si ferma al 18,4 per cento tra i 15-44enni e al 17 per cento tra i 45-64enni. Anche i dati prodotti dalle ricerche della Fondazione Cesare Serono e del Censis evidenziano le enormi difficoltà che queste persone incontrano, sia a trovare un lavoro una volta completato il percorso formativo (è il caso delle persone con sindrome di Down e degli autistici), sia a mantenere l’impiego a fronte di una malattia cronica che causa una progressiva disabilità (è il caso delle persone con sclerosi multipla). Meno di una persona Down su 3 lavora dopo i 24 anni, e il dato scende al 10 per cento tra gli autistici con più di 20 anni. Meno della metà delle persone con sclerosi multipla tra i 45 e i 54 anni è occupata, a fronte del 12,9 per cento di disoccupati e del 23,5 per cento di pensionati.

DISABILI A SCUOLA: SE LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO SONO SCARSE O INADEGUATE.L’inclusione scolastica occupa un posto centrale nel panorama delle politiche di inserimento sociale delle persone con disabilità. In Italia però sono poche le scuole speciali dedicate ad alunni con problematiche sanitarie complesse. Ma la legge obbliga tutte le scuole pubbliche e private ad accettare l’iscrizione degli alunni con disabilità. Se è vero che l’esperienza italiana rappresenta un’eccellenza, le risorse dedicate alle attività di sostegno e di integrazione degli alunni con disabilità nella scuola appaiono spesso inadeguate. Nell’anno scolastico 2010-2011 circa il 10 per cento delle famiglie degli alunni con disabilità ha presentato un ricorso al Tribunale civile o al Tribunale amministrativo regionale per ottenere un aumento delle ore di sostegno.

LA METODOLOGIA DI INDAGINE E I DATI DELLE ASL SUI SERVIZI. Per fornire una mappa dell’offerta sanitaria e socio-sanitaria su cui possono contare i disabili italiani è stata realizzata un’indagine nazionale che ha coinvolto tutte le 147 Asl e che si basa sulle risposte di 35 di esse. Con riferimento ai servizi disponibili per le persone Down, 19 Asl su 24 indicano la presenza di servizi di neuro e psico-motricità dell’età evolutiva e di logopedia, 16 segnalano l’attivazione di progetti di educazione all’autonomia e 17 di altri servizi. Per quel che riguarda i pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico, 21 Asl su 24 segnalano l’offerta di servizi di logoterapia e 18 su 24 garantiscono la terapia per la psicomotricità. Per quanto riguarda i servizi per i pazienti affetti da sclerosi multipla, l’offerta delle Asl si concretizza soprattutto in riabilitazione motoria e logopedia, la prima garantita praticamente dalla totalità delle Asl, la seconda dalla metà. Per i pazienti con la malattia di Parkinson, tutte le Asl hanno segnalato di garantire la riabilitazione motoria, la metà quella del linguaggio, un terzo la terapia occupazionale.
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