Georges Perros, da Une vie ordinaire, Gallimard 1962

Ho qui sul tavolo una cesta
da dove pende un nastro
di macchina da scrivere Arriva
da un cassetto che conosco bene
mi affascinava da piccolo
Ai bambini piacciono i cassetti
Ci trovano di che sognare
di che farsi male prendendo
un paio di pinze per un uccello
I miei genitori hanno tenuto i mobili
su cui mi arrampicavo bambino
casomai mi venisse voglia
di un cassettone di mogano
stile novecento orribile
Adesso mio padre è morto
e mia madre ha spedito
quello che lui aveva lasciato
nel famoso cassetto Dice
che se questa roba mi può servire
non si sa mai sono vecchi
ma tu che scrivi costano
questi nastri vellutati rossi e neri
Il lutto che non ho portato
non è né rosso né nero Lancinante
Mio padre è morto accompagnato
da tre o quattro sopravvissuti
al disastro che ci aspetta
nel cimitero di Fruges
paese dove è nata la mamma
settant’anni fa o quasi Non ho memoria
per le date né per i calendari
Vivo in un mondo che non ha ore
o giorni anni è difficile
da spiegare Mi piacevano gli anni
quando andavo a scuola
prima che mio padre fosse nella tomba
e insieme mi desse
un po’ più voglia di morire
o di vivere più intensamente
come se ormai niente importasse
(Cosa mi resta di mio padre
se non certi modi che ho
e mi stupisco di avere
un timbro di voce un’inflessione
che m’impedisce di vivere
senza fare atto di eredità
E mai avrei pensato
di parlarne al passato
quando eravamo insieme
e dopo tante battaglie
era contento di trovare
un uomo possibile in suo figlio
ne aveva conosciuti così pochi
L’ultimo giorno insieme fu nel Nord
Costeggiavamo il mare tutti e due
quel mare scuro votato
all’Inghilterra Sfregio della terra
Gli domandavo quale amore
lo avesse portato là Il cappello a cencio
sul cranio provato
da tutti gli altri rispose
che lui era come me il mare
gli faceva bene Era
a dire il vero in pensione
termine difficile da stabilire
tanti significati contiene Io l’ho presa
la mia molto prima di averne diritto
sì avrei cominciato allora
senza dirlo come di nascosto)
ma tutto ancora importa Ho fatto vivere
e si ricomincia domani
Se non ci fossi che io penso
ogni cosa sarebbe a posto
Ma non si possono amare quelli che si amano
senza dare una mano
Non domandano di più
che raramente e allora
il male ci strappa la carne viva
Stiamo con loro per far amare
quello che resta da amare
in un mondo senza libertà
che le sbandiera tutte Ed è come tacere
una sventura soffocata
in petti troppo stretti
Il mestiere di uomo ha le sue catene
e si muore prima che amore
tu ci abbia dato il buongiorno.

Vita di Georges Perros

[da perros.ordinaire.free.fr]
Georges Perros voleva fare della sua vita un deserto, ma la sua presenza dimora nell’insaziabile sollecitudine del lettore, dell’altro. Moralista, lascia due raccolte di poesie, tre volumi di Papiers collés, svariate note di lettura e una notevole corrispondenza ancora da scoprire; niente che, secondo lui possa costituire un’opera letteraria. Sotto l’apparenza del caso, regna nella scrittura di Perros un’armonia eterogenea diretta dalle impenetrabili leggi interiori. Più che scrittore nel senso letterario del termine, Perros si definisce: “faiseur de notes invétérés”. Egli vede nei libri un luogo di lavoro che corrisponde ad un’assenza essenziale, e non ad un fine in sé. La sua scrittura, intuitiva e folgorante, ha trovato nelle “note” la sua forma privilegiata. Cerca di giungere al cuore dell’esperienza poetica per trovarvi un’originale “innocenza”, nell’intento di dare una forma, di esprimere, in qualche modo, il linguaggio liberato da ogni sovrastruttura, un pensiero primordiale spogliato da ogni convenzione. Perros ha scelto di restare al margine della vita e della scrittura. Ha vissuto l’esperienza letteraria come isolamento, ma soprattutto come straordinaria sollecitazione dell’altro, amico o lettore, dal quale riesce a suscitare il meglio. Ha scelto di vivere a Douarnenez, ma per lui la Bretagne è uno spazio spirituale: “continent d’esprit”. Il trasferimento del suo centro di gravità crea un allontanamento, una distanza necessaria per scrivere, per avvicinarsi agli altri. Ossessionato dal taciturno gusto di vivere, è sempre alla ricerca, e la sua opera ne è la dimostrazione, poiché essa è come scritta al margine di un libro impossibile da cui vorrebbe scaturire il senso, sussultare il segreto della scrittura, dell’uomo. Perros vive di quell’istante che fissa l’eternità, annullando la distanza tra la vita e l’opera. La sua scrittura, insieme movimento e incertezza, è paragonata ad una permanenza, come il finis terrae alla soglia del mare; Georges Perros è “passeur”, un uomo che accompagna, trasporta, conduce…
Nato a Parigi il 31 agosto del 1923, Georges Poulot trascorre la sua infanzia nel quartiere di Batignolles, poi a Reims e nei Vosgi, dove suo padre fu trasferito per lavoro. Comincia a suonare il pianoforte e frequenta il Conservatorio. A sedici anni prende lezioni d’arte drammatica a Rennes. Tra il 1941 e il 1944 abbandona gli studi e si trasferisce a Parigi dove frequenterà per tre anni dei corsi teatrali al Centre du Spectacle; conosce Gilbert Minazzoli e ne diviene amico. Assiste ai corsi di Paul Valéry e Vladimir Jankélévitch al Collège de France. Insaziabile lettore, incontra André Gide e Paul Léautaud, si lega a Louis Guilloux, Gérard Philipe e Marcel Arland. Collabora con il gruppo di scrittori dell’avanguardia: “les Lettristes”, firma il loro manifesto e scrive per la rivista “La Dictature Lettriste”. Intanto completa i suoi studi d’arte drammatica e debutta in teatro recitando la Celestina. Nel 1948 riceve il premio “Prix de comédie” che lo aiuta ad entrare alla Comédie Française, dove recita piccoli ruoli senza una reale passione; deciderà infatti, quasi subito, di fuggire dal teatro, detestando la “razza” degli attori. Va ad abitare a Meudon, dove frequenta Armand Robin. Al fine d’incontrare Jean Grenier , momentaneamente residente in Egitto, accompagna la compagnia teatrale al Cairo. Nel 1950 scrive la sua Lettre- préface che spedisce a Grenier, e abbandona definitivamente la Comédie Française. Entra a lavorare, grazie a Gérard Philipe, come lettore al Théâtre national populaire presso Jean Vilar. Nel 1952 confida alcune “note” a Grenier, che ne percepisce il valore. A sua volta Grenier, cosciente di trovarsi davanti ad uno scrittore di talento e con un profondo senso della vita, ritiene opportuno inviare il materiale visionato a Jean Paulhan; quest’ultimo decide di pubblicarle nella “Nouvelle Revue Française”. Da questo momento Perros diviene un collaboratore della NRF. I suoi scritti critici e le sue impressioni di “lettore” gli attirano l’attenzione e l’amicizia di André Breton, Robert Pinget, Roland Barthes, Pierre Klossowski, Michel Butor, Georges Lambrichs, Roger Judrin, Brice Parain, etc. Da questo momento, firmerà i suoi scritti utilizzando lo pseudonimo: Georges Perros, con cui sarà conosciuto dal pubblico. Incontra Tania, una ragazza di origini russe che diventerà sua moglie. Intraprende diversi viaggi in motocicletta verso e all’interno della Bretagna. Fra il 1954 e il 1959 condurrà una vita molto tormentata; i suoi soggiorni in Bretagna, dove alloggia in mansarde o in case fatiscenti, diventano sempre più frequenti. All’inizio degli anni ’58 va a vivere a Douarnenez, dove Tania lo raggiungerà. Nel 1960, le edizioni Gallimard pubblicheranno i primi Papiers collés, una raccolta di articoli pubblicati nella NRF e note varie. Realizza una trasmissione radiofonica di due ore sulla Bretagna e pubblica, nel 1962 Poèmes bleus, testo poetico a cui verrà assegnato, l’anno seguente, il premio “Max Jacob”. Dopo la nascita dei due figli, Frédéric (1961) e Jean-Marie (1963), sposa Tania e un anno dopo nasce Catherine (1964). Vive grazie a diversi espedienti: lettore di manoscritti per la T.N.P., pubblicazione di diversi articoli, lezioni di pianoforte e le traduzioni di Per Olof Sundman, di August Strindberg, di Anton P. Tchekhov e di Fernand Crommelynck. Sempre presso le edizioni Gallimard, nel 1967 pubblica Une vie ordinaire, lungo romanzo-poema in versi ottonari. Perde il suo lavoro di lettore al T.N.P., ma viene assunto come lettore alla Gallimard. Si reca a Milano, Venezia e Roma insieme ai suoi amici Lorand Gaspar e Michel Butor e di questa esperienza italiana restano interessanti tracce nei suoi Papiers. Dal 1970 tiene presso la Facoltà di Lettere di Brest un singolare corso di letteratura, da lui definito “cours d’ignorance”. Sempre con Michel Butor, nel 1971 si reca in Tunisia a trovare l’amico Loran Gaspar. Nel 1973 viene pubblicata la seconda raccolta di Papiers collés II, a cui viene assegnato il premio “Valéry Larbaud”. Di tanto in tanto ritorna a Parigi, ma continua a scrivere e dipingere ininterrottamente a Douarnenez. Nel 1974 gli consegnano il “Prix Bretagne” per l’insieme della sua opera. L’anno successivo si trasferisce in una piccola casa sul Plomarc’h, che domina la baia. Claude Rojet Journaoud gli dedica una trasmissione “Poésie ininterrompue” su France Culture, mentre Paul André Picton realizza una trasmissione per FR3; nel 1976 France Culture va in onda con: “Entretiens avec Georges Perros” de Jean Daive e Jean-Marie Gibbal, conversazione fortemente interessante, giacché Perros racconta se stesso, la sua esperienza teatrale, la sua vita parigina, la scelta di rifugiarsi in Bretagne, il suo amore per il mare, per le corse in motocicletta, ma soprattutto parla della sua scrittura, di come essa non abbia l’intento di aggiungere nulla alla conoscenza, bensì quello di ricondurre a qualcosa di più semplice, di più essenziale, da vivere insieme agli altri. Poco dopo, in seguito ad una diagnosi di cancro alla gola, Georges Perros subisce un intervento di laringectomia; segue una cura chemioterapica presso l’ospedale di Parigi, ma l’evento per lui più sconvolgente consiste nella perdita dell’uso della parola. Si rifiuta di fare una rieducazione logoterapica e torna a Douarnenez dove inizia a scrivere L’ardoise magique, dedicato a coloro che hanno subito il suo stesso intervento. Nello stesso anno pubblica Échancrures presso le edizioni Calligrammes. Nel 1977 la malattia si aggrava: durante il mese di dicembre subisce un secondo intervento. Il 24 gennaio del 1978 muore presso l’ospedale di Laënnec, a Parigi. Adesso riposa nel cimitero di Douarnenez, che domina il mare. Qualche mese dopo la sua morte, le edizioni Gallimard pubblicheranno Papiers collés III.

I segreti di Linus

Charlie Brown in Italia

di ENRICO REGAZZONI

<B>I segreti di Linus<br>Charlie Brown in Italia</B>

Una copertina di Linus

DISEGNARE topi. Nella multiforme attività di Giovanni Gandini – indimenticabile padre della rivista Linus, scomparso nel febbraio del 2006 – questa era un’occupazione non marginale (aggettivo che gli avrebbe strappato un sorriso). Topi fantastici e rarefatti, tenuti a malapena insieme da un filo di matita. Topi ironici, malinconici e affettuosi (non a caso, fra i necrologi apparsi sul Corriere, all’indomani della sua morte, ce n’era uno che diceva: “Tutti i topi del mondo piangono e ringraziano…”). E tale attitudine, come del resto ogni altra, era per lui anche un’occasione per entrare e uscire di scena, mascherarsi e smascherarsi, contrastare gli anni che passano, corteggiare l’aspetto giocoso della vita.

Da un lato era capace di illustrare con i suoi topi l’edizione di un suo libro (come Caffè Milano, raccolta di pezzi dell’omonima rubrica da lui tenuta sui quotidiani milanesi, edita nel 1987 da Scheiwiller), firmando i disegni con lo pseudonimo di Carlo Staminski; dall’altro, non esitava ad autodenunciarsi con una specie di biglietto da visita che recitava: “Si eseguono topi su ordinazione: per nozze, onomastici, pensierini, amore, sarcasmo, ringraziamento, protesta, affetto, scuse, nascite, nonni, stanza dei bambini, merendine, inviti, fidanzamenti, sport, promozioni, moda, portafortuna…”.

Bene, ora la bozza di questo biglietto da visita è traslocata insieme ai relativi topi e a tutto l’archivio di Gandini (nove scatoloni e sei cartelle di materiale grafico, più 33 scatole di volumi) all’Università Statale di Milano. Al Centro Apice, per l’esattezza, che si è dato il meritorio compito di conservare, organizzare e valorizzare “quei fondi archivistici e bibliografici che per rarità e completezza possano servire alla storia dell’editoria libraria e periodica” (sono stati già acquisiti, fra gli altri, il Fondo Scheiwiller, la Collezione ‘900 Sergio Reggi e le Riviste illustrate del Fondo Marengo). Tutto Gandini all’università, insomma, dove “tutto” significa una mole cartacea davvero impressionante: la sua corrispondenza con gli editori e quella personale, gli scritti pubblicati e quelli inediti, la rassegna stampa e le tesi su di lui, il materiale preparatorio per le riviste Linus e Giornalone, i libri societari, i progetti in fase di definizione, la raccolta rilegata di Topolino 1946-1947, il catalogo incompleto delle figurine Liebig.Più, naturalmente, la sua biblioteca, fantastica cascata di fumetti e libri per bambini, periodici da lui diretti, libri e periodici della Milano Libri (la casa editrice da lui fondata insieme alla moglie Annamaria nel 1963), stamponi e patinate di ogni genere. Non basta. A dar corpo a questa “gandineide” concorrono altri due elementi: il primo è il progetto di un libro (che al momento si intitola “Viaggio nel mondo di Giovanni”) che due studiosi milanesi, Alessandro Beretta e Alberto Saibene, stanno allestendo alacremente e che cercherà di organizzare in modo leggibile i due principali filoni della sua vulcanica attività, quello pubblicistico e quello progettuale; il secondo è l’idea di una mostra, Gandini & Friends, che attualmente sta cercando casa (la Triennale?) e nella quale il regista Giancarlo Soldi e il grafico Salvatore Gregorietti (che progettò la veste di Linus, nel 1965) intendono mettere in scena quella bella Milano degli anni Sessanta, nella quale bere un bicchiere al bar Giamaica era un pretesto per assemblare idee e non solo rimpianti, e dove Gandini non faticò a trovare eccezionali collaboratori (quali Franco Cavallone e Ranieri Carano) per importare il mondo dei Peanuts di Schulz, né stentò più che tanto a far sedere su un divano Umberto Eco, Elio Vittorini e Oreste Del Buono per il dibattito su “Charlie Brown e i fumetti” che tenne a battesimo il primo numero di Linus.

Ma, tornando al Fondo Gandini della Statale, la voglia di spulciare tra le carte è tanto irresistibile quanto sconsiderata, e non solo per la quantità del materiale ma anche per il numero dei personaggi nei quali Giovanni si atomizzò in vita, nel chiaro intento di risultare imprendibile. Quale Gandini inseguire? Il progettista o il corsivista? Lo scrittore di favole o il collezionista? Il poeta o l’estensore di esilaranti lettere?
Saltando gli anni eroici di Linus (già a lungo battuti), verrebbe da mettersi sulle tracce de Il Giornalone, bellissimo esperimento (anche grafico!) del 1972, che visse un solo anno perché ebbe il torto di arrivare troppo presto, e radunò un gruppo di amici davvero notevoli, da Emilio Tadini a Sandro Somaré, da Roland Topor a Frank Dickens, da Bob Blechman a Ralph Steadman. Ma si vorrebbe anche sbirciare fra le bozze di riviste pensate e mai apparse, come Fax, Gnac & Patac, Il fumo… O rileggersi i suoi libri, da L’orso buco a Piccoli gialli. O giocare a uno dei suoi pazzi giochi, come quel Waterloo!! che restituisce a Napoleone la possibilità di vincere.

Infine, com’è naturale, la mano si ferma su una delle numerose buste che contengono quella “corrispondenza personale e con gli editori” nella quale Gandini profuse, se non la parte migliore di sé, quella più felicemente trasgressiva. Autore instancabile di lettere inventate che impreziosivano la posta del suo Linus, Giovanni non smise mai di affidare alle missive, con esibita ingenuità, il carico delle sue attese, delle sue proteste, del suo divertimento. Scrivere era il suo modo di bussare, e scrisse un po’a tutti: a Sergio Tofano, per esempio, invitandolo a far rivivere il suo Bonaventura su Il Giornalone (Tofano, garbatamente, rifiutò); o a Cesare Zavattini, per sollecitare i suoi suggerimenti; o ancora a Leonardo Sciascia, per contestargli l’esclusiva di critica sulle cose di Sicilia (e Sciascia gli rispose imputandogli, a sua volta, “un fondo di antipatia per i siciliani”); perfino a Monica Vitti, per ringraziarla di aver detto in tv che apprezzava Charlie Brown. E poi ci sono le lettere a Charles M. Schulz, per informarlo senza trionfalismi del successo italiano dei suoi Peanuts. E quelle inviate con risentimento ai giornali che continuavano ad attribuire la paternità di Linus a quel gruppo di nomi illustri che lui aveva chiamato a collaborare.

Di fatto è un bene che le tracce di un’intelligenza così evasiva siano ora richiuse dentro un contenitore pubblico e consultabile, qual è un archivio universitario. Forse lui storcerebbe il naso.
Epigono di un dandismo intellettuale che da Oscar Wilde ad Antonio Delfini ha amato spendere la sue ricchezze nella vita, anziché nelle opere, Giovanni Gandini restò fedele al suo autoritratto affrontando i paradossi imposti dallo stile. Fino all’ultimo, quegli anni senza voce (era stato laringectomizzato nel 1997) che tappezzò di bigliettini incredibili, una stagione solo apparentemente muta della quale ha dato conto in Un milione di copie, libro apparso da Archinto quando lui non c’era già più.

“Non è triste l’indifferenza di esserci o non esserci”, scrive in uno dei 516 pensieri del libro. “E’ triste sentire quanto manchino idee, humus, sapore nella conversazione. Mi manco molto”. E sembra l’abisso. Ma poi lo vedi, in quel filmato girato da Soldi per Giovanni Minoli nel 2002 sulla storia del fumetto: non parla, è vero, si aggira nello storico cortile di via Spiga (dov’era la redazione di Linus) e ha un’aria fragile e impaziente, ma non triste. Nel battito degli occhi, nelle dita che si muovono svelte, c’è intatta la sua ironia. Ed è come se fosse l’ultimo protagonista del suo vero sogno, quello di un fumetto per grandi.

Giuseppe Angione

Giuseppe Angione e i compagni del Circolo giovanile di Di Vittorio
Come scrisse Campanella / nella sua città del Sol / la pensava ricca, bella / prodigiosa che consol. //

La umanità intera / che costruisce una via / senz’intoppi, di un’era / nuova, piena d’armonia //
Pien di gioia, pien d’amor / gonfia di felicità, / né più servi, né signor, / né più ricchi e povertà
Giuseppe Angione, bracciante, da Il terr’acqueo nostro mondo.

Dopo alcuni primi incontri occasionali, chiedendo ai sindacalisti della Camera del lavoro di Cerignola di farci conoscere i coetanei di Di Vittorio ancora viventi e che lo avevano potuto conoscere da vicino, arrivammo nella casa di periferia di Giuseppe Angione. Peppino, laringectomizzato, ci ha letteralmente dischiuso un mondo sepolto. La ricchezza del suo patrimonio di memoria e narrazione epica del passato [3], reso quasi favolistico attraverso decine di poemi in rima scritti su qualsiasi supporto cartaceo, le storie e i racconti dei primi anni del Circolo Giovanile Socialista (poi Anarchico Rivoluzionario) di Di Vittorio (insieme a Michele Balducci e Alfredo Casucci) ci stupirono e ci convinsero che la ricerca aveva già dimostrato la sua prima utilità. Se per Di Vittorio, dirigente sindacale e leader politico di importanza internazionale, gli storici avevano apparentemente raccolto tutto quanto utile alla sua biografia personale e politica, nulla era stato fatto per ricostruire la biografia collettiva delle migliaia di uomini e donne salariati agricoli che non solo ne avevano condiviso gli obiettivi di riscatto ed emancipazione ma, come nelle parole raccolte al microfono, lo avevano letteralmente aiutato a ‘costruirsi’ come leader e guida.

Il mito, ricostruito nello splendido poema su Di Vittorio scritto da Angione [4], era nato nella rappresentazione orale codificata e omogenea dei tanti racconti che dopo Angione abbiamo raccolto dalle centinaia di braccianti incontrati. Siamo partiti quindi dal gruppo ‘storico’ di compagni di Di Vittorio per estendere poi il lavoro e gli incontri sino ai più giovani braccianti. Gli incontri non erano basati su questionari o scalette predefinite: in questa prima fase della ricerca avevamo la necessità di conoscere profondamente queste persone e con loro passare più tempo possibile. Spesso raccontavamo anche noi, dei nostri studi e delle nostre esperienze; con gli strumenti musicali li accompagnavamo in interminabili suonate collettive. In quel momento per noi la storia orale era imparare a disporci consapevolmente all’ascolto, capire cosa avevano di più importante da raccontare, non selezionare a priori quello che secondo noi era più importante, tornare sui temi trattati solo successivamente alle trascrizioni effettuate per poter ampliare e precisare. Le trascrizioni erano sempre effettuate subito dopo gli incontri proprio per non perdere la memoria sensoriale di come le parole erano state espresse ed anche per poter disporre di un immediato canovaccio su cui lavorare per gli incontri successivi. Una delle prime riflessioni prodotta da questi primi incontri fu il ribaltamento della concezione assembleare del protagonismo politico. Negli incontri sindacali e politici a cui spesso partecipavamo a Cerignola, difficilmente la capacità personale di esprimersi dei braccianti permetteva una loro disponibilità all’intervento in pubblico, mentre nel momento dell’incontro nelle proprie abitazioni o in disparte nelle sezioni di partito il problema spariva e la voglia di parlare e di raccontare prendeva il sopravvento superando anche il timore iniziale per il microfono. Dopo molti incontri e sedute di registrazione, quando in un incontro pubblico o in una visita improvvisata in qualche casa di compagni ci presentavamo senza registratore ci chiedevano ormai il perché di questa dimenticanza. Se all’inizio eravamo noi a cercare le persone giuste da interrogare dopo i primi due anni di ricerca ci venivano letteralmente a prendere per raccogliere la testimonianza di chi sentiva la necessità di fissarla su nastro magnetico. Allo stesso modo ci chiamavano per documentare con filmati o fotografie qualsiasi manifestazione (sindacale, politica e spesso anche un incontro familiare) si dovesse svolgere.

Quello che cominciava a scaturire sin dalle prime interviste era l’idea di un’autobiografia collettiva che andasse in parallelo con i segmenti biografici dell’avventura umana e sindacale di Di Vittorio e di ripercorrere questo itinerario storico partendo dallo sfruttamento dell’infanzia agli inizi del secolo fino ai primi passi di presa di coscienza della non ineluttabilità dello sfruttamento con la verifica concreta della possibilità di ribaltamento delle condizioni di vita e di lavoro e ai primi atti organizzativi e di ribellione.

Beato Andrea Carlo Ferrari

La vita del Beato Andrea Carlo Ferrari

Arcivescovo di Milano

Nacque a LALATTA, frazione di PRATOPIANO, nella Diocesi di Parma, il 13 Agosto 1850 da Giuseppe e Maddalena Longarini. Nel 1861 fu accolto nel Seminario di Parma per i primi studi ecclesiastici. Il 20 Dicembre 1873 fu ordinato Sacerdote e il 21 dello stesso mese celebrò la sua prima Messa al santuario della Madonna di Fontanellato. Nel Febbraio 1874 fu nominato Delegato Vescovile (ufficio di parroco) di Mariano, paese presso Parma. Il 4 Luglio dello stesso anno divenne coadiutore dell’Arciprete di Fornovo di Taro. Nell’autunno del 1875 fu nominato Vicario Curato di S.Leonardo, ma subito dopo richiamato in Seminario quale vicerettore del Seminario e professore di fisica e matematica. Nel 1877 divenne Rettore del medesimo Seminario, dove dal 1878 insegnò Teologia fondamentale, Storia ecclesiastica e Teologia morale : nel 1885 dava alle stampe il frutto dei suoi insegnamenti : una Summula theologiae dogmaticae generalis, che prima della fine del secolo conobbe tre edizioni. Il 29 Maggio 1890 venne eletto Vescovo di Guastalla e fu consacrato a Roma dal Card. Parocchi. Esattamente un anno dopo, il 29 Maggio 1891 era trasferito alla sede di Como, dove si distinse per lo zelo, che lo portò a visitare tutta la vastissima Diocesi : “il Vescovino di Como”, come lo chiamava con simpatia il suo vicino, il vecchio buon Arcivescovo di Milano Luigi Nazari da Calabiana. E poi Mons. Nazari morì e il Vescovino, che era fuori Como per la visita pastorale, seppe che a Roma si era deciso per lui come successore. Nel Concistoro del 18 Maggio 1894 fu creato Cardinale prete del titolo di S. Anastasia ed il 21 dello stesso mese nominato Arcivescovo di Milano. Fu in quell’occasione che assunse accanto al suo nome di Battesimo -Andrea- anche quello di Carlo, in onore di S. Carlo Borromeo. Nel Marzo del 1895 iniziò la sua prima visita pastorale, che ripetè cinque volte, non trascurando le parrocchie alpine. Durante le visite rivolgeva più volte la parola ai fedeli, faceva l’esame della dottrina cristiana ai fanciulli, amministrava la Cresima e distribuiva l’Eucaristia, spesso consacrava chiese : qui a Legnano ha consacrato Legnanello, S.Domenico, SS.Martiri e la Madonna delle Grazie. Celebrò il Sinodo diocesano, che non si teneva dal 1687, nel 1902 e ancora nel 1910 e nel 1914, mentre nel 1906 adunò il Concilio Provinciale. Volle inoltre diversi congressi : quello Eucaristico (1-5 Sett.1895), il XV Congresso della Musica Sacra, che fece conoscere il giovane Lorenzo Perosi in occasione delle feste per il XV centenario della morte di S.Ambrogio (maggio-dicembre 1897). Celebrò solennemente il cinquantesimo anniversario del Dogma dell’Immacolata (1904) e delle apparizioni di Lourdes (1908) e nel 1910 organizzò le feste per il terzo centenario della canonizzazione di S.Carlo celebrando anche in quell’occasione un sinodo ed un congresso catechistico. Nel 1913 promosse le “settimane costantiniane”, a ricordo del XVI centenario dell’editto di Costantino. L’Arcivescovo Ferrari s’interessò anche ai problemi sociali, e in omaggio all’enciclica di Leone XIII Rerum novarum istituì in Seminario la cattedra di economia sociale, affidandola al prof. Giuseppe Toniolo dell’Università di Pisa, quindi al prof. Dalmazio Minoretti, che sarebbe diventato poi Cardinale e Arcivescovo di Genova. Sotto il suo impulso, il clero si dedicò con entusiasmo alle opere sociali (casse rurali, società di mutuo soccorso, leghe operaie, agricole, ecc…). Anche la stampa cattolica diocesana ebbe le cure dell’Arcivescovo : al suo arrivo a Milano, essa era rappresentata da due quotidiani in lotta fra loro : L’Osservatore Cattolico, fondato e sostenuto da D. Davide Albertario, campione dell’intransigenza contro lo Stato Italiano, e la Lega Lombarda, che invece era per l’accettazione dell’Italia unita e per il dialogo con essa (guarda guarda…). Il Ferrari tentò la fusione dei due giornali con la fondazione de L’Unione, che si chiamò poi l’Italia (che negli anni ’60 di questo secolo si sarebbe a sua volta fusa con l’Avvenire d’Italia di Bologna, dando origine all’attuale Avvenire.). Nel 1898, durante i gravissimi disordini scoppiati a Milano a causa del malessere sociale, lo si accusò di tutto : di aver fomentato la rivolta in odio allo stato italiano, di essere fuggito nel giorno più sanguinoso della rivolta, con la scusa della visita pastorale che lo attendeva ad Asso, di non avere il coraggio di rientrare in città… il Generale Bava Beccaris, tra una cannonata e l’altra contro gli operai, gli dedicò una lettera sprezzante ed offensiva, la stampa lo denigrò senza complimenti, e si arrivò a spargere la voce che Ferrari era ormai finito, e che il Papa l’avrebbe imboscato in Vaticano. Ferrari non si arrese e restò al suo posto : c’era un’altra tempesta da affrontare, ben più dolorosa, che doveva venirgli dall’interno della Chiesa di lì a qualche anno. Durante la campagna antimodernista (primo decennio del secolo), il Cardinale, così ossequiente alle direttive della S. Sede, fu sospettato di deviazionismo se non proprio di eresia, e come tale pubblicamente attaccato da intransigentissimi giornali cattolici, quali La Riscossa di Vicenza e La Liguria di Genova. Nell’accusa -presa per buona purtroppo dal Papa S. Pio X- vennero coinvolti il seminario e il clero : né le precisazioni dell’Arcivescovo, né le lettere spedite in Vaticano da molti Vescovi e Cardinali servirono a chiarire l’equivoco : il Ferrari allora si chiuse nel silenzio e nella preghiera aspettando che l’ora delle tenebre passasse. E l’ora passò : negli ultimi mesi della sua vita, Pio X fu udito dire :”Su Ferrari ci siamo sbagliati”. Ma fu soprattutto il nuovo Pontefice, Benedetto XV, a consolare l’Arcivescovo. Ma intanto un’altra tribolazione colpiva il Ferrari con tutto il suo popolo, la Prima Guerra mondiale. Durante il periodo bellico, il Cardinale si dedicò alla più attiva carità verso gli orfani, le vedove, le famiglie disagiate, i soldati, i prigionieri, e nella ricerca dei dispersi. E finalmente, anche nell’opinione pubblica più anticlericale, si dissipò il pregiudizio che faceva apparire il Ferrari come antipatriota. Dopo la guerra comparvero i primi sintomi della malattia che lo doveva condurre alla morte : un cancro alla gola. L’Arcivescovo tentò di lavorare fino all’ultimo (era stato laringectomizzato e non aveva più l’uso della parola, e allora scriveva). E quando dovette mettersi definitivamente a letto, il popolo della città e della diocesi pellegrinò ininterrottamente alla sua stanza per ricevere ancora una volta la benedizione del suo pastore. Morì santamente al tramonto del 2 Febbraio 1921, e fu sepolto nel Duomo all’altare della Virgo Potens.

Giovanni Paolo II lo beatificò in S. Pietro, il 10 Maggio 1987.

E a vivere,ridere io ritonerò

Riaprire gli occhi e guardare fuori verso sera
Quando manca meno di un mese a  primavera
Una nuova vita ora devo iniziare
Ora non posso e non ho voglia di parlare
Torno indietro a quella mattina
Sulle macchine posteggiate la brina
E io dalla finestra guardo fuori
Riempiendo la mia testa di timori
Non sapendo neanche se sarei tornato
O se operarmi sarebbe bastato
Non ho il coraggio di guardare
Di come il mio collo possa cambiare
Con in mezzo un buco per respirare
Un buco in più per vivere continuare
Ma lo giuro mai io mi arrenderò
E a vivere,ridere io ritonerò

Desio,lì 28 gennaio 2008

Mi ricorda tanto sandro ciotti

Certo che può strano sembrare
Il mio nuovo modo di parlare
Mi ricorda tanto sandro ciotti
Quando parlava dei goal di totti
Delle parate di zoff e albertosi
E di altri giocatori famosi

Invece ora è il mio modo di parlare
Cercando l’aria di modulare
L’aria devo inspirare e poi espirare
E la parola e la frase modulare
Quanta fatica per farmi capire
Gli esercizi bisogna eseguire

Bibione 25 aprile 2008

Parlare,cantare,piangere e ridere

La vita ora in un attimo vola

Pensare di respirare con la gola

Per me sembrava una cosa strana

Che nascondo dietro una bandana

Non per nascondere la verita

Ma questa è la mia nuova vita

Parlare,ridere,piangere e cantare

E  aria devo inspirare per poterlo fare

Ma l’importante e continuare a vivere

Per poter parlare,cantare,piangere e ridere

Bibione,30 luglio 2008

 

Opuscolo informativo per il paziente laringectomizzato

INTRODUZIONE

Succede spesso di prendere coscienza dell’importanza della laringe solo nel caso in cui il Medico prospetti la necessità di una laringectomia totale.Questo piccolo organo non è solo una sentinella che permette il passaggio dell’aria ai polmoni e si oppone all’inalazione di cibi e/o liquidi,ma è soprattutto la sede delle corde vocali.Esse danno voce al nostro pensiero e permettono di esprimere acusticamente i nostri sentimenti.
Ma cosa succederà dopo l’asportazione della laringe?
Questo opuscolo cerchrà di portare un pò di luce rispondendo e fornendo alcuni consigli pratici;in quest modo ci si può rendere conto che,nonostante la mutilazione,è posibile il reinserimento sociale,con la medesima capacità comunicativa e lavorativa di tutte le altre persone.
PERDITA DELLA VOCE
Da più di 100 anni vi sono laringectomizzati e tutti hanno insegnato agli altri le loro esperienze ed i loro sistemi di comunicazione.Ora attraverso dei professionisti foniatri e logopedisti ogni operatosarà in grado di comunicare con unavoce accesoria.Infatti,l’esofago,che non subisce in genere mutilazioni con l’intervento,non servirà solo a trasportare il cibo,ma sarà utilizzato anche per parlare,permettendo la realizzazione di una “nuova voce” la cosiddetta voce esofagea.La nuovavoce acquisita con un adeguato trattamentologopedico,sarà in grado di ripristinare le capacità comunicative verbali.