‘Gli Equilibristi’: “Mantenere la propria famiglia, la propria dignità, ma non se stesso”

Il film presentata alla Mostra di Venezia è uno spaccato reale e crudo sulla situazione dei padri separati. Un viaggio nella dimensione dei nuovi poveri. De Matteo: “Questo è il conto presentato dopo anni di falso benessere in cui ci hanno fatto cullare”

Vito Tripi – 21/09/2012
 
Fonte: ©Marta Spedaletti e Laura Lo Faro

 

Un film che, più di ogni altro mostra la realtàdelle famiglie italiane negli anni della crisi non solo economica, ma anche e soprattutto dei rapporti interni al nucleo. Uno spaccato sui genitori separati e monoreddito, che oramai vivono sotto la soglia della povertà e, nonostante questo, devono continuare a provvedere alla propria famiglia. Protagonista di questa pellicola, che ha il sapore del reportage e che qualcuno, non a torto, ha avvicinato a ‘Umberto D’ e ‘Ladri di biciclette’, è Giulio, che ha il volto di un magistrale Valerio Mastandrea, impiegato del Comune con 1.200 euro mensili che si trova a dover mantenere se stesso e la moglie che vive con i due figli. La situazione si fa di mese in mese sempre meno sostenibile, e per non intaccare dignità e orgoglio con mancati pagamenti, a rimetterci è la sua qualità della vita che scende sempre di più fino ai limiti della tolleranza.

Presentato alla 69ma Mostra del Cinema diVenezia, nella sezione Orizzonti, il film ‘Gli equilibristi’ di Ivano De Matteo è un film che mostra la disintegrazione del nucleo familiare, la fine delle certezze ma soprattutto delle illusioni. De Matteo apre gli occhi dello spettatore italiano su una realtà fin troppo cruda ma fin troppo vicina a ciascuno di noi. Si potrebbe definire un film dalla prospettiva maschile, visto che il protagonista viene buttato fuori di casa dalla moglie perché adultero, ma in realtà si tratta di una visione globale che potrebbe riguardare tutti.

“Questo film era in cantiere dal 2007 – ha raccontato il regista in un incontro con la stampa neigiorni scorsi – e vuol essere un film ideologico. Ho voluto mostrare la realtà dei nuovi poveri, che sono ben diversi dall’immagine che si è avuta per anni dei clochard, o quella più attuale degli immigrati”. “Si tratta di persone normalissime, dall’aria tranquilla, magari ben vestite, che però mangiano alla mensa della Caritas e sono costrette a dormire in macchina. Questo è il conto, purtroppo, che c’è presentato dopo gli anni di falso benessere in cui ci hanno fatto cullare”. “Ormai – ha continuato De Matteo – il confine tra i due mondi, quello della luce fatto benessere, e quello d’ombra, in cui si aggirano i disperati, non sono più così distanti sono quasi speculari e paritetici, l’uno può diventare l’altro in frazione di secondo”.

‘GLI EQUILIBRISTI’ BACKSTAGE


Una pellicola oltremodo toccante in cui il regista ha ammesso di aver inserito molti aspettibiografici, la cui sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con la sua compagna di vita Valentina Ferlan e con il figlio Lupo che interpreta il figlio del protagonista del film. “Se per due anni sto fermo non pagando il mutuo – ha ironizzato De Matteo – mi trasferisco con tutta la famiglia a casa di mia madre e viviamo con la sua pensione di reversibilità. Quindi mi troverò una famiglia-stato anziché uno stato-famiglia come dovrebbe essere”. Oltre a questo il personaggio di Giulio in parte è ricalcato e in parte è omaggio ad un suo amico che era un poeta di strada.

“Per questo film la domanda più stupida che mi è stata fatta – ha raccontato ValerioMastandrea – è ‘Chi è Giulio’ che vuol dire delegare completamente l’analisi di un personaggio e di un film. Invece la domanda più interessante, ma anche la più difficile, che mi è stata fatta più volte è stata ‘E allora che si fa? Cosa possiamo fare per sopravvivere?'”. “Nel finale della pellicola si cerca di dare una risposta, forse un po’ estrema, ma anche idealista e romantica. Probabilmente – ha concluso l’attore romano – perché ormai ci è rimasto solo questo attaccarci a questa spiritualità rispetto alla sopravvivenza non è colpa nostra ma è il simbolo dell’epoca in cui viviamo”.

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La Bella Addormentata risveglia il dibattito su scelte etiche drammatiche

20/09 17:09 CET

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Il film del regista Marco bellocchio ripercorre gli ultimi sei giorni di vita di Eluana Englaro dopo 17 anni di stato vegetativo, la decisione del padre di sospenderne l’alimentazione forzata, ed il clamore della sua battaglia legale. La vicenda fa da sfondo ad un intreccio di altre storie fittizie tutte connesse emotivamente al caso. Tra gli interpreti Isabelle Huppert , Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Gian Marco Tognazzi e Brenno Placido.

“Il mio film sui crimini dei partigiani? Non lo inviteranno mai a Venezia”

 

Adriano Scianca

Possibile che le 136 vittime di Codevigo facciano ancora paura? Possibile che i soldati della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere, che i civili uccisi e talora torturati nella primavera del 1945 nei pressi del comune padovano, a guerra finita, da partigiani garibaldini non possano essere ricordati neanche nell’Italia del 2012? Sembra di sì, almeno a giudicare dalle difficoltà che il regista Antonello Belluco sta incontrando nel girare il suo “Il segreto”, pellicola dedicata proprio alla strage dimenticata commessa dai partigiani e ricordata recentemente solo da Gianpaolo Pansa. Pressioni, lettere minacciose, finanziatori che se ne vanno, materiali che non arrivano mai, una sfilza infinita di “no” e tante porte chiuse. Perché, spiega, «certi temi sono ancora tabù e io, che sono figlio di profughi istriani e ho conosciuto Toni Negri, lo so bene. Ma il mio non un film politico, si tratta solo di una storia d’amore che ha sullo sfondo quei drammatici fatti che nessuno vuole più ricordare. Sarà per questo che ci stanno rendendo la vita impossibile…».
Belluco, come vanno le riprese? Pare che ci sia qualche difficoltà…
“Qualche”? Stiamo facendo una fatica incredibile. Se le parlassi di tutte le vicissitudini capitate riempirebbe una pagina solo con quelle. Quando si scopre l’argomento del film dicono tutti di no per qualsiasi cosa, anche le più banali. Il coproduttore, poi, se n’è andato e ci ha lasciato nei guai. Molti politici mi hanno detto di aver avuto pressioni affinché il film non uscisse mai. Ho anche ricevuto due raccomandate dal figlio del partigiano Arrigo Boldrini, il comandante “Bulow” delle Brigate Garibaldi, nelle quali mi si intimava di non andare avanti…
E voi andrete avanti?
Certo. Nonostante tutto il film si farà. Non ci manca poi tanto.
Non è che ce l’hanno con lei perché fa film “revisionisti”, ammesso che questa parola sia così offensiva come dicono?
No, nella mia pellicola non c’è nessun discorso politico, il film parlerà di una storia d’amore, la strage fa solo da sfondo. Io parlo di una famiglia come tante, marginale, in cui, certo, si indossava la camicia nera. Ma questo non può essere considerato una colpa in sé, dato che a quell’epoca tutti portavano la camicia nera. Persino Arrigo Boldrini mi risulta l’abbia indossata…
Vero, nel settembre del 1939 entrò nella Milizia volontaria per sicurezza nazionale prima di passare con gli antifascisti. Magari è proprio per questo che non se ne può parlare.
Peraltro Boldrini ha guidato l’Anpi ed è stato parlamentare, è una figura intoccabile, parlare di certe storie significherebbe mettere in crisi l’Anpi  tutto un certo mondo. Anche se si è sempre dichiarato estraneo all’eccidio di Codevigo, era pur sempre il comandante di una brigata coinvolta in questa brutta storia. E questo non è l’unico argomento tabù. Io sono figlio di esuli istriani e avrei sempre voluto fare un film su quel dramma ma niente, è impossibile, si trovano tutte le porte sbarrate. Di certi argomenti non si vuol proprio sentir parlare.
Qualcuno le darà del “fascista”…
Guardi, Giorgio Almirante diceva che chi non ha vissuto il fascismo non può definirsi fascista, che il fascismo è un’esperienza storica conclusa e io sono d’accordo con lui. Non ho vissuto il fascismo, ho vissuto altri anni e altre problematiche. Quelli di Mazzola e Giralucci, altra storia su cui mi sarebbe sempre piaciuto girare una pellicola. Quelli di Toni Negri, con cui ho persino fatto un esame all’università. Le storie da raccontare al cinema sarebbero tante…
E perché non lo si può fare? L’egemonia di sinistra è ancora così forte? 
Altrove non so, ma al cinema assolutamente sì. Non esiste possibilità di entrare se non si è dei loro e se non si propongono storie legate alla loro cultura. Nelle grandi spartizioni politiche, la cultura è sempre toccata alla sinistra. È stata una decisione a tavolino. Anche ai festival, lo vediamo in questi giorni,  girano sempre gli stessi nomi, è un turnover fra le solite facce: Bellocchio, Moretti, Amelio etc. Meglio rassegnarsi: film come il mio non andranno mai ai festival.

 

Batman 1939-2012: dal fumetto al grande schermo 73 anni di successi

Un tripudio annunciato per il terzo capitolo della saga di Christopher Nolan che ci dà modo di rivedere come sono cambiati ed evoluti i personaggi dell’uomo pipistrello dalla carta al mondo di celluloide

 

Era tra i film in scaletta più attesi per la finedell’estate. dopo numerosi rimandi, dovuti ai continui cambi cast e di sceneggiatura che hanno alimentato la fama di trilogia maledetta, ecco finalmente arrivare l’ultimo capitolo di Batman ‘Il cavaliere oscuro – Il ritorno’ diretto da Christopher Nolan. La pellicola, prodotta da Legendary Pictures e Warner Bros, è il capitolo conclusivo della trilogia iniziata nel 2005 con ‘Batman Begins’ e proseguita nel 2008 con ‘Il cavaliere oscuro’, entrambi diretti da Nolan e con protagonista Christian Bale. Attualmente con un incasso globale di oltre 1 miliardo 246mila dollari, ‘The dark knight rises’ sta per entrare nella top ten dei film più visti e con i maggiori incassi di sempre. Senza svelare troppo sulla trama, densa di colpi di scena, ci preferiamo soffermarci su come i personaggi apparsi in questa trilogia si siano evoluti dalla carta stampata, passando dal piccolo al grande schermo senza tralasciare i videogames.  E l’inizio non si può non iniziare sul fronte dei buoni con il padrone di casa.  

1939, L’ESORDIO DELL’UOMO PIPISTRELLO NEI FUMETTI. Il personaggio ha esordito nei fumetti nel maggio 1939 sul numero 27 della rivista ‘Detective Comics’, diventando una delle icone più importanti del fumetto supereroico. Un po’ antipodico a Superman, è perché non possiede superpoteri, e per il carattere più duro alle volte molto risoluto, è uno dei personaggi più amati anche se spesso accusato di essere troppo violento e addirittura ‘cripto fascista!’ Il Batman che un po’ tutti abbiamo conosciuto all’inizio è quello televisivo, sia dei cartoni animati che dei telefilm, che vide Adam West vestire i panni dell’Uomo Pipistrello, un eroe che trovava spazio anche per il sorriso, vestendo una ridicola calzamaglia bluette e attillata che faceva intravedere un po’ di pancetta, mentre i suoi avversari ideavano piani sempre più astrusi e macchinari decisamente assurdi e giganteschi. Nonostante tutti questi elementi creassero spesso una miscela al limite del ridicolo o del farsesco, la serie ebbe un enorme successo e ancora oggi viene citata con affetto dagli appassionati del personaggio.

L’ADATTAMENTO PER IL GRANDE SCHERMO.Nonostante sia diffusa la convinzione che il primo adattamento del personaggio sia stato Batman di Tim Burton, la serie di film su Batman comprende ben dieci pellicole di cui la prima con protagonista Lewis Wilson (1943), poi Robert Lowery (1949), Adam West (1966), Michael Keaton (1989 e 1992), Val Kilmer (1995), George Clooney (1997) e da Christian Bale. I primi tre film riprendevano la visione “buonista” del Cavaliere oscuro, ma sarà con Keaton che torneremo ad un Batman di nuovo col costume nero, un po’ più cupo e violento, fedele alla linea. Con il duo Bale- Nolan si sceglie la psicologia del Batman voluto da Frank Miller ottenendo un successo enorme di critica e pubblico. Per quanto riguarda la spalla del dinamico duo, ossia Robin il Ragazzo Meraviglia, egli ebbe un grande successo sul piccolo schermo interpretato da Burt Ward. Anche se il suo personaggio risultato molto femmineo, e quasi inutile forse per questo al cinema ebbe vita molto, Robin venne utilizzato solo nei film di Joel Schumacher (‘Batman Forever’ e ‘Batman & Robin’). In entrambe le occasioni venne interpretato da Chris O’Donnell, attore decisamente più anziano rispetto al personaggio originale.

ALFRED, DALLA CARTA ALLA CELLULOIDE  IMPECCABILE COME SEMPRE. E poi lui, il fido Alfred, maggiordomo tuttofare nonché tutore di Bruce Wayne che ha avuto invece una vita assai particolare. È il primo caso,infatti, in cui un personaggio dei fumetti viene influenzato dalla sua controparte in celluloide poiché nelle prime apparizioni del fumetto Alfred appariva come un uomo in sovrappeso e senza capelli. Nella primissima serie televisiva, invece, venne interpretato da William Austin il quale aveva un fisico magro e sportivo e dei baffi sottili. Il successo della serie spinse gli autori del fumetto a modificare l’aspetto di Alfred così da assomigliare all’Alfred interpretato da Austin. Nelle pellicole dal 1989 al 1997 sarà il noto volto di Hammer Michael Gough ad impersonare il maggiordomo, anche se non molto somigliante poiché con troppi capelli, gli occhiali e privo di baffi. Mentre ne ‘Il Cavaliere oscuro’, è un magistrale Michael Caine, anche se fisicamente non somigliante, ad interpretare Alfred che nei film di Christopher Nolan assume uno spessore umano e psicologico notevole.

DA HAMILTON A HINGLE, PASSANDO PER GARY OLDMAN, L’EVOLUZIONE DEL COMMISSARIO GORDON. E chiudiamo con il commissario James ‘Jim’ Gordon che è forse tra i comprimari più importanti di Batman. Neil Hamilton interpretò il personaggio nel celebre telefilm degli anni sessanta però era fisicamente inadatto e anche il suo ruolo era marginale quasi comico. Nei film diretti da Tim Burton e Joel Schumacher, Gordon è interpretato da Pat Hingle ma anche qui la fisicità non quadra e lo spessore del personaggio non è ben sviluppato. Ma sarà Gary Oldman nell’ultima trilogia ad impersonare la sua ascesa da semplice poliziotto a commissario che rientra in toto nell’aspetto e nella psicologia del personaggio di Miller. 

JOKER, IL PRIMO DI TUTTI I CATTIVI. Il primo attore ad impersonarlo in un live-action è stato Cesar Romero, che ne diede un’impronta clownesca, ma sempre inquietante, mentre nel Batman del 1989 diretto da Tim Burton, il Joker è stato interpretato da Jack Nicholson. La nascita del personaggio è simile a quella narrata dal fumetto ma, invece di essere un comico fallito, gli sceneggiatori decisero di fare subito del Joker un criminale incallito responsabile della morte dei genitori di Bruce Wayne. Alle interpretazioni sopra citate, va ricordata anche quella magistrale dello scomparso attore australiano Heath Ledger ne ‘Il cavaliere oscuro’ che gli è valsa la vittoria ai BAFTA, ai Golden Globe e al Premio Oscar come miglior attore non protagonista. I critici hanno paragonato questa interpretazione all’Hannibal Lecter di Anthony Hopkins.

LE QUATTRO VITE DI CATWOMAN. Anche se non si può realmente definire una villain, quanto piuttosto un’antagonista, la sinuosa Selina Kyle, ladra femme fatale, ebbe per prima il volto Lee Ann Meriwether film del 1966, tratto dalla serie televisiva omonima e il suo alterego si chiama Miss Kitka Karensha. Fu poi la volta di  Michelle Pfeiffer nel film del 1992, un personaggio rappresentato come una donna sola, infelice e frustrata, spinta al crimine dal proprio capo, Max Shreck, che aveva tentato di ucciderla per coprire il suo piano di costruire una centrale elettrica per rubare l’energia di Gotham City. Nel 2004, i panni della donna gatto li veste Halle Berry, una versione che si discosta molto dal fumetto soprattutto per  una questione ‘etnica’ Selina non era afroamericana. Il film, com’era prevedibile, fu un fiasco al botteghino e presso i fan del fumetto e l’attrice si portò a casa il Razzie Award come peggior attrice. Nell’ultimo film di Nolan tocca ad Anne Hathaway che, al di là della fisicità, dal punto di vista caratteriale è forse tra le più fedeli al fumetto.

DUE FACCE, DAI CATROON ALLA CORTE DEL CAVALIERE OSCURO. 
Per quanto riguarda il personaggio di Due Facce, alias Harvey Dent, totalmente estraneo alla serie tv, venne riesumato dai cartoon. In ‘Batman Forever’ ha il volto di Tommy Lee Jones, co-antagonista insieme al Ridler interpretato da Jim Carrey. Ottima l’interpretazione e le origini del personaggio. Nel secondo capitolo della trilogia di Nolan, Due Facce sarà interpretato da Aaron Eckhart, indubbiamente una grande recitazione, ma con uno sviluppo narrativo ben diverso dal fumetto. 

SPAVENTAPASSERI, UN PERSONAGGIO IN CERCA DI FORTUNA. 
Lo Spaventapasseri, alias Jonathan Crane, doveva essere uno degli antagonisti di Batman Triumphant, film poi cancellato a causa del flop di Batman & Robin. Però lo psicologo pazzo apparve, interpretato da Cillian Murphy, nel primo film della nuova trilogia. Murphy ha voluto evitare il look classico del personaggio preferendo un abbigliamento più semplice per donargli più realismo. Benché diverso dalla controparte di carta e non sviluppato col dovuto spessore, Crane compare in tutti e tre i film guadagnandosi una certa visibilità.

RA’S AL GHUL, CON LIAM NEESON IL SUCCESSO MEDIATICO. è uno dei principali e più pericolosi antagonisti di Batman soprattutto perché è uno dei pochi nemici dell’Uomo-Pipistrello che conosce la sua vera identità. Il personaggio di Ra’s al Ghul non ha mai avuto molto risalto mediatico finquando non è apparso in una versione a cartoni animati all’interno della serie animata Batman, doppiato in italiano da Mario Scarabelli. E fu scelto lui come villain del primo episodio della serie di Nolan con il volto di Liam Neeson. Benché per carattere e atteggiamenti, nonché nella fisicità, sia fedele al fumetto vengono eliminate alcune sue caratteristiche come l’immortalità ottenuta grazie al pozzo di Lazzaro. 

BANE, L’UTLIMO CATTIVO CHE CHIUDE LA TRILOGIA. Ora è il turno di Bane, megacattivo dell’ultima pellicola che chiude la trilogia de ‘Il Cavaliere oscuro’. Come molti altri suoi colleghi egli appare prima nella serie animata e poi nel film del 1997, diretto da Joel Schumacher, interpretato dal wrestler Robert Swenson. Rispetto al fumetto, viene rappresentato come un tirapiedi dalla scarsa intelligenza, brutale e capace di pronunciare solamente qualche parola, semplificando molto le sue origini e il suo carattere, cosa che ha contribuito all’insuccesso del film. In questa sua ultima incarnazione, invece, ha un ruolo fondamentale e ad interpretarlo è l’attore britannico Tom Hardy, solo che qui il look risente molto di alcuni Signori dei Sith di lucasiana memoria come Darth Malgus e il più famoso Darth Vader visto che deve indossare sempre un congegno per respirare che gli fa inalare del gas antidolorifico a causa di una vecchia ferita. Però questa è forse l’interpretazione più veritiera e adatta al personaggio di carta. 

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VIVA IL RESPIRO

 

Nel 1994 il regista Sandro Baldoni diresse un film a

tre episodi dal titolo “Strane Storie”. Nel primo episodio

il protagonista (Ivano Marescotti) si sveglia una mattina

con attacchi violenti di tosse e difficoltà a respirare.

Bussano alla porta due uomini in tuta che gli notificano

la “chiusura dell’aria” per non avere pagato in tempo

la bolletta. Proprio così, la bolletta dell’aria.

“Quanto tempo ho?…”, chiede angosciato.

“Se fa in fretta, in venti minuti ce la fa a raggiungere

la centrale dell’aria”, rispondono compunti e distaccati

i funzionari.

L’uomo si veste alla meglio e va, si trascina per

strada, l’autobus tarda, prende un taxi, una manifestazione

lo rallenta, arriva infine a destinazione.

Annaspando raggiunge lo sportello dopo che un signore, morendo, gli cede il

posto nella fila. Con burocratica lentezza l’impiegata di turno verifica che la

pratica sia in ordine, corredata di bolli e timbri. È a posto, ma ha difficoltà a dare

il resto… l’uomo annaspa, l’ossigeno è quasi del tutto esaurito, ma ecco che alla

fine l’aria viene ripristinata in extremis. L’uomo inspira profondamente e rumorosamente

ad occhi sbarrati. Ce l’ha fatta.

Esce dunque in strada, si abbandona ad occhi chiusi appoggiato a un cancello

e, per godere di quell’attimo di felicità, si accende una sigaretta.

Il racconto è paradossale e racchiude tutte le contraddizioni della nostra umanità.

Tutti gli esseri viventi si ritraggono per istinto da qualsiasi fonte di fumo.

L’homo sapiens ha violato questa elementare legge della natura e della conservazione

della Vita. Giunto alla massima evoluzione intellettiva e creativa, contro

ogni legge biologica, è riuscito a ficcarsi del fumo concentrato nelle delicatissime

vie respiratorie definendolo un… piacere.

Questo “piacere” è considerato da decenni, da parte dell’Organizzazione

Mondiale della Sanità, la prima causa di morte evitabile al mondo. Ogni anno

cancella dal pianeta oltre 5 milioni di persone per malattie gravi e invalidanti che

opprimono il respiro e danneggiano gravemente i bronchi e i polmoni, incapaci

di difendersi in quanto la natura li ha programmati per ricevere aria, non fumo.

VIVA IL RESPIRO

In Italia le morti indotte dal fumo di sigaretta ogni anno sono 80.000, di cui 30.000 solo per

tumori al polmone.

Per questo motivo il tabacco è considerato il principale fattore di rischio per malattie

respiratorie, cardiovascolari e tumorali.

In altri termini, provoca più decessi e invalidità di incidenti stradali, alcol, aids, droghe,

omicidi e suicidi messi insieme.

fonte lilt

Buon Compleanno E.T., piccolo alieno pasticcione che commuove ancora dopo 30 anni

Nato dall’immaginario di Steven Spielberg, realizzato dallo scultore Carlo Rambaldi, a tre decenni esatti dall’uscita nelle sale americane ripercorriamo la genesi della creazione dell’extra-terrestre più famoso nella storia del cinema

Fonte: Immagine dal web

 

Avere trent’anni e non sentirli: questo è quelloche potrebbe dire il piccolo E.T., l’extraterrestre più famosi della storia del cinema che l’11 giugno 2012 ha spento ben trenta candelina. Grazie a lui il grande schermo ha conosciuto un altro tipo di alieno, estremamente buono, indifeso e spaventato, che deve confrontarsi con i terrestri che tutt’altro sembrano tranne che pacifici e ben intenzionati a sezionarlo. Distribuito dalla Universal Pictures, E.T. divenne un successo al botteghino, sorpassando, all’epoca, Guerre Stellari come film che ha incassato di più nella storia del cinema. La pellicola, che fu ridistribuita nel 1985 e nel 2002, con l’aggiunta di nuove scene ed effetti speciali, affronta i temi cari Steven Spielberg: la crescita, il rispetto e la tolleranza. Egli stesso sostiene spesso che E.T. rappresenta tutto il suo lavoro.

La figura del piccolo extraterrestre un po’pasticcione, infatti, affonda le sue radici nell’infanzia stessa del regista, poiché dopo il divorzio dei suoi genitori, nel 1960 Spielberg colmò il vuoto causato dall’avvenimento con un alieno immaginario che gli facesse compagnia. Durante il 1978 Spielberg annunciò di voler girare un film in soli ventotto giorni dal titolo ‘Growing Up’ (Crescere). Il progetto fu messo da parte per altri impegni cinematografici, ma il regista era fermamente intenzionato a realizzare un breve film semi-autobiografico sulla sua infanzia. 


[Carlo Rambaldi ed il suo team durante la realizzazione di E.T.]

Per la creazione del piccolo etra-terrestre, Steven Spielberg diede diverse istruzioni agli artistiche avrebbero dovuto realizzarlo: E.T. sarebbe dovuto essere alto soltanto un metro, con un collo telescopico e piccoli piedi grassocci. Per la costruzione pratica della creatura, il regista americano si rivolse allo scultore italiano Carlo Rambaldi, che aveva già collaborato con il regista in ‘Incontri ravvicinati del terzo tipo’, e che grazie a ‘King Kong’ si era fatto un nome anche ad Hollywood. Il primo modellino in creta dell’alieno ricordava le caratteristiche del volto dei gatti himalaiani, animale scelto anche per realizzare il fac-simile dei tessuti muscolari esterni al personaggio. L’animazione finale, con 85 punti di movimento controllati da dieci operatori esterni, è stata realizzata in quattro versioni: per i primi piani, i mezzi primi piani, le inquadrature medie e i campi lunghi.


[Il regista americano Steven Spielberg con il pupazzo di E.T.]

Il regista fece dei test per verificare come reagiva il modello di fronte alle luci di scena. Ildirettore della fotografia, Allen Daviau, scoprì che queste ultime miglioravano l’aspetto dell’alieno, al quale fu definitivamente applicato il colore marrone. Una delle sfide nella creazione del pupazzo fu quella di rendere realistico il movimento della bocca e della lingua. Problema risolto dal tecnico Steven Townsend che costruì un meccanismo costituito da sei cavi separati.


[Una delle scene finali del film]

Il resto è storia, come le celebri frasi ‘E.T. telefono casa’ o ‘Io sarò sempre qui’. Un capolavoroche aprì una porta sul mondo degli alieni. Non si contano, infatti, i tentativi di emulazioni, uno per tutti ‘Il mio amico Mac’ in cui si cercava di copiare anche la copertina, il cui primo piano non mostrava il dito umano e alieno che s’incontrano, bensì due primi piani. Anche nel film ‘Critters’ uno dei diabolici roditori alieni ha uno scambio di battute con un pupazzo di E.T., a cui poi stacca la testa a morsi, gridando ‘Chi sei tu?’.
 
[Una scena del film]

Come nella natura di molti film, che hanno avuto un successo planetario, in molti si sonochiesti come mai E.T. non abbia avuto sequel. In realtà l’idea c’era, tanto che nel  luglio del 1982 Steven Spielberg e Melissa Mathison, uno degli sceneggiatori, scrissero una relazione per un possibile seguito, dal titolo ‘E.T. II: Nocturnal Fears’. La storia vedeva Elliott ed i suoi amici, catturati da malvagi alieni, tentare di contattare E.T. per chiedergli aiuto. Ma il regista americano cambiò rapidamente idea, rinunciando al progetto perché avrebbe strappato al film la sua innocenza. In ogni caso c’è stato una sorta di seguito ideale, ovvero l pubblicazione di un libro scritto da William Kotzwinkle dal titolo ‘E.T.: The Book of the Green Planet’, un modo per ricordare il piccolo extra-terrestre pasticcione, trasformato suo malgrado in un piccolo paladino dell’ecologia.

Texas ’46

 

Un film che narra un aspetto poco conosciuto della nostra storia recente

SCHEDA DEL FILM

  • Texas ’46 (2002)
    Un film di Giorgio Serafini
  • Genere Drammatico
  • Produzione Italia
  • Durata 96 minuti circa

Trama Texas ’46

L’8 settembre del 1943 l’esercito italiano, nel quadro dell’armistizio, si smembrò. Gran parte dei militari tornarono disordinatamente a casa, alcuni …

Dopo l’8-9-1943 una parte dei cinquantamila militari italiani prigionieri di guerra degli USA si rifiutarono di rinnegare l’alleanza fascista con la Germania e di aderire al governo Badoglio. Furono rinchiusi in due campi, a Hereford (Texas) e nelle Hawaii. Scritto e diretto da G. Serafini dopo aver intervistato decine di sopravvissuti, racconta la storia di Manin (L. Zingaretti), ufficiale friulano che nel 1944, riacciuffato dopo un’evasione, si ritrova nel campo texano ormai evacuato e isolato, con un frustrato colonnello USA (R. Scheider). Tra i due ex nemici nasce una solidarietà virile che si trasforma in amicizia. Come gli altri, Manin fu rimpatriato soltanto nel 1946. Tolto il britannico Another Time, Another Place (1983), ambientato in Scozia, non erano mai stati fatti film sui prigionieri italiani negli USA e in India, ma nemmeno su quelli internati in Germania per motivi opposti. È un sintomo dei tempi che si sia cominciato da quelli che fecero la scelta di Manin. Girato in Bulgaria e in inglese, ha un passo e una scrittura televisivamente corretti, dialoghi inclini alla retorica dell’onore, del dovere e della fedeltà alla patria, due efficaci protagonisti.

UN MEDICO, UN UOMO

 


UN MEDICO, UN UOMO

(THE DOCTOR)

1992

regia di Randa Haines


Jack McKee (interpretato da William Hurt) fa il chirurgo in un ospedale di San Francisco. E’ molto abile ma, come non si stanca di ripetere ai suoi tirocinanti, ritiene che il suo compito sia “…entrare, aggiustare, andarsene…”, senza perdere tempo a chiacchierare con i pazienti. E’, insomma, il prototipo dei tanti medici ospedalieri americani per i quali – come dice con cognizione di causa avendo a lungo lavorato negli Stati Uniti – Ignazio Marino “il contatto umano col paziente quasi scompare”.

Il dottor Jack McKee è il protagonista di Un medico un uomo (sciocco titolo italiano del film The Doctor), regia della regista statunitense Randa Haines, tratto dal libro autobiografico A Taste of my own Medicine del dottor Ed Rosenbaum. Infastidito da un ricorrente raschiare alla gola, egli si reca dalla dottoressa Abbott, una collega otorinolaringoiatra, per una vista. “Lei ha un tumore alla laringe – ella gli dice alquanto bruscamente – occorre una biopsia”. Il giorno dopo, McKee va in ospedale per farla, gli tocca aspettare a lungo (e pensa, irritato: “Cosa ci faccio qui, io, ad attendere come un comune mortale?”), rifiuta la carrozzella per recarsi in corsia (ma l’infermiere insiste: “Lei ora è un paziente e se cade in ospedale siamo noi i responsabili”), scopre con notevole contrarietà che non gli hanno assegnato una camera singola (“Io non divido la stanza con nessuno” sbraita inutilmente). Il suo compagno di stanza è un poliziotto che gli parla delle sue molte esperienze ospedaliere, dicendo male dei medici e provocando in lui una reazione contraddittoria: da una parte sarebbe spinto a difendere la categoria cui lui stesso appartiene, dall’altra si rende conto che – nella sua nuova condizione di malato – sta subendo gli stessi disagi che l’altro gli racconta (finisce anche col prendersi un clistere destinato, invece, al poliziotto). Comincia a vedere l’ospedale, insomma, con gli occhi del paziente. “Il tumore è maligno” gli annuncia, con la solita durezza, la dottoressa Abbott. Viene decisa la radioterapia, per la quale McKee viene inviato da un altro collega, il dottor Reed. Nuove attese, nuovi moduli da riempire, nuove irritazioni. Egli non sa e non vuole fare il malato (“Sono un dottore anch’io” dice a un certo punto, sentendosi però risponder “Non qui”). Conosce, incontrandola nella sala d’attesa di Reed, una ragazza di nome June: ha un tumore al cervello e fa anch’ella la radioterapia, ha perso i capelli, gli appare stranamente serena seppur cosciente della gravità del suo stato. Tra i due inizia un rapporto profondo, che aiuta lui a comprendere cosa significhi essere malato, nelle mani di medici che con i malati non riescono a dialogare. La malattia e June lo aiutano a cambiare radicalmente il suo stile professionale: se ne accorge un suo assistente quando, avendo usato l’espressione “il terminale della 17” per indicare un paziente in fin di vita, si sente rispondere con durezza “Un malato non è un computer, quel signore che sta morendo nella stanza 17 ha un nome e un cognome e se usi ancora la parola ‘terminale’ per indicare un malato potrai subito dopo chiamare così la tua carriera qua dentro”. Nel frattempo, la radioterapia non dà i risultati sperati così che viene deciso l’intervento chirurgico. Egli cerca di interloquire con la dottoressa Abbott circa i tempi dell’operazione ma si sente rispondere “Il medico sono io e lei è mio paziente, quindi sono io che decido”. Allora si arrabbia ma l’altra sa soltanto commentare “Posso capire come si sente”, al che egli replica, urlando, che il problema consiste proprio nel fatto che lei non ha la più pallida idea di come i malati si sentano e le annuncia che, comunque, da quel momento ha un paziente di meno. Si rivolge così, per l’intervento, a un collega del suo ospedale, che aveva sempre irriso, in passato, per la sua cordialità con i malati. Tutto si risolve e Jack torna al lavoro però è diventato un altro medico. Per esempio, un giorno, dopo aver ordinato ai suoi tirocinanti di togliersi il camice e di indossare la camicia da notte tipica dei pazienti, li informa che, oltre ai nomi delle malattie, d’ora in poi dovranno imparare anche quelli dei malati, perché il loro essere malati li rende impauriti, imbarazzati, vulnerabili” e perciò bisognosi di attenzione, di aiuto, di ascolto. E affinché tale attenzione, aiuto, ascolto possa svilupparsi nei tirocinanti, e dunque futuri medici, egli li informa che “…nelle prossime 72 ore a ciascuno di voi sarà assegnata una malattia, dormirete nei letti dell’ospedale e subirete gli esami clinici di esso…Non sarete più dottori ma pazienti. Buona fortuna, domani verrò a visitarvi”. Dopo di che se ne va, passando dalla portineria ove gli viene consegnata una lettera. E’ di June, nel frattempo morta: “Caro Jack, voglio narrarti una storia. C’era una volta un contadino che aveva un campo e cercava di tenerne lontani gli uccelli. Ci riuscì ma alla fine si sentì solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri e si mise in mezzo al campo a braccia spalancate, per richiamarli. Essi, però, pensarono si trattasse di un nuovo spaventapasseri e restarono lontani. Allora egli comprese che era il caso di abbassare le braccia e gli uccelli tornarono. Ecco, anche tu devi fare così: impara ad abbassare le braccia”. E il dottor Jack imparò.

Il film è ben narrato e ben recitatao. Non sarà un capolavoro ma merita di essere visto da tutti gli studenti di medicina delle università italiane, per aiutarli a capire la bellezza del fare il medico con le braccia abbassate.