Perros e la scrittura

Capitolo II

2.1. I Papiers collés

a) Tra morte e vita. La presenza dell’assente

 

2.2 Une vie ordinaire

a) digressioni e fughe

b) Tra passato, presente e futuro

c) Un tempo scandito da aneddoti

d) Da attore a regista della sua storia

 

2.3 Un verso “senza valigie”

 

Conclusione

2.1. I Papiers collés

Perros non è un romanziere, è un poeta. I suoi Papiers collés si presentano come una miscellanea che contiene un po’ di tutto, unendo senza alcuna preoccupazione diverse strutture, come la poesia, le riflessioni, gli aforismi. A prima vista, l’opera sembra attestare l’assenza di una coerenza letteraria Georges Perros appartiene ad una categoria di scrittori fuori dal comune: i suoi scritti, per il modo in cui sono esposti, si prestano idealmente ad un approccio multiforme, vagabondo. Essenzialmente, i Papiers collés, I, II, III sono un insieme di note, ritratti e impressioni di letture. La libertà del tono, la precisione, la correttezza, la perspicacia, la sensibilità dell’autore ne fanno un’opera avvincente, se si riesce a superare lo scoglio delle difficoltà della prima lettura. A Douarnenez Perros visse, non come Flaubert a Croisset, ma come un uomo vive là dove vive, distante e allo stesso tempo vicino a ciò che lo circonda. A maggior ragione questo sentimento di estraneità ed insieme di appartenenza si trova rafforzato quando si tratta di uno scrittore. Perros è la preda di questa scrittura: “La littérature est un des rares exercices qui exigent de l’homme une volonté singulière, une conduite d’existence qui ralentissent les progrès d’une médiocrité qui nous est naturelle”. Con questa osservazione, Perros non vuole annullare il corso della storia, né uguagliare gli scrittori che si elevano dalla mediocrità, semplicemente mostra un senso di autoironia, scongiurando ogni velleitarismo, qualunque sia l’ambito. Dopo aver letto i Papiers collés, tuttavia, si ha la sensazione di essere un po’ più “giusti” e un po’ più “inesistenti”. É l’effetto, la virtù di questa scrittura che insinua nel lettore una riflessione sulla ambiguità umana. Nelle pagine dei suoi libri non troviamo la Verità ma la denuncia delle piccole menzogne e dei grandi inganni della società. I protagonisti delle sue raccolte sono il disordine, il dubbio, il losco, l’eterodossia, il disordine. Secondo J. P. Cescosse, ciò che accade in Papiers collés, e si trasforma in vittoria, in quanto la lucidità è sempre un successo, sono i momenti di vuoto trascorsi dibattendosi tra la noia e la vanità. Per Perros la scrittura è divorante, essa è dappertutto, anche nella compilazione delle tasse. “Un homme qui écrit, et qui s’y tient, est menacé. Et il ne comprend plus rien aux menaces qui effraient les autres hommes, menaces qui lui paraissent dérisoires”. Perros parla mirabilmente di Lichtenberg, Kierkegaard, Valéry, Michaux, Kafka, e di molti altri. Con essi, talvolta, egli pratica degli esercizi di conversazione critica con una densità tale da barcollare sulle soglie dell’incomunicabilità. Mantiene le distanze dal pensiero, e si accosta alle sensazioni e implicazioni personali suscitate dai testi: “Il y a en nous un animal, un sauvage, qui se fout éperdument de ce qu’on raconte, de ce qu’on aime, de ce qui nous intéresse, on ne sait généralement pas trop pourquoi; qui roupille dans un coin de notre corps, qui fait les poubelles ; une cloche, un ignare, qui n’a jamais rien lu, rien écouté. Non pas l’ange de l’absurde, mais le clown de l’impossible”. È lui questo clown, la cui presenza costante, un po’ sarcastica e un po’ assonnata, vissuta ai margini, ostacola la pedanteria, la compiacenza, l’impudenza, dà il tono, sbotta in una risata quando il patetico diventa pesante, apre le porte alla disinvoltura proprio nel momento in cui ci si aspettava un discorso dialettico, fa tuffare il lettore in verdi acquari di folgorazioni verbali, quando l’astrazione rischiava di prosciugare tutto. Restio a qualsiasi forma di rigida inquadratura del pensiero, tendenzialmente istrione e dotato della capacità di sconvolgere, si disinteressa delle regole della società. Pensa che l’aver successo, il volere diventare migliore di qualcun altro, facciano precipitare l’uomo nell’aggressività o nell’anarchia: “Devenir plus ou moins qu’un de mes prochains m’est alors devenu parfaitement indifférent, voire odieux, déplacé, indécent. Ce ne fut pas sans mal. Ne pas vouloir réussir, jouer à cela, n’est pas si simple. Puis, ça risque de nous rendre agressif, anarchiste, manière encore d’inconséquence”. Cescosse, invece, asserisce che è impensabile scoprire nelle pagine di Perros se dietro questo clown dell’impossibile si nasconde lo scrittore stesso, in quanto scrivere suppone una sorta di concessione, di lacerazione e non il piacere paradossale di dare interamente e liberamente sfogo all’alter ego. Il desiderio di espressione, la voglia di comunicare si realizzano attraverso un vero sforzo, un atto di dolore. È pur vero che il desiderio di riconoscimenti, la voglia di rappresentarsi induce all’equivoco di considerare letteratura i testi che hanno il potere di “affascinare”. Le parole hanno il potere di ammaliare: “Il est vrai que ce ne sont pas les mots qui ont de l’importance. Non moins vrai que sans eux, rien ne prendrait de l’importance. A commencer par l’homme, qui tire tout son prestige du langage”. Nei Papiers collés, Perros non ha la pretesa di insegnare nulla, ma vuole mostrare al lettore la pura e semplice evidenza. Nei tre volumi inserisce spesse volte degli aneddoti che non hanno nessun fine morale. Il vero scopo, forse, è quello di sconvolgere. La lettura dell’opera svuota il lettore, togliendogli le certezze, la tranquillità. Ad ogni rassicurazione da parte del sistema sociale, ad ogni tecnica precostituita, soprattutto in campo letterario, egli opponeva una forma di non-scienza. Non temeva, anzi desiderava produrre dei testi che creassero delle lacerazioni nel mondo della morale, ma poneva un’estrema cura perché un verso sbagliato avesse buon esito. Contrario ad ogni insegnamento che cercasse di imporre modelli, proponeva il disorientamento, quindi la perdita degli stereotipi. Secondo Jean Roudaut, il nome Georges Perros che si trova stampato nelle copertine dei libri non è indice di un genere ben preciso, di uno stile o di un tipo di scrittura, ma la denominazione di un luogo dove si vive l’avventura dello spirito. Le note ne sono la testimonianza. Quelle note che liberano la “voce” di Perros, lo scrittore, il quale in questo caso non scriveva i suoi testi, li diceva; la sua scrittura era orale. L’ascolto della voce di Perros è implicita nella lettura dei Papiers collés. Per Roudaut la frase è respirata, sospesa, le parole sono lì per essere udite dalla parte intima del lettore. Il critico aggiunge: “c’était la voix de gorge”. Leggendo, ascoltando le frasi di Perros, si percepisce la traccia del suo lavoro, segnata da lui non nella forma, ma nella dizione. Le sue frasi lo attraversavano, e quando si leggono i Papiers collés si segue il lungo cammino notturno delle frasi nell’oscurità dell’essere. *** In Papiers collés, Perros non inserisce una premessa, ma introduce “Notes pour une préface”. Apre il suo libro a quei lettori che non riescono a fare a meno di riempire di note a margine, frutto della loro lettura, un testo appena letto. Egli si paragona a questo tipo di lettore: “Faiseur de notes invétéré, sur quelle marge puis-je les prendre, sinon sur celle de l’immense livre ouverte qu’est la vie ?” Se un libro può essere paragonato alla vita, a cosa si può paragonare la “marge”, se non al quotidiano, supporto della scrittura? “Bouts de papier, souvent hygiénique, tickets de métro, boîtes d’allumettes, pages de livres”. Il luogo in cui sono inserite queste note non è una raccolta, né un libretto, secondo F. Martin-Scherrer, ma il corpo dello stesso autore: “je suis couvert”; sono estratte dalle tasche, mostrate, forse sistemate e infine incollate senza mai perdere la loro spontaneità, la loro indipendenza di fogli volanti. Perros non le ha ricucite per formare un unico tessuto, il libro, in quanto non ha mai assunto il ruolo di “scrittore”, ne tanto meno ne rivendica il titolo: “Je n’ai pas envie d’écrire un livre”. * * * Nei Papiers collés non vi è una prefazione ma, come scrive lo stesso Perros, delle note introduttive e, non contento, vi inserisce anche una “nota sulla nota”. Utilizza questo frammento per esprimere il suo concetto di “nota”. Parla di essa come di un essere vivente, capace di sentimenti. “La note existe”, afferma Perros e ha la caratteristica di accennare appena al concetto che vuole esprimere, lasciando libero il lettore. La nota suggerisce, non insiste. Ha l’istinto irrefrenabile dell’autonomia e della libertà. È ingenua, perché fiduciosa. Ama suonare, risuonare. Desidera lasciare un ricordo di sé, legato più al suo profumo che alla sua parola: “disons qu’elle est d’essence féminine”.

a) Tra morte e vita. La presenza dell’assente

“Il étais condamné à mort au reste l’est-il pas toujours comme mort son frère jumeau avant même d’avoir vécu”. Fin dalla nascita, Perros convive con la morte. Una presenza che lo accompagnerà nel corso della sua vita, che racconterà nei suoi libri. Quasi avesse il bisogno di manifestare, di condividere con gli altri questo peso. Di salute cagionevole, più volte è scampato alla morte: “À peine arrivé au monde mon premier réflexe fut, paraît-il, nettement rétrograde, et nombreuses mes tentatives de suicide”. È cresciuto con la presenza, costante quanto impercettibile, del fratello gemello mai nato, continuamente impostogli come termine di confronto e valore di riferimento: “Ma mère garde cependant le souvenir d’un beau bébé, d’une constitution bien supérieure à la mienne. […] Je ne peux pas dire que je regrette ce frère fugitif. Si je tente de l’imaginer à mes côtés, je le vois étonnamment studieux, poursuivant ses études en vue d’une brillante carrière – rêve de mon père quant à moi – et l’élément sérieux, reconnaissant, satisfaisant, de la famille”. La morte del fratello al momento della nascita ha pertanto rappresentato un fattore determinante del suo pensiero, tanto da definirsi egli stesso: “infirme de naissance”. La morte diventa compagna di vita, sempre presente nei suoi pensieri, nelle sue note. Sarà un argomento ricorrente nei Papiérs collés, una realtà su cui riflettere e da tenere sempre presente. Scorrendo le pagine dei suoi testi incontriamo spesso evocazioni funeste. L’immagine della morte è una costante in Perros; a volte leggiamo di una vita e di una morte in lui inequivocabilmente commesse, intimamente unite: “La vie est la mort vont ensemble Bras dessus et puis dessous”. La morte, quindi, come qualcosa che appartiene a tutti: “Le drame de tout homme, c’est le scandale de la mort”. Nel momento in cui si prende coscienza dell’appartenenza al genere umano, si prende coscienza della propria morte. A volte per lui morte e solitudine non sono sentimenti così spaventosi, ma resta comunque tormentato da questo pensiero, e soprattutto da quello del suicidio, come se fosse l’unica vittoria sulla morte : “Si tout le monde se suicidait Elle n’aurait qu’à rendre son tablier La mort Elle ne servirait plus à rien”. Come se fosse l’unico modo per vivere in pace, senza il terrore e l’angoscia che il solo pensiero provoca: “Évoquer le suicide, c’est en quelque sorte exorciser ce que la vie traîne de mortuaire avant les fleurs et couronnes adéquates. Les premiers hommes ne savaient pas qu’ils allaient mourir. Nous aurions plutôt tendance à ne le savoir e trop. La poésie, pour moi, c’est le temps durant lequel un homme oublie qu’il va mourir”. Ed allo stesso tempo, afferma che il solo pensiero del suicidio è comunque un insulto alla vita: “Le premier homme qui a pensé au suicide a humilié la vie pour l’éternité. La vie est une grande vexée”. Perros , che ha tanto vissuto con questa presenza assente, prima di morire, in una lettera ha inneggiato alla vita: “Faut aimer la vie. Surtout ceux avec lesquels on en partage les douces difficultés, pour être modestes”.

 

2.2 Une vie ordinaire

Une vie ordinaire è un testo autobiografico certamente originale. Non si può parlare semplicemente di un’opera autobiografica ma anche di un testo poetico. Perros ha infatti unito i due generi, anche se comunemente si ritiene che non possano coesistere, in quanto la poesia non sembra adatta ad descrivere dati e situazioni, giacché essa utilizza delle immagini come metafora oppure si lascia condurre da immagini sublimi; ma la poesia da Perros è diversamente intesa e praticata: poiché egli cerca nel suo linguaggio un modo per dare una forma quanto più “vera” alle esperienze e sensazioni vissute. E sembra esserci riuscito, infatti, il suo linguaggio poetico sembra raggiungere la verità andando al di là del linguaggio ordinario, o piuttosto il linguaggio utilizzato sembra slegarsi dal significato ordinario delle parole. Perros dunque fa del suo linguaggio il laboratorio di un’esperienza di verità. Anche se parliamo di autobiografia per indicare questo romanzo-poema, Perros vi ha inserito numerosi particolari che ne negano l’identità, facendo nascere un sospetto. Cominciando dall’assenza di volontà da parte sua di scrivere un’opera autobiografica, non stabilendo nessun patto con il lettore. E non solo il patto non è stato pronunciato, ma vi sono continuamente delle rotture che interrompono il filo del discorso e trasgrediscono i diversi livelli di narrazione. Il dubbio creato espressamente non disturba l’assenza del patto, sigilla al contrario una triplice complicità, con il lettore e con i personaggi presentati nell’opera: con il personaggio come avviene in molti testi; con il narratore, in quanto questi non lo ha ingannato e lusinga in qualche modo il suo senso critico, inserendo dei versi in cui s’indirizza alla sua coscienza, come fuori dell’illusione della finzione; ed infine con l’autore, vasto e umile organizzatore di un’opera polimorfa e anche un po’ monolitica e liscia come può essere la vita di una persona. Il testo mette, quindi, in evidenza le molteplici sfaccettature di un uomo utilizzando metodi diversi, e la lettura conduce alla ricerca di ciò che fa l’unità o la diversità, la dispersione dell’uomo nell’opera. Un racconto autobiografico non può che essere un discorso a posteriori su avvenimenti, ovvero su un’intera esistenza, facenti parte del passato. Questo ritorno al vissuto implica uno sguardo vasto, che abbraccia diversi tempi, diverse epoche della vita di un uomo. Sguardo rivolto sia indietro, sia sulle conseguenze presenti causate da quei momenti passati. Il tempo è dunque multiplo, in quanto sposa le immagini successive dell’uomo – personaggio, narratore e autore – presentate nel testo. E la diversità di queste impronte del tempo sull’uomo impregna i versi e il linguaggio. Perros non ha mai datato né le sue le ttere né le sue esperienze, poiché datare vuol dire fissare, e noi, essere umani, siamo, secondo una sua affermazione, “drôlement discontinus”. Une vie ordinaire giustifica questa dispersione. Il tempo è discontinuo, vago e multiplo.

a) digressioni e fughe

Nella vita di Perros tutto sembra essere un avvenimento, o piuttosto non c’è niente che non lo è. Avvenimenti, piccoli niente quotidiani, che riempiono la vita dello scrittore. È forse più giusto parlare di aneddoti, come suggerisce lo stesso Perros scrivendo: “Anecdotique je le suis /Merci de me le faire entendre” o, come rivela il sottotitolo del suo manoscritto, Poèsie anecdotique (sottotitolo che non è stato mantenuto nella pubblicazione). Perros non cerca di raccontare la sua vita mostrando ciò che essa ha di straordinario o unico: l’utilizzo dell’articolo indeterminativo “une” rivela come questa vita sia presa a caso fra tante, ed il suo interesse risiede forse proprio nell’essere simile ad altre. Il racconto, sia tra una sequenza e l’altra, sia all’interno delle stesse sequenze, è lungi dall’essere lineare. Lo scrittore al contrario sembra sviluppare il discorso seguendo i suoi pensieri, e principalmente attraverso associazioni d’idee. Il lettore è spesso costretto a chiedersi quale sia il racconto principale e quale il tempo in cui si situa. Gli aneddoti e le numerose digressioni che articolano il testo possono apparire come delle proliferazioni inutili; senza queste però non si percepirebbe quel ritmo sincopato e tartassato della narrazione. Le digressioni, come i momenti d’ironia, sono inserite intenzionalmente dall’autore per rompere il flusso troppo fluido della parola e del ricordo, questa interruzione avviene nel momento in cui il racconto inizia ad affascinare e il lettore. Le digressioni, gli aneddoti e le fughe estrapolate dal testo sono ricorrenti e costituiscono da soli un racconto parallelo. Senza di essi, non solo il ritmo cambierebbe, ma anche il contenuto poiché, anche quando sembrano essere fuori argomento, condividono con il lettore quel qualcosa in più, di più futile ed intimo, di Perros stesso. Le digressioni nella trama principale del racconto, che tenta invano di seguire un ordine cronologico, permettono una giustapposizione di tempi diversi, e offrono anche, in un certo senso, la visione sinottica del personaggio, del narratore, dell’autore, paragonabile ad un quadro cubista. Le molteplici sfaccettature dell’uomo si rivelano nei diversi tempi e si trovano in diversi livelli del testo. La cronologia del racconto è molto tormentata sia a causa delle fughe temporali, sia della moltitudine di luoghi. Georges Perros non precisa mai le date in Une vie ordinaire, piuttosto segue il filo del pensiero che passa disinvoltamente da una parola all’altra, per associazioni d’idee. In questa progressione abilmente manovrata, i diversi luoghi hanno un ruolo importante. L’autore ama citare le località da cui è passato, e che s’inseriscono nel suo orizzonte come in quello del personaggio stesso. Più che le date, sono i luoghi che forniscono dei riferimenti; per esempio , a proposito della scuola frequentata, non viene data alcuna indicazione circa il periodo, ma viene riferita la città, la strada, i dintorni: “L’école était rue Libergier qui mène vers la cathédrale J’habitais rue des Capucins (…) Mais pour en revenir à Reims car c’est de Reims qu’il fut question pour mon certificat d’études”. Per Perros, sono i luoghi che definiscono persone ed epoche. Tutti i luoghi che costituiscono il suo percorso hanno una tale importanza che, nel manoscritto di Une vie ordinaire si trovano indicati in forma di lista: rue Claude-Pouillet fino a Douarnenez, rue Anatole France. E non è certamente un caso se le date in confronto ai luoghi non sono numerose, esse si fermano al 1938 a Belfort. Il tempo, per lui, si definisce meglio attraverso lo spazio, fissando i luoghi dove ha vissuto, più che le date. L’evocazione di molteplici luoghi appare a volte come un gioco, guidato dal “piacere” delle parole e che gusta soprattutto nell’uso dei nomi propri. Nel poema sono presenti molti nomi di vie ma anche di città e paesi. Nel momento in cui racconta un aneddoto “à Mandeure près Pont-de-Roide sur le Doubs”, sembra trovare gusto nell’accumulare dei nomi dalla sonorità sorprendente e che non rivelano alcun significato specifico al di fuori della musicalità. Talvolta è l’allineamento di più nomi di persona che produce una funzione analoga. Quando si legge: “Denis d’Inès Seigner / Yonnel Annie Ducaux”, o ancora l’incastro “Pierre Jean Jouve Klossowski”, non si sa bene neppure dove si concluda la lista dei nomi. In Poèmes bleus, questa funzione dei nomi propri è particolarmente evidente: essi sono là, sono attribuiti esclusivamente per il piacere della musica che sprigionano. “Keralleunoc / Stangkergoulas (…) /Clohars Carnoët”, per chi non è di origine bretone sono semplicemente nomi dalla strana consonanza. Perros, dal canto suo, li chiama “mots de granit et mots de laine”, perché hanno forma, consistenza ed evocano luoghi amati. La parola evoca immagini sia per il suo significato, sia per la sua forma e il suo suono; la musica che ne deriva ricorda il piacere del luogo. Lo scrittore ama e ammira i paesaggi e la natura descritta nei suoi versi rimanda alla Bretagna, anche se Perros afferma di non parlarne mai, quella Bretagna che, come egli stesso afferma, più che un quadro disegnato o descritto, somiglia di più ad un sogno. Nella scrittura di Perros, i luoghi si manifestano e prendono consistenza insieme con l’autore, sembrano inscindibili: ” [ils] grandissent avec nous nous envahissent A tel point que si l’on me demandait comment était fait l’intérieur de mon corps je déplierais absurdement la carte de la Bretagne”. L’importanza della musicalità dei nomi ha una forza particolare in Bretagna. Perros ricerca una sonorità dei nomi che permetta un’evocazione di luoghi specifici e quindi capace di creare una suggestione legata a quei determinati spazi.. Le persone sono legate ai luoghi: un amore in gioventù “rue des Acacias”, e “rue d’Assas”, Sartre e “Salacrou rue Jean-Goujon”. E lo spazio definisce anche il tempo: le “bonnes goulées d’amitiés/ (…) Vauhallan, Ham, Cergy, Bourg-la-Reine”, o un “souvenir celui/ d’un jour où il franchit la porte/ du Collège où Wahl officie/ Vous savez bien face à l’église/ Saint -Germain-des-Près”. Leggendo Une Vie ordinare si apre un cammino tortuoso nel tempo e nello spazio. Questo percorso fra i luoghi, le persone e le date specifiche si iscrive nel più ampio tempo di un uomo, nella sua esistenza.

b) Tra passato, presente e futuro

Il presente appare come un tempo particolarmente importante poiché è il legame fra il tempo passato e quello futuro, fra l’espressione del ricordo e quello del discorso, della riflessione presente del narratore e dell’autore, legame che si esprime chiaramente nelle espressioni ricorrenti del tipo “je regrette”. Il presente assume aspetti diversi e si nota particolarmente sotto la forma della proposizione di verità generali. Perros ne fa grande uso, sia nelle massime, sia nelle conclusioni più o meno filosofiche o moraleggianti che trae dalla sua esperienza. Spesso distinti tipograficamente, questi versi, che spesso sono usati per chiudere una riflessione, sono presentati come la morale da trarre da una esperienza. Quando, per esempio, Perros osserva che dare la vita è come dare la morte, fa questa considerazione con un tono divertito, come se stesse canticchiando una canzonetta per bambini, utilizzando un vocabolario falsato: “La vie et la mort vont ensemble bras dessus et puis bras dessous Vierge et puceaux gardez-vous quand le sexe un peu vous démange”. Perros sembra dare una valutazione del presente, che per definizione non è un tempo preciso, “Je ne suis qu’un passant qui tête / les racines d’un aujourd’hui / sans hier et sans lendemain”. Se il presente è difficile da cogliere, comunque è importante nella misura in cui si vive l’esperienza del quotidiano. La parola dello scrittore, il suo linguaggio sono condizionati, abitati dal quotidiano, poiché prima d’essere un modo di parlare sono un modo d’essere. Restare il più vicino possibile ad una esistenza quotidiana, secondo parole che dicono: “à l’écoute du murmure indicibile mais sublime que filtre la banalité”, è quello che interessa a Perros, secondo Alain Cerval, e come afferma lo stesso Perros, divertendosi: “ce n’est pas tous les jours qu’on peut parler de tous les jours”. Il presente è quel tempo quotidiano che spesso non suggerisce immagini liete, come invece fanno i ricordi. È per questo che la scrittura deve essere ricercata e sofferta, spiega Perros in Papiers collés II, osservando come sia difficile parlare di fatti quotidiani senza cadere nella relazione quasi giornalistica degli avvenimenti: “S’il suffisait d’évoquer les choses quotidiennes, de le vouloir pour les rendre intéressantes, ce serait trop facile, comme on a l’air de le croire. Non. Faut accorder ses violons. Il y a, hors notre vision ordinaire, soufferte, endurée, comme une possibilité de chant, de langage mélodique […], possibilité qui prendrait ses racines dans […] une sensibilité soudain isolée, branchée, ” sensible ” au monde alentour, qui se timbre”. Questa concezione della scrittura del quotidiano si ricollega con la presa di coscienza del mondo, in quanto si situa nel dominio del sensibile. Si tratta quindi di mettersi in ascolto del mondo, degli altri, della vita, come si legge nelle sue opere. I tempi al passato sono forse i più numerosi, cosa del tutto normale se si considera che si tratta del racconto di una vita, infatti essi inducono all’evocazione dei ricordi. La memoria appare qualcosa di molto importante nell’opera di Perros, e sembra essere il dinamismo conduttore del racconto. Negli elementi del passato c’è comunque una differenza fra ciò che viene rivelato, legato al sapere, e ciò che proviene dall’esterno, legato alla memoria, al vissuto. Sia i fattori esterni che i luoghi, “je suis né ça me va très bien / dans une rue sans envergure”, si ricollegano al mondo dell’infanzia, senza dubbio perché a quell’età non si ha il potere di decidere delle proprie scelte. Perros sembra raccogliere i ricordi per dare forma e consistenza al suo personaggio. Sono gli anni della scuola, gli incontri, i lavori che si sommano in: la “belle” della “rue des Acacias” o la “belle Roumaine”, i ritratti degli amici, le operette “tous les dimanches”. Quest’epoca gli appare assai lontana, tanto da evidenziarlo due volte: “C’est très loin tout ça /Maintenant je sais mieux garder /secret de mes amours mentaux” e dopo aver parlato di Bruder “nous nous aimons bien il me semble / Mais que les Opéras sont loin”. Questo richiamo ai ricordi dà l’impressione di accrescere le distanze tra il ” je ” del passato e quello d’oggi: “Curieux je ne me sens capable / de parler que de mes amis / morts ou pour lesquels je le suis”. I ricordi, il passato mostrano il personaggio in profondità, composto dagli strati del tempo che l’hanno forgiato. E se la memoria fa difetto, “Mon corps a gardé souvenir / plus fébrile que la mémoire”. Il ricordo può nascere in qualsiasi momento e unirsi al presente. In un certo senso il ricordo non è più datato, appartiene tanto al passato quanto al presente, questo perché non avendo una data stabilita può confondersi con le immagini del presente. La rievocazione del ricordo conduce Perros ad una considerazione generale. A volte sembra che richiami il ricordo alla memoria proprio per giungere ad una constatazione generale e, a volte, moraleggiante. In Papiers collés II spiega: “Ce n’est jamais l’anecdote, le “souvenir” qui me retiennent – j’ai la vie la plus monotone du monde – mais ce qu’ils souhaitent me signaler, soumis à certain régime”. Il ricordo ha quindi un posto importante nell’opera di Perros, e la memoria sembra esserne il motore. Motore di un’opera che non segue il sentiero più breve, ma che si perde tra i meandri di una cronologia soggettiva. La memoria lascia il segno nel testo e traccia al lettore una figura a volte univoca, a volte dalle molte sfaccettature. * * * La scrittura permette di unire tutte le epoche, tutti i ricordi e altri fatti quotidiani, con il fine di giungere a formare un “être de papier”, degno riflesso dell’essere in carne. Ora, l’immagine dell’uomo a cui rinvia il linguaggio di Une vie ordinaire è quella di un essere disperso fra diverse epoche, diversi linguaggi, molteplici vocaboli, infatti Perros gioca con le parole, come gioca con il tempo. Compaiono nel racconto poetico diverse figure che, riunite insieme, formano, in ultima analisi, un’unità. Il gioco sulle parole, le persone e le idee rimanda ad un’immagine frammentata dell’uomo che afferma la sua unità attraverso l’uso di un linguaggio singolare. Le autobiografie in versi sono rare ed in più Perros racconta una vita ordinaria. Intitolare l’opera Une vie ordinaire e darle una forma in versi ha qualcosa di sorprendente. La poesia, nell’immaginario comune, rinvia al mondo del sublime, dello straordinario e non certo del quotidiano, ma lungi da Perros l’idea di dare un senso più puro alle parole, lui che usava dire “aller au mot le plus usé, le plus clochard”. Le parole di Perros non si allontanano dal quotidiano che esprimono. Ha spesso ripetuto che, per lui, la poesia non è tanto un modo di scrivere quanto una maniera d’essere, giacché egli è convinto che ogni persona nasconde in sé una parte di poesia. Diventa così l’inventore del “mot-valise” poetico. Più volte, in Une vie ordinaire, Perros dice di voler incollare le parole : “Si choisis de parler en langue courante ce n’est pas faute d’admirer les grands qui surent la clouer au point de plus haute souffrance”; e ancora: “chacun d’entre nous n’a pouvoir que de parler son seul langage A quoi bon vouloir être un autre Qui nous fascina par ses mots Il en a souffert la richesse Assumons notre pauvreté”. Nei due passaggi il linguaggio è legato all’idea di sofferenza. Senza dubbio perché scrivere per lui non vuol dire semplicemente unire delle parole per fare delle belle frasi, ma soprattutto impegnare per sempre la propria esistenza. Nella corrispondenza con Jean Grenier, Perros confida all’amico il suo stretto rapporto, quasi ossessivo con il linguaggio: “Je n’arriverai jamais à isoler mon langage. Il me colle à la peau. On mourra ensemble”. Si tratta, quindi, di una vera necessità per lo scrittore di restare il più vicino possibile alle sue parole, al fine di migliorare la realtà, anche se il linguaggio è insufficiente per esprimerla. La sua poesia consiste nel fare un uso vero di uno strumento falso, e forse la poesia è lo strumento più adatto a mostrare la realtà. Essa, che appare più complicata e più sofisticata della prosa, permette, grazie all’immaginario, che ne è la struttura portante, di mostrare fedelmente la realtà. Alla lingua, come prodotto sociale, si oppone così la parola poetica, atto individuale e creatore, dominio della libertà e della fantasia. Sebbene molte idee e riflessioni si ritrovino in tutti i suoi scritti come anche nelle testimonianze orali, il linguaggio non sembra essere lo stesso. Quello di Une vie ordinaire e di Poèmes bleus forse perché legato al verso che condensa la parola, la rende più ellittica o, al contrario, più carica di suggestione. Perros raccontava di sentire le persone intorno a lui parlare in ottonari, mentre scriveva Une vie ordinaire. Si dispiace persino di non poter esprimere tutto in versi, comunque si tratta di una scelta interessante, anche dal punto di vista del lavoro da fare sulla lingua. Perros non ha scritto quest’opera per gioco, infatti dà un’immagine viva del verso, giocando con l’omonimia dell’animale “Mon vers est lièvre il est tortue Furet ici escargot là il court et dérape souvent car la vie est peau de banane”. Secondo Jean Roudaut si tratta di una estetica “fondée sur cette notion de dérapage […] de l’instabilité et du glissement”. Il lavoro fatto sull’ottonario in particolare e sul verso in generale è la ricerca di una poesia libera dalle regole. Libera dalle regole della stessa metrica, rassicurando a volte il lettore sulla quantità di sillabe nei versi dubbiosi: “prononcez-bien les pieds y sont”, e dalle regole di sintassi. Svincolato da qualsiasi costrizione, Perros fa della sua scrittura il luogo del suo lavoro sulla verità, o più esattamente sull’espressione del vissuto, servendosi del linguaggio poetico. Ed allora ecco che la poesia, come la prosa, può esprimere il “vissuto”, forse proprio per la sua indipendenza dalle regole, in un linguaggio più libero. Leggendo Poèmes bleus o Une vie ordinaire non troviamo lo stesso Perros di Papiers collés o Notes d’enfance. Ciò che appare diverso è la costruzione in sequenze del testo di Une vie ordinaire, e l’uso di espressioni o modi di dire accettabili grazie alla licenza poetica. Modi di dire di cui Perros, comunque, cambia l’utilizzo, come “le ciel qui change souvent de chemise”. Egli stesso spiega la sua teoria sull’uso delle parole: “Il est rare que nous prenions un mot pour un mot sans délire qui l’éloigne alors de sa source et le rend humain malheureux qui n’attendait rien de sa course sinon qu’on lui tend les lèvres sans ajouter métaphysique à son parcours …”. La ricerca della parola giusta è un fattore essenziale, e l’ambigua posizione delle immagini o delle espressioni idiomatiche, di cui fa largo uso, lo aiuta a cercare di rendere il loro significato primordiale. Quando, in Poèmes bleus, parla di violette che “lèvent le nez”, si corregge immediatamente: “Quoiqu’en manquant, c’est pour le nôtre / Qu’il faudrait dire qu’elles naissent”. Con parola “giusta” non intende tanto una parola che descriva, che fotografi il reale, quanto quella suscitata dallo sguardo, dall’incontro, quella parola che corrisponde il più possibile all’esperienza, alla sensazione. Nella sequenza in cui racconta la sua vacanza a Courrières, dichiara di amare la sensazione di sentirsi: “dans le blé bleu qui pique aux jambes le blé n’est pas bleu je le sais mais un mot en amène un autre et tout a la couleur du ciel quand notre œil est en nouveauté”. Si potrebbe riferire la stessa immagine alla poesia: i poemi non sono blu, ma hanno assunto il colore del mare in questo verso: “quête, qui reste tentative d’expulsion”. Ridare alle espressioni il loro significato primordiale è una delle preoccupazioni di Perros, come diffidare delle immagini che comunemente ingannano. Egli pensa che per la maggior parte delle persone la poesia sia soltanto qualcosa di emotivo: “mou, d’un peu lirico-métaphysique, c’est l’obsession de la métaphore. Mais la poésie n’admet pas de réplique […]. C’est une espèce de netteté absolue équivalent à un site ou à une fleur”. Oltre queste immagini e queste espressioni idiomatiche, Perros impiega, con una funzione opposta, un linguaggio apparentemente lontano dalla poesia, un linguaggio crudo, legato all’uso quotidiano della lingua parlata: “Je récupère mal le temps que j’ai passé à faire l’âne en laissant ma pauvre maman s’occuper à torcher mon cul à me donner le sein si tant il est vrai qu’elle fit ce geste de laiteuse et pâle tendresse”. Sembra divertirsi opponendo delle espressioni volgari ad un tipo di verso che potrebbe appartenere allo stile di un grande poeta come Mallarmé. Introduce nel suo linguaggio poetico un vocabolario che non ha nulla di letterario. Perros crede che la poesia non sia legata ad una terminologia nobile, ad immagini sublimi ed a grandi soggetti, ma che sia un modalità per esprimere il proprio essere, e che non richieda necessariamente difficili elaborazioni. “La poésie , elle à l’air […] Elle n’est pas facilement naturalisable, et rien ne lui va comme la pauvreté. Vouloir la vêtir somptueusement, l’ordonner avec astuce, ne saurait l’ébaudir. […] Un vers de quatre sous peut l’avoir dans la peau. Une minutieuse construction érigée en son attente restée inhabitée. Elle se donne pour rien, mais ce rien coûte cher”. Perros gioca con le parole e le espressioni, poiché cerca di unire un’esistenza semplice con una scrittura che sia anch’essa semplice, per quanto non semplicistica. Il poeta ricompone, trasgredendo le regole, un linguaggio fuori dai canoni di riferimento; ed i diversi livelli di linguaggio sono una parte fondamentale di quello poetico. Linguaggio senza dubbio fuori dal comune, che lo stesso autore si diverte a commentare, unendo ad un testo poetico un discorso critico. Il racconto è continuamente interrotto da aneddoti ed anche da commenti, note a posteriori su avvenimenti passati o sulla pratica della scrittura, come il punto interrogativo all’interno di un verso: “pour controverser (?) le hasard”. Queste interruzioni a volte sono create da un “je” commentatore diverso da quello del testo. Questi commenti sono diversamente stratificati: nello svolgimento della storia s’interseca l’intervento del narratore con quello dell’autore. Quando nella prima sequenza di Une vie ordinaire, si legge “bref” o “N’importe allons”, possiamo considerare queste indicazioni come un richiamo dell’autore al narratore. Questo è ancor più evidente nel passaggio: “Mais sont là vains commentaires”. Gli interventi sono più frequenti quando vengono narrati avvenimenti passati, più specificatamente quando si tratta di avvenimenti autobiografici; evidentemente perché in questi momenti la voce del narratore e quella dell’autore sono più suscettibili di sdoppiamento che nei passaggi di riflessione, in quanto questi ultimi sono unicamente frutto del pensiero dell’autore. La presenza di alcune parole messe in evidenza tipograficamente come: “Hélas”, “Que devient-on”, “C’est ainsi”, appaiono come interventi personali dell’autore. I commenti che ricorrono con più frequenza sono quelli, divertiti ed ironici, sull’uso stesso delle parole e delle espressioni idiomatiche. Questo perché, come si è detto prima, la sua scrittura obbedisce ad una esigenza di verità e giustizia. Jean Roudaut afferma : “son texte n’évolue pas de déduction en déduction […], mais par clauses juxtaposées. Il se reprend et se nie, s’efface pour progresser, chercher plus de justesse. On a le sentiment de le voir revenir sur ce qui a été pour préciser une pensée qui s’est élaborée au fur et à mesure de la parole”. Si evidenzia, in questo modo, anche l’aspetto orale della scrittura di Perros. Forse proprio per questa illusione dell’oralità, ad un certo punto le osservazioni conducono ad abbandonare l’uso della punteggiatura e le parole sono inserite nel racconto quando non si presta nessuna attenzione al loro significato: “dans la ville où suis retiré / retiré de quoi de personne”. Questo genere di commenti sembra in effetti l’espressione di una reazione sistematica, ma le osservazioni possono avere un rapporto più personale con le parole. Quando scrive: “la femme et les enfants que j’ai / que j’ai la drôle d’expression / pour moi qui me sens si peu être”, osserva come si utilizzino erroneamente nella lingua francese alcune parole che sono svuotate del loro significato primordiale. Jean Roudaut osserva che nel momento in cui Perros scrive una parola provoca in sé una risonanza, come se una parola “vera” cercasse di aprirsi il varco in un sentiero tortuoso per farsi capire, sentire. Le interruzioni nel testo possono essere causate dai commenti dell’autore sul suo stesso modo di scrivere. Queste sono numerose e non si preoccupano di interrompere un discorso anche se serio, “quand on est digne d’ignorance /(pas joli bon ça ne fait rien)”. Perros si diverte doppiamente con il lettore, sembra evidenziare con lui l’errore o la goffaggine dello stile mentre ha anticipato il lettore, fornendogli egli stesso l’arma critica sull’errore. Ecco che viene fuori la figura di Perros lettore. Non bisogna, comunque dimenticare che la sua professione era quella di lettore. Legge il suo manoscritto come se fosse d’altri: i commenti interrompono il testo, ma allo stesso tempo fanno parte del testo in quanto testimoniano la sua volontà di giustizia. A maggior ragione gli interventi del narratore-autore, personaggio-uomo, offrono, per i diversi punti di vista, una visione del testo dalle molte sfaccettature.

c) Un tempo scandito da aneddoti

Il verso di René Char scelto come epigrafe in Une vie ordinaire: “On naît avec les hommes. On meurt inconsolé parmi les dieux”, indica la posizione dell’autore e il suo attaccamento alla vita terrestre, come confermano le innumerevoli allusioni in Une vie ordinaire: “Je suis pour le discours humain/ Je suis pour la moitié de pain” ; o ancora : “Je sais que mon royaume est bien de ce monde”, dove il discorso religioso è rimandato all’aldilà. L’asimmetria nel verso di Char accentua questo aspetto, in quanto esiste una differenza fra essere “con” ed essere “fra”. Il primo termine suggerisce una solidarietà e una similitudine fra gli uomini, mentre il secondo termine suggerisce un’immagine di solitudine e di barriera. Sembrerebbe inoltre esserci uno squilibrio fra i due tempi, poiché se la vita ha una fine, la morte sembra scorrere in una eterna malinconia. Ne consegue una specie di ingiustizia fra la vita umana troppo breve e una eternità da trascorrere nel rimpianto del tempo passato: “De vivre rien ne nous console Mais mourir nous fait de l’effet pour un bout de temps je pense”. Il tempo della vita è talmente di poca durata che sembra annullato, come se tra la nascita e la morte non ci fosse niente, quando invece c’è l’essenziale, quell’essenziale che permette ai due verbi “nascere” e “morire” di avere una consistenza. La vita, riassunta all’estremo in questi versi, si paragona alla vita di un insetto effimero, un essere di un solo giorno. In tutta la sua opera Perros altro non fa che continuare a chiedersi “comment faire pour vivre sachant que l’on va mourir”. Il tempo della vita è quindi fondamentalmente breve, troppo breve, come suggeriscono le prime sequenze di Une vie ordinaire. Perros inizia in modo classico la sua autobiografia con il racconto della sua nascita, ma immediatamente si nota che non si accontenta di dire “je suis né”. L’episodio della nascita si svolge in cinque sequenze ed ogni volta l’esperienza del nascere è controbilanciata dall’idea della morte, o per lo meno dal dubbio. Questo gioco del contrappeso è più toccante nel momento in cui si ha l’impressione che lo scrittore abbia raggiunto una certezza. Subito dopo aver affermato: “Je suis né dans une mansarde” , ecco riaffiorare immediatamente un’incertezza : “On m’a bien dit que j’étais né”, passando per: “Où je suis né on me l’a dit”, fino a precisare: “Je suis né rue Claude Pouillet”. La seconda strofa si presenta come un epitaffio o piuttosto un’iscrizione commemorativa: “Ici naquit Georges Machin qui pendant sa vie ne fut rien et qui continue Il aura su tromper son monde en donnant quelques fugitives promesses mais il manquait c’est certain de quoi faire qu’on le conserve en boîte d’immortalité”. Quest’abolizione della vita appena iniziata si ritrova nell’uso dei futuri, molto rari, e che hanno, per lo più, una valenza negativa: “Elle me disait sans cravate /on ne te recevra pas là /si tu ne t’habilles pas bien / on te renverra sans délai”, ed anche negli ultimi due versi: “Les petits bébés du néant / s’en pourlécheront les babouines”, dove il nulla accompagnato dal neologismo “babouines” rende superata qualsiasi profezia. Sembra che alla vita sia interdetta qualsiasi proiezione in avanti. Vi è appena una conoscenza del presente, come segnala lo stesso Perros in un colloquio: “Je suis toujours ce que je vais devenir”. L’assenza di prospettiva e la visione del nulla sono l’espressione della vita di un uomo. Il niente, “le rien”, è un tema ricorrente nell’opera di Perros, ed assume diversi aspetti. È contemporaneamente ciò che egli cerca e ciò che lo costituisce, è uno degli aspetti della sua percezione sensoriale di esistere. La raccolta si apre su una specie di invito alla scoperta: “La préface est à l’intérieur”. Affermazione sconvolgente, visto che una prefazione dovrebbe trovarsi all’inizio del testo per preparare il lettore e annunciargli ciò che seguirà. Integrandola nel testo, Perros l’annulla e dà al testo stesso quella funzione. Non utilizzando gli strumenti consueti per incorniciare il suo discorso, gioca con le parole e richiama i lettori ad un rapporto più immediato con le parole. Infatti, “intérieur” può essere inteso in due modi: la coincidenza fra l’inizio di un’opera e l’inizio di una vita fa confondere il preliminare e le origini fin dall’inizio della storia. Questo può però anche significare che il messaggio è da ritrovare all’interno dell’opera e che, di conseguenza, l’autore non è tenuto a scrivere un’introduzione al suo testo. Niente preludi e un inizio che balbetta, con la ripetizione della nascita, come un difficile parto. La frammentazione del testo in sequenze rompe la catena del tempo e ne impedisce il fluido svolgimento. Il tempo di Perros non sembra voler rispettare uno svolgimento razionale, cronologico, definito attraverso le date o le ore, ma si muove piuttosto attraverso dei momenti singolari, delle sensazioni, delle tappe personali. Così la sua intuizione della vita sembra appartenere alla sfera del sensibile, e la prima sequenza: “rien ne m’ayant ancore donné / l’enviable sensation /d’être tout à fait là sur la terre”, rende l’idea della percezione che egli ha della sua presenza nel mondo. E quando scrive: “Je vois ce que je regarde Je sens / ce que je sens (…) / Stupéfait de marcher d’en être / de ce monde en faire partie”, si nota come l’intuizione sensibile sia più importante della visione intellettuale. Il testo, infatti, non è un’elaborazione astratta dello spirito, ma una somma di esperienze sensibili. E la sua ricerca di privazione è probabilmente legata alla volontà di restare fedele alla realtà. La sua maniera di temere il mondo è legata al risentimento. E forse per questo motivo che non ha custodito immagini, ricordi ben precisi dei suoi genitori, ma per lo più gesti, intonazioni e accenti: “Les gestes / de ma mère dans la cuisine / quand elle faisait à manger / c’est tout ce qui me restait d’elle”; o anche: “Que me reste-t-il de mon père / sinon certaines gestes que j’ai / ou que je me surprends d’avoir / un timbre de voix un accent”. Quanto all’evocazione dei luoghi, è ugualmente una sensibile apprensione che domina dietro le parole, anche quando nei Poèmes bleus s’immagina nel piccolo bistrot: “Dans l’ombre des choses humbles L’odeur de la réglisse, du pierrot gourmand De la semelle de caoutchouc De l’essence De la vie”. Questo luogo è abitato dagli odori quotidiani, o che riconducono a ricordi d’infanzia e che manifestano la vita, una presenza nel mondo. Il ritmo decrescente dei quattro versi fa risaltare l’ultimo, frase chiave nell’opera di Perros. Il suo modo di percepire gli avvenimenti è dominato da questa apprensione empirica, ed è per questo motivo che a volte i riferimenti temporali sono minimi in rapporto agli avvenimenti ai quali si ricollega. “… c’est cirant mes souliers geste rarissime et jamais depuis ne l’ai recommencé qu’à Rennes les premières bombes en France tombées échouèrent”. Perros dà l’impressione di divertirsi dello squilibrio fra l’importanza di avvenimenti e le sue reazioni; come dopo, quando scrive sempre del periodo di guerra: “Une bougie / rendait ma crainte moins terribile / de voir surgir une souris”, e non un tedesco o una granata. Lascia al lettore una sensazione di spensieratezza. Il tempo dell’infanzia, in effetti, sembra legato all’innocenza, ad una sorta d’incoscienza di essere al mondo. È la dolcezza dei ricordi, come “le dimanche d’hiver vibrant en collectivité sportive”, “dans les tribunes (…) C’est l’odeur qui m’en est restée”, le “vacances à Courriers” dove amava sentirsi “dans le blé bleu qui pique aux jambes” o la “Paris des bougnats”. La leggerezza dell’infanzia appare come il mezzo essenziale per conoscere e temere il mondo. Questa sembra, tuttavia, finire col confrontarsi con l’asprezza della realtà, quando scrive “l’amitié ce fut difficile”. Nelle prime sequenze di Une vie ordinaire, Perros afferma “Quoique me sentant peu au monde / je dis bonjour ça va bonsoir / à mes semblables que je croise”. Il dubbio sulla sua inadeguata presenza nel mondo è attenuato dalla presenza dei suoi simili, anche se vi sono innumerevoli espressioni che indicano il personaggio-narratore-autore diverso dai simili. Egli è “l’homme d’un courant d’air”, o ancora “si peu de chose / en instance de pourriture”. Il più delle volte si tratta di un’immagine del niente, dell’assenza, che si libera dalle espressioni che impiega. E l’affermazione “je suis un homme” non sembra resistere al peso di tutte l’esperienze: “je me dégoûte d’être un homme / Mais j’en suis de moins en moins un”, anche se per affermare la sua appartenenza al genere umano arriva a domandarsi: “mais qu’est-ce qu’un homme”. L’esperienza del nulla, del niente, è onnipresente in quanto dà valore alla vita. L’assenza o la non-presenza sono riprese più volte nel testo. In particolare, l’affermazione sulla sua scarsa presenza sembra sorprendente in un’opera destinata a delineare ed affermare un’individualità ben presente. Questo aspetto vago della percezione del suo ruolo nel mondo si ritrova nel timore del tempo sprovvisto di punti di riferimento. Perros non contravviene alla regola di iniziare il racconto della sua vita dalla nascita del personaggio, ma immediatamente introduce un dubbio, “de si drôle de façon” , quello stesso di essere nato, di vivere e di esistere. Se questa incertezza d’essere viene superata, lo si deve al fatto che l’opera esiste, resta solo l’imprecisione sul tempo poiché i riferimenti sono assenti, anche quando lo scrittore indica l’età: “du haut de mes douze ou treize ans”, “Nous avions tous deux le même âge /seize ou dix-sept ans ne sais plus”, o i riferimenti ad un preciso periodo: la guerra, o il diploma. Resta il fatto che i riferimenti cronologici sono comunicati per lo più da espressioni temporali come “beaucoup plus tard”, “maintenant”, “ce soir, …”. Il tempo, per Perros, non sembra essere misurabile o quantificabile, anche quando scrive: “Où je suis né on me l’a dit mais je l’oublie souvent de même l’âge que j’ai et qu’on me donne quand il me va comme ces gants qu’on dit aller aux mains ou doigts esthétiquement adéquats”. La similitudine dei guanti non indica certo una grande precisione, bensì dà luogo ad un gioco di parole e di suoni, soprattutto negli ultimi versi citati, in cui le due parole “esthétiquement adéquats” risuonano grazie alla loro musicalità e al loro senso complicato. Perros non ha nessuna volontà di comunicare al lettore le date precise, ma piuttosto ha l’intento di comporre una storia che valga più per il suo contenuto che per la sua coerenza formale. L’unica data precisa che inserisce è quella del suo matrimonio: “On s’est marié l’an dernier / en mil neuf cent soixante-trois”, avvenimento che non sembra comunque trasformare oltremodo la sua esistenza: “la chose fut très réussie /(…) Puis nous avons repris chemin / de l’humble quotidienneté”. L’avvenimento non comporta altra novità se non la descrizione della passeggiata quotidiana del cane, in quanto l’episodio non conta più della banalità dei giorni ordinari. Lo confessa egli stesso, dimentica e omette il tempo: “… Je n’ai pas mémoire des dates ni des almanachs Je vis dans un monde sans heures sans jours sans ans”. In Papiers collés III aggiunge : “toujours anachronique, ou déplacé, quant à sa journée, que dis-je, quant à son millième de seconde précédent. (Ce temps étrange qui s’amusera, soudain, à faire lever les cailles d’un passé à peine perceptible […]. Pauvre chronologie ! ainsi allons-nous)”. Il tempo è percepito, trattato alla stessa maniera, cioè non ha altri punti di riferimento, rispetto alle impressioni, che permettono di bistrattarlo e di condurlo per sentieri tortuosi; un po’ come il linguaggio. Perros modella sia le parole che il tempo in funzione della sua visione delle cose. Il suo tempo è fondamentalmente soggettivo in quanto è legato alla sua storia personale. Il racconto di Perros, non essendo lineare, comporta salti da un tempo all’altro senza temere anacronismi. Si tratta di un racconto al passato, che conduce il lettore fino all’oggi del narratore, frammentato o da riflessioni a posteriori sul passato, o da riflessioni al presente corredate da aneddoti passati. La narrazione non segue una cronologia razionale, ma piuttosto una cronologia soggettiva, impressionista ed empirica. Per esempio conosce i suoi genitori solamente dopo averne preso coscienza : “Je devais mais, beaucoup plus tard / faire la connaissance émue /des parents qui m’étaient échus”. O ancora fra le sequenze che riguardano la nascita: “Je suis un homme maintenant”, come se questa affermazione dovesse dare più credito all’altra affermazione: “je suis né”. Il tempo della raccolta segue la logica della memoria, che fa zigzagare il tempo senza alcun desiderio di una traiettoria dritta e rapida. Gli anacronismi permettono una visione globale di tutte le sfaccettature del personaggio e sono l’espressione stessa di quelle molteplici immagini che un individuo possiede. Perros gioca con il tempo, lo spoglia della sua rigidità rendendolo più flessibile. Lo scrittore preferisce organizzare, sarebbe meglio affermare “non organizzare”, il testo in funzione delle date.

d) Da attore a regista della sua storia

Ad un certo punto della sua vita Perros sente la necessità di rivolgere totalmente le sue attenzioni alla scrittura. La parola è per lui molto importante: attore dapprima, e poi, giudicato il teatro un luogo di menzogna e finzione, egli ha rivolto il suo interesse alla scrittura, e a questo punto ha “découvert ses faibles cartes”. Abbandona, quindi il teatro, creando una rottura decisiva con il mondo della “finzione”. Provava noia, avrebbe detto in seguito, nel declamare versi a lui estranei, lontani dalla sua memoria naturale; questa distanza tra l’attore ed il testo drammaturgico gli risultava insopportabile. Inizialmente aveva intrapreso l’avventura teatrale un po’ per gioco, realizzando, comunque, un sogno giovanile; aveva sempre avuto una grande passione per la scena e per il mondo che si svolge dietro le quinte: “Je suis un homme de coulisses J’aime me trouver entre deux Quand j’ai voulu faire métier d’acteur c’est pour connaître mieux”. Ma l’interesse per l’esperienza teatrale non gli impedirà di paragonare la vita teatrale ad una malattia: “c’est comme une maladie qu’on ignore”. Dopo qualche anno si sentiva infatti come logorato, fuori posto, decisamente estraneo a quel mondo legato alle apparenze, dove anche le relazioni umane finivano per essere condizionate dalla gerarchia dei ruoli teatrali e dall’ipocrisia della rappresentazione. Ha avuto inizio, a partire da questo momento, una fase cruciale nella vita di Perros, segnata da un ripensamento complessivo delle proprie motivazioni letterarie, dei propri bisogni espressivi, alla ricerca di un linguaggio capace di soddisfare le esigenze profonde della sua personalità. Le tracce della sua esperienza con il mondo del teatro, tuttavia, si manifesteranno con evidenza nel prosieguo della sua attività di scrittore. Proprio come un regista di teatro, si dedicherà ad assegnare, distribuire e dirigere i ruoli dei personaggi che popolano il suo universo. Figure a volte del tutto diverse da sé, a volte doppioni, specchi o controfigure della propria identità. In questo rinnovato contesto, Perros sceglie una nuova modalità di scrittura, una tecnica di rappresentazione di idee e sentimenti basata sulla realtà dell’io piuttosto che sul fingere di essere altro da se stesso. In questo modo egli si toglie la maschera, e si rivela al lettore secondo la propria essenza più vera, attraverso il racconto dell’io. Nella scrittura autobiografica, le diverse figure dell’opera: personaggio, narratore, autore, si trovano riunite sotto lo stesso nome, ed è difficile separare i diversi “je”, che non si riferiscono sempre alla stessa entità. Come le differenze temporali mettono in luce le diverse epoche, così il “je” si declina in più modi. Il cambiamento di riferimento corrisponde ai cambiamenti di tempo: il presente, per esempio, si riferisce il più delle volte all’autore o al narratore, in quanto è il tempo legato alla redazione del testo; il personaggio, invece, appartiene al tempo passato, anche se a poco a poco riesce a raggiungere il momento della stesura, ed allora diventa difficile dissociarli. Sembra quasi che il personaggio abbia concluso il periodo di formazione e si possa riunire e confondersi con la sua origine. Prima di giungere a questa “coincidenza”, si distinguono nel testo le varie figure. Il personaggio appare, nelle sequenze della nascita, nei verbi al passato: “j’étais né”, “je suis né”, ed anche “je me méfie”, “j’attends”, posizionato in tal modo tra il presente ed il futuro, quindi con una connotazione dubitativa. Il narratore, invece, è facilmente confondibile con l’autore, ma è certamente il protagonista nelle affermazioni: “Je suis pour le discours humain”, come nel richiamo all’ordine di “N’importe allons”. Qualche pagina più avanti, vi sono diversi “je” e l’autore sembra si sia divertito ad ingarbugliare diverse forme temporali: “car je ne mérite aucun bien et n’en méritais davantage à l’âge où se passa la chose que je relate en ce moment”. Il tempo passa dal personaggio, oggetto dell’aneddoto, al narratore-autore. Questo modo d’intervenire direttamente da parte dell’autore, è una forma molto usata da Perros, fino a farci accostare al momento stesso della redazione. E in quest’istante, puntualmente appare la figura dell’autore: “c’est tout / ce que ce soir j’ai à chanter”, come avviene anche in “on m’oubliera vite et ce que / j’écris par un beau soir d’automne / près de mon chien qui mord ses puces” , il verso conclusivo della raccolta. In questi momenti s’incontra l’uomo-autore che appare completamente trasfigurato, diverso da quello delle prime pagine di “rue Claude Pouillet”, o della “rue d’Assas”: dall’uomo in “formazione”, che deve maturare, si giunge all’uomo compiuto, padrone di un linguaggio che lo rispecchia. Questa distorsione è particolarmente visibile nella prima sequenza, che riunisce tutti gli elementi. La prima strofa, infatti, presenta un personaggio diffidente, che mette in dubbio la sua stessa esistenza nel mondo, “j’attends confirmation”; la seconda strofa mette in evidenza un uomo già abbastanza “formato”: “Je suis pour le discours humain / […] Et si mon langage vous pèse / quoique si léger si fuyant “. La scrittura permette, quindi, di riunire nell’opera un “je” multiplo. L’unica certezza, malgrado il dubbio, sembra essere la costanza del sentimento dell’essere “moi”, mentre tutto cambia. La scrittura autobiografica cerca di stabilire un’unità, a dispetto dell’azione dissolvente del tempo, partendo dalla propria individualità. La scrittura dà, quindi, la possibilità di esprimere un “je” che sia allo stesso tempo uno e multiplo. Ora, abitualmente il “je” delle poesie è un “je” senza riferimenti, nel quale ognuno può trovarsi, e la soggettività universale del lirismo è diversa dal discorso autobiografico. La poesia di Perros è autobiografica, in quanto è per lui un modo d’esistere, “d’habiter poétiquement le monde”. Il “je” presente nella sua poesia è personale: il narratore non cerca di annullarsi nel suo discorso; e si è dimostrato come sia estremamente difficile separare il “je” del personaggio-narratore dall’autore. Nel suo testo, Perros non s’inventa nulla; per lui il fatto straordinario è riposto tutto nell’esistere: “Là, je suis mon propre personnage. Je ne distribue pas le peu de pensée à des personnages parce qu’il n’y en a pas assez. Donc, je garde tout et je me le tape sans arrêt”. La scrittura è il modo di costruire, di dare forma a quella “vie ordinaire” e, a questo proposito, s’impone un programma alquanto sorprendente, forse perché le parole sono al di qua del vissuto: “Maculer te maculer vie avec ces mots que j’ai appris gosse à l’école communale Tout rite a besoin d’ignorance”. O ancora in altre pagine esprime il rincrescimento di non essere riuscito a completare del tutto il compito che si era prefisso: “je sais bien que je mourrai sans avoir tout biffé de moi-même”. L’impiego del ” je ” a volte si può scorgere in modo meno manifesto, cioè da parte di terzi che vi si riferiscono indirettamente. A volte, infatti, Perros non scrive “je”, ma parla a se stesso come se parlasse ad un altro: “Rentre en toi-même Georges et cesse / de te plaindre …”, o ancora il “je” è presente alla terza persona singolare. Per esempio, nella seconda sequenza, consacrata alla nascita, il personaggio è presentato così: “De cet étonné d’être là / il avait sept mois et demi […] il pesait moins de trois kilos”. Di primo acchito ci si domanda di chi parli, la spiegazione giunge dopo, tra parentesi: “(Ah ce mois et demi me manque …)”. Questo modo di presentarsi alla terza persona singolare si ritrova, sempre nella sequenza legata alla nascita, quando l’autore fa il suo ritratto al passato, sotto forma di iscrizione commemorativa: “Ici naquit Georges Machin / qui pendant sa vie ne fut rien”: anche qui, come prima, si nega la propria esistenza per affermarla. Il fatto, invece, di non scrivere né il suo vero nome, Poulot, né il suo pseudonimo, Perros, sembra spiegarsi con il voler annullare la “presenza reale”. Il personaggio può mostrarsi attraverso lo sguardo e la parola di altri, riportati dal narratore. È il caso di: “Ah Georges écoute-moi” di Henri Pichette, oppure della madre: “J’aurais tant aimé voir mon fils rester comme encore tout petit […] Et moi j’en pleure ce n’est pas ce qu’on avait ton père et moi espéré pour toi si mignon quand tu n’avais pas la parole”. Testimonianza ironica, poiché la madre rimpiange il tempo in cui il figlio era come una bambola, quando lo poteva “manipolare”. La figura del personaggio è delineata da un punto di vista narrativo esterno e presentata, questa volta, per mezzo del pronome alla seconda persona plurale: “Et vous – c’est moi qu’on s’adresse – qu’en pensez-vous Vous êtes là comme si vous étiez ailleurs Vous avez l’air oui je m’excuse De vous foutre de tout …”. L’immagine che dà di se stesso è quella di un indifferente che si trova davanti ad una situazione di divario tra ciò che pensa e ciò che è, vittima dell’incoerenza tra il suo modo di essere e di pensare. Lo sguardo dell’altro, comunque, lo lascia indifferente, come afferma a un certo punto: “tout ce qui peut me rendre fort / aux gros yeux d’autrui me fatigue”. o meglio ancora nell’episodio dell’ “homme dans l’escalier”, in cui presta la voce ad un uomo che lo giudica: “Il dira ce soir à sa femme le type qui habite en haut […] il ne va pas très bien je crois je l’ai rencontré ce matin il racontait je ne sais quoi tout seul en croquant sa bouffarde ah c’est un intellectuel Je n’ai rien à dire à cet homme”. Riferire le parole di qualcun altro è un modo per completare il ritratto del personaggio. Questi, di conseguenza, non è definito solo dalla voce del narratore, ma anche dallo sguardo di altri. La figura dell’altro può trovare spazio nel pronome impersonale “on” che, non implicando una persona definita in particolare, può caratterizzare ogni volta un individuo diverso. La raccolta di Une vie ordinaire è ricca di indefiniti, ed allo stesso tempo sembra vivere in uno spazio narrativo atemporale ed impersonale. Indeterminazione che può sorprendere, giacché il testo cerca di rivelare e creare contemporaneamente una individualità. Le forme pronominali della seconda persona, singolare e plurale, sono prevalentemente utilizzate nei diversi momenti dell’opera in cui Perros si rivolge esplicitamente al lettore. Fin dalla prima sequenza, infatti, lo avvisa: “Et si mon langage vous pèse / quoique si léger si fuyant / rien de plus facile à votre aise / que de jeter ce livre au vent”. Scaturisce da ciò l’idea di un “lettore interlocutore”, o forse sarebbe più corretto dire che il lettore diventa destinatario di una lettera, indirizzata potenzialmente a chiunque. Vi è quindi un rapporto quasi fraterno, evidente soprattutto in Poèmes bleus, dove Perros propone un cammino comune et “que ses faibles mots / profitent un peu du miracle / de nos mémoires conjuguées”. In Une vie ordinaire, si accosta pure al lettore attraverso interventi del narratore: “cherchez-là”, o “beau pays que je vous conseille d’aller voir”, o ancora : “merci de me le faire entendre / mais si vous saviez”. Perros spiega in Papiers collés II come mai si ponga nei confronti del lettore quasi fosse il suo interlocutore in una conversazione: “c’est plus à un ami que je m’adresse, sachant qu’il n’existe pas, ne peut pas exister, qu’à un lecteur amateur d’autobiographie”. Ed è così che considera il lettore anche in Une vie ordinaire: “c’est qu’à des amis inconnus / je les jette très loin de moi / ces mots…” oppure “tout ces mots que je te destine / ami que par définition / je ne rencontrerai jamais”. In questo modo, la raccolta di poesie sembra indirizzata al lettore come una lettera ad un amico, come se non fosse un’opera. Altre volte, invece, il lettore sembra collocato nella posizione dell’osservatore, che lo guarda attraverso lo specchio deformante della scrittura: “toi qui me vois en ce moment / par le biais de ce vers qui saigne”, è l’espressione che meglio restituisce l’immagine del rapporto che Perros desidera intrattenere con il lettore. Une vie ordinaire e Poèmes bleus sono opere dal tono conviviale, in quanto creano uno spazio privilegiato per il lettore. La convivialità è cara a Perros: l’unica vera regola che esiste nella sua vita è l’attenzione e l’amicizia verso gli altri.

 

2.3 Un verso “senza valigie”

Come il tempo non si svolge con linearità, così anche il racconto ed i versi non possiedono una fluidità, al contrario la costruzione in sequenze per il racconto, e la scelta dell’ottonario per i versi, danno un aspetto alquanto caotico a questa “vita ordinaria”. La scelta dell’ottonario non è poi così ingenua, infatti la brevità del verso impone la rottura. Con l’ottonario, la sintassi non può combaciare perfettamente con la forma dei versi. L’ottonario, essendo breve, implica una necessaria concisione: non è difficile incontrare dei versi senza il soggetto o senza una mezza negazione. A volte si ha l’effetto contrario, un verso allungato da un tassello; come l’espressione italiana Chi lo sa”, che s’incontra sovente sia in Une vie ordinaire, sia in Poèmes bleus, senza alcuna apparente motivazione. Tassello alquanto visibile nella ripetizione, non necessaria, di una parola: “sans oser le pire le pire”, o “parce parce que Oui je jure / que ma vie est allée par là”, ripetizione che rimanda all’idea della balbuzie, come se vi fosse un’esitazione durante il discorso, oppure all’idea dell’insistenza; “le pire” sembra imprigionato, invece le “parce que” martella ossessivamente per convincere il lettore, sistema che va di pari passo con l’utilizzo del verbo “je jure” e l’uso del maiuscolo per “Oui” nel mezzo di una frase e di un verso. Il senso della ripetitività non dipende dalla lunghezza del verso, infatti in Poèmes bleus vi è un’insistente ripetizione che definisce in qualche modo un programma per l’autore: “Quand dirai-je bien ce qui est / J’espère y parvenir un jour / Je vis pour cela je vis pour”. Il verso breve, poco adatto all’eloquenza stilistica e alla coerenza formale tra sintassi e metrica, induce, a volte, ad una lettura erronea, ad associare gruppi di parole che non hanno nessun legame. Potremmo così leggere: “L’itinéraire qu’il me faut c’est le sien Je suis, sans valise, sa trace au fil de mon plaisir “. Leggendo “Je suis”, posizionato al centro del verso, seguito dal complemento “sans valise”, si può inizialmente pensare che si tratti del verbo essere. L’errore è svelato dalla virgola che distingue le due espressioni; questa confusione connota la condizione di privazione di Perros, la sua continua ricerca del “dépouillement”. Allo stesso modo, se non si fa attenzione alla punteggiatura nei versi, in Poèmes bleus: “le pire, le cruel, / L’inacceptable. / Le réel”, il ritmo va regolarmente decrescendo, e suggerisce l’idea di allineare l’ultimo verso citato sullo stesso piano progressivamente negativo degli altri versi, quando invece la punteggiatura indica chiaramente che “Le réel, / C’est l’imagination relayée, vérifiée”. Accade anche d’imbattersi su alcune costruzioni in cui la scarsa punteggiatura rende il testo alquanto ambiguo. Le virgole sono sparite anche se nel manoscritto originale erano presenti, come se, ricopiando il testo di partenza, Perros avesse voluto semplificarlo, spogliarlo di tutto il superfluo. L’assenza di riferimenti tipografici è anch’essa alquanto frequente; per esempio, le virgolette che introducono il discorso di un’altra persona sono omesse, come se lo scrittore volesse mostrare l’inaffidabilità o l’inconsistenza dei discorsi riportati. Questo genere di discorso diretto è presente anche nella sequenza su Valéry e su Gérard Philipe, o ancora in quella sequenza che inizia con “Ah mettez-nous donc du Mozart”: “Passez-moi du caviar ma chère comme il fait doux ici Mozart a si mal vécu de son art c’est dégoûtant Vous avez lu Le dernier roman à paraître Il est comme ci comme ça”. Il discorso indiretto dell’altro è una denuncia della sua futilità, frammento di una conversazione mondana estrapolato di proposito e ricopiato senza cura nella pagina scritta. Parola senza senso, ma allo stesso tempo necessaria per poter vivere con gli uomini. La sensazione di continue rotture è determinata anche dalla costruzione del testo in sequenze, ognuna delle quali può essere letta indipendentemente dalle altre, senza che la comprensione del testo ne sia alterata. Alcune di queste, comunque, iniziano con una congiunzione. Queste congiunzioni, che in nessun caso legano una sequenza con quella precedente, conferiscono una sensazione di vitalità al testo, come se il discorso che l’autore è in procinto d’iniziare fosse già l’argomento di una conversazione. Esiste, però, un’ipotesi più semplice, e cioè che, essendo stato nell’edizione finale modificato l’ordine del testo manoscritto, alcune sequenze legate tra esse dalle congiunzioni siano state in seguito coerentemente separate. La costruzione definitiva in sequenze è stata elaborata durante la pubblicazione; nella stesura iniziale l’ordine cronologico era ancor più tortuoso. Il testo era infatti stato scritto in due mesi, come se Perros dovesse liberarsi ad ogni costo da qualcosa, per poter continuare a pensare, a scrivere e a vivere. La scrittura quindi seguiva il corso dei ricordi senza alcuna impostazione cronologica. Nella prima versione, comunque, Perros aveva abbozzato un ordine sequenziale per tema: I Renseignements II ou III Scènes IV Les hommes V Les femmes VI Passions Mot Tabac Mer Del plan iniziale quasi nulla è rimasto nell’edizione che è stata pubblicata, tranne qualche sequenza che ha conservato il titolo; l’ordine delle sequenze è stato mutato seguendo l’associazione d’idee. Ad esempio, a una sequenza che si conclude con la domanda: “Et l’âge d’homme a-t-il un âge?”, segue una sequenza che sembra dar continuità al testo: “J’avance en âge mais vraiment / je recule en toute autre chose”. In questo modo, anche se il testo si presenta apparentemente slegato, l’opera mantiene una certa unità. Lo conferma anche la ripresa dello stesso tema in differenti passaggi, per esempio il motivo della nascita ricorre in cinque sequenze diverse, ma anche l’immagine de “l’homme dans l’escalier”, si incontra spesso: “L’homme qui rentre seul le soir chez lui mais chez lui n’a plus de sens […] C’est celui-là qui m’intéresse cet homme seul en clair-obscur qui se retrouve entre deux êtres non pas entre deux portes mais entre deux sensibilités […] entre deux eaux deux hommes femmes seul dans le noir de l’escalier”. Il tema è ripreso più avanti: “cet l’homme-là dans l’escalier dont je vous parlais l’autre soir voilà bien celui qui n’a rien que son squelette à transporter”. La stessa immagine si trova anche in Échancrures: “Ce que je veux dire, sans cesse, est très simple. C’est qu’il y a, tous les jours, quelque chose qui interrompt l’aventure sociale, sentimentale, intellectuelle, qui laisse son homme en plan, stupéfait, quel qu’il soit, quoi qu’il fasse. Il faut remettre ses bottes”. Perros dimostra una presa di coscienza dell’inutilità dell’esistenza, concezione visibile non tanto nella negazione della presenza nel mondo, quanto nell’affermazione del proprio carattere derisorio. Sorprendente il modo d’esprimerlo, sia in Une vie ordinaire, che in Échancrures, dove il tono risulta decisamente più ironico. Sembra quasi che Perros, sulla soglia della morte, abbia trovato finalmente sollievo da quei momenti tragici di assenza da se stesso, o dagli istanti d’ipersensibilità dovuti alla fragile condizione umana.

 

Conclusione

Lo studio intrapreso, nato per caso dalla lettura di una frase, mi ha permesso di conoscere, e in seguito di approfondire, uno scrittore interessante come Perros. La ricerca del materiale si è rivelata alquanto complessa: essendo lo scrittore quasi del tutto sconosciuto in Italia, i suoi testi non sono facilmente reperibili; sebbene apprezzato nel proprio Paese, le sue opere non sono considerate di largo consumo e quindi sono difficili da rintracciare. Devo comunque aggiungere che l’uso della tecnologia moderna, e in particolare l’impiego di risorse informative disponibili in Internet, mi è stato di notevole aiuto nell’individuare testi di critica e nel confrontarmi con altri studiosi di Perros. Ho iniziato questo lavoro come proseguimento di uno studio svolto durante i corsi universitari di francese. Le lezioni avevano l’intento di familiarizzare, far approfondire e divulgare la conoscenza di una scrittura atipica. Trovando interessante e, per certi versi, illuminante questo genere di scrittura, forte, incisiva e alquanto oscura, ho cercato di continuare questo percorso approfondendolo come esperienza personale, attraverso un cammino individuale che mettesse a frutto le conoscenze acquisite. Si può affermare con certezza che lo stile di Perros appartiene al quel genere di scrittura, infatti, la lettura e la comprensioni dei testi hanno richiesto un notevole lavoro di traduzione ed interpretazione, in quanto la scrittura non si presta ad una semplice lettura dilettevole. Dallo studio elaborato è emersa l’immagine di uno scrittore, attore, lettore, professore, ritrattista che ha dedicato la sua vita alla ricerca della parola “giusta”, liberata da qualsiasi imposizione, una parola riportata al suo significato originale. Sebbene vivesse isolato, lontano dalla superficialità della società, ha comunque mantenuto uno stretto legame con il mondo attraverso la scrittura. Aveva stabilito come luogo d’incontro con “l’altro” la lettura di testi di altri scrittori, soddisfacendo in questo modo il suo desiderio di ricerca della “presenza”, ma mantenendosi fisicamente lontano. Perché per Perros la lettura è un mezzo per relazionare con il mondo esterno. Per lui l’essenza dell’uomo s’incarna nella scrittura, ed egli cerca nel testo quella zona di silenzio e di segreto, presente in tutti gli uomini e di conseguenza nei loro testi. Perros, quindi, fa della sua opera letteraria un laboratorio sull’identità ed il mezzo per la definizione di sé come essere finito e contingente. “Ne pas dire plus qu’on ne voit plus qu’on ne sait plus qu’on ne sent c’est un métier très difficile car la fable est au bout du compte Deux hommes face à même chose La décrivent tout autrement Et combien d’hommes dans un homme ?”. Il programma della sua vita fu quello di mostrare la realtà d’una visione del mondo fondamentalmente personale e soggettiva attraverso la scrittura. Il suo linguaggio è segnato dalla continua ricerca della parola, dell’espressione più efficace. Si rende comunque conto della parziale riuscita, infatti afferma che la sua parola è “mutile” e i suoi versi “très contestable”. La lettura completa della sua opera poetica Une Vie ordinaire lascia il sapore di una serata in compagnia di un personaggio-poeta emozionante e forte, serio e divertente. Analizzando le sue opere, nasce spontaneo concludere che le raccolte di poesie hanno una loro precisa indipendenza dalle opere narrative di Perros. Tutto ciò che egli ha scritto: “note”, lettere e poesie, dimostrano un’ispirazione comune, ma le due raccolte di poesie si distinguono dal resto per la loro forma, come se la poesia costituisse il risultato ultimo della sua ricerca. La poesia, infatti impone una costruzione formale, mentre i Papiers collés sono una raccolta di note, strutturate come un collage, ed anche Les correspondances sono per loro stessa essenza discontinue. Attraverso il suo linguaggio privilegiato, la poesia, sebbene della sua produzione quella poetica sia la meno ponderosa, Perros dà l’impressione di rivelare maggiormente la sua visione del mondo. Dietro la frammentazione apparente dell’opera e dell’uomo, c’è nell’articolazione di ciò che scrive un’appassionata volontà di giustizia. Ed alla vita ordinaria, quotidiana e concreta risponde con una più astratta. “Pas à pas ramendons filet De notre vie imaginaire”. L’analisi da me svolta sui testi di Perros non può certo considerarsi esaustiva: sono molteplici gli aspetti di questo scrittore ed innumerevoli e complesse le tematiche affrontate. Esse attraversano tutta l’esistenza dell’uomo e dunque passano dalle banalità della vita quotidiana come potrebbe essere lo sport, alle riflessioni sul rapporto con l’altro o con la propria fede. Sarebbe quindi interessante continuare la ricerca, approfondendo in particolare le Correspondances, altro aspetto della mutevole scrittura di Perros, che dando corpo ad un’opera, in un certo modo, può considerarsi la trascrizione di un innato e mai risolto esprit de fuite.

Nota biografica


1.1 Nota biografica

Georges Perros voleva fare della sua vita un deserto, ma la sua presenza dimora nell’insaziabile sollecitudine del lettore, dell’altro. Moralista, lascia due raccolte di poesie, tre volumi di Papiers collés, svariate note di lettura e una notevole corrispondenza ancora da scoprire; niente che, secondo lui possa costituire un’opera letteraria. Sotto l’apparenza del caso, regna nella scrittura di Perros un’armonia eterogenea diretta dalle impenetrabili leggi interiori. Più che scrittore nel senso letterario del termine, Perros si definisce: “faiseur de notes invétérés“. Egli vede nei libri un luogo di lavoro che corrisponde ad un’assenza essenziale, e non ad un fine in sé. La sua scrittura, intuitiva e folgorante, ha trovato nelle “note” la sua forma privilegiata. Cerca di giungere al cuore dell’esperienza poetica per trovarvi un’originale “innocenza”, nell’intento di dare una forma, di esprimere, in qualche modo, il linguaggio liberato da ogni sovrastruttura, un pensiero primordiale spogliato da ogni convenzione. Perros ha scelto di restare al margine della vita e della scrittura. Ha vissuto l’esperienza letteraria come isolamento, ma soprattutto come straordinaria sollecitazione dell’altro, amico o lettore, dal quale riesce a suscitare il meglio. Ha scelto di vivere a Douarnenez, ma per lui la Bretagne è uno spazio spirituale: “continent d’esprit”. Il trasferimento del suo centro di gravità crea un allontanamento, una distanza necessaria per scrivere, per avvicinarsi agli altri. Ossessionato dal taciturno gusto di vivere, è sempre alla ricerca, e la sua opera ne è la dimostrazione, poiché essa è come scritta al margine di un libro impossibile da cui vorrebbe scaturire il senso, sussultare il segreto della scrittura, dell’uomo. Perros vive di quell’istante che fissa l’eternità, annullando la distanza tra la vita e l’opera. La sua scrittura, insieme movimento e incertezza, è paragonata ad una permanenza, come il finis terrae alla soglia del mare; Georges Perros è “passeur”, un uomo che accompagna, trasporta, conduce… * * * Nato a Parigi il 31 agosto del 1923, Georges Poulot trascorre la sua infanzia nel quartiere di Batignolles, poi a Reims e nei Vosgi, dove suo padre fu trasferito per lavoro. Comincia a suonare il pianoforte e frequenta il Conservatorio. A sedici anni prende lezioni d’arte drammatica a Rennes. Tra il 1941 e il 1944 abbandona gli studi e si trasferisce a Parigi dove frequenterà per tre anni dei corsi teatrali al Centre du Spectacle; conosce Gilbert Minazzoli e ne diviene amico. Assiste ai corsi di Paul Valéry e Vladimir Jankélévitch al Collège de France. Insaziabile lettore, incontra André Gide e Paul Léautaud, si lega a Louis Guilloux, Gérard Philipe e Marcel Arland. Collabora con il gruppo di scrittori dell’avanguardia: “les Lettristes”, firma il loro manifesto e scrive per la rivista “La Dictature Lettriste”. Intanto completa i suoi studi d’arte drammatica e debutta in teatro recitando la Celestina. Nel 1948 riceve il premio “Prix de comédie” che lo aiuta ad entrare alla Comédie Française, dove recita piccoli ruoli senza una reale passione; deciderà infatti, quasi subito, di fuggire dal teatro, detestando la “razza” degli attori. Va ad abitare a Meudon, dove frequenta Armand Robin. Al fine d’incontrare Jean Grenier , momentaneamente residente in Egitto, accompagna la compagnia teatrale al Cairo. Nel 1950 scrive la sua Lettre- préface che spedisce a Grenier, e abbandona definitivamente la Comédie Française. Entra a lavorare, grazie a Gérard Philipe, come lettore al Théâtre national populaire presso Jean Vilar. Nel 1952 confida alcune “note” a Grenier, che ne percepisce il valore. A sua volta Grenier, cosciente di trovarsi davanti ad uno scrittore di talento e con un profondo senso della vita, ritiene opportuno inviare il materiale visionato a Jean Paulhan; quest’ultimo decide di pubblicarle nella “Nouvelle Revue Française”. Da questo momento Perros diviene un collaboratore della NRF. I suoi scritti critici e le sue impressioni di “lettore” gli attirano l’attenzione e l’amicizia di André Breton, Robert Pinget, Roland Barthes, Pierre Klossowski, Michel Butor, Georges Lambrichs, Roger Judrin, Brice Parain, etc. Da questo momento, firmerà i suoi scritti utilizzando lo pseudonimo: Georges Perros, con cui sarà conosciuto dal pubblico. Incontra Tania, una ragazza di origini russe che diventerà sua moglie. Intraprende diversi viaggi in motocicletta verso e all’interno della Bretagna. Fra il 1954 e il 1959 condurrà una vita molto tormentata; i suoi soggiorni in Bretagna, dove alloggia in mansarde o in case fatiscenti, diventano sempre più frequenti. All’inizio degli anni ’58 va a vivere a Douarnenez, dove Tania lo raggiungerà. Nel 1960, le edizioni Gallimard pubblicheranno i primi Papiers collés, una raccolta di articoli pubblicati nella NRF e note varie. Realizza una trasmissione radiofonica di due ore sulla Bretagna e pubblica, nel 1962 Poèmes bleus, testo poetico a cui verrà assegnato, l’anno seguente, il premio “Max Jacob”. Dopo la nascita dei due figli, Frédéric (1961) e Jean-Marie (1963), sposa Tania e un anno dopo nasce Catherine (1964). Vive grazie a diversi espedienti: lettore di manoscritti per la T.N.P., pubblicazione di diversi articoli, lezioni di pianoforte e le traduzioni di Per Olof Sundman, di August Strindberg, di Anton P. Tchekhov e di Fernand Crommelynck. Sempre presso le edizioni Gallimard, nel 1967 pubblica Une vie ordinaire, lungo romanzo-poema in versi ottonari. Perde il suo lavoro di lettore al T.N.P., ma viene assunto come lettore alla Gallimard. Si reca a Milano, Venezia e Roma insieme ai suoi amici Lorand Gaspar e Michel Butor e di questa esperienza italiana restano interessanti tracce nei suoi Papiers. Dal 1970 tiene presso la Facoltà di Lettere di Brest un singolare corso di letteratura, da lui definito “cours d’ignorance”. Sempre con Michel Butor, nel 1971 si reca in Tunisia a trovare l’amico Loran Gaspar. Nel 1973 viene pubblicata la seconda raccolta di Papiers collés II, a cui viene assegnato il premio “Valéry Larbaud”. Di tanto in tanto ritorna a Parigi, ma continua a scrivere e dipingere ininterrottamente a Douarnenez. Nel 1974 gli consegnano il “Prix Bretagne” per l’insieme della sua opera. L’anno successivo si trasferisce in una piccola casa sul Plomarc’h, che domina la baia. Claude Rojet Journaoud gli dedica una trasmissione “Poésie ininterrompue” su France Culture, mentre Paul André Picton realizza una trasmissione per FR3; nel 1976 France Culture va in onda con: “Entretiens avec Georges Perros” de Jean Daive e Jean-Marie Gibbal, conversazione fortemente interessante, giacché Perros racconta se stesso, la sua esperienza teatrale, la sua vita parigina, la scelta di rifugiarsi in Bretagne, il suo amore per il mare, per le corse in motocicletta, ma soprattutto parla della sua scrittura, di come essa non abbia l’intento di aggiungere nulla alla conoscenza, bensì quello di ricondurre a qualcosa di più semplice, di più essenziale, da vivere insieme agli altri. Poco dopo, in seguito ad una diagnosi di cancro alla gola, Georges Perros subisce un intervento di laringectomia; segue una cura chemioterapica presso l’ospedale di Parigi, ma l’evento per lui più sconvolgente consiste nella perdita dell’uso della parola. Si rifiuta di fare una rieducazione logoterapica e torna a Douarnenez dove inizia a scrivere L’ardoise magique, dedicato a coloro che hanno subito il suo stesso intervento. Nello stesso anno pubblica Échancrures presso le edizioni Calligrammes. Nel 1977 la malattia si aggrava: durante il mese di dicembre subisce un secondo intervento. Il 24 gennaio del 1978 muore presso l’ospedale di Laënnec, a Parigi. Adesso riposa nel cimitero di Douarnenez, che domina il mare. Qualche mese dopo la sua morte, le edizioni Gallimard pubblicheranno Papiers collés III.

lor: #cccccc; font-size: x-small;”>a) Luoghi

Dalla biografia, dalle sue opere e la sua corrispondenza si evince l’originale personalità di Perros. Un uomo che per vivere si è allontanato dalla società restando al margine della vita, facendo della sua esistenza la scrittura, ma non una scrittura a cui siamo abituati a pensare: Perros non voleva dare informazioni, ma semplicemente condividere i suoi pensieri, le sue brevi considerazioni, infatti la sua scrittura è un insieme di “note”, di pensieri “incisi” sulla carta. Per una corretta analisi della sua scrittura, è importante soffermarsi sul suo modo di vivere: “J’écris toujours dans la marge, le texte n’est pas là … le texte n’est pas là. Alors le texte, eh bien, je dis c’est la mer, je dis c’est la terre, je dis … mais, j’écris toujours pour combler cette marge, non pas du tout pour entrer ni sur mer, ni sur terre, c’est pour combler cette marge“. Ha scelto di scrivere sul margine di un foglio e ha scelto di vivere al margine della società. Ha fatto della sua vita la scrittura, la sua e quella degli altri. * * * Perros nasce a Parigi, ma durante l’infanzia e l’adolescenza, per motivi familiari, si trasferisce spesso. A vent’anni ritorna a Parigi e vi resta dieci anni, ma vivere nella capitale gli crea un profondo tormento: viaggia molto, soprattutto in Bretagna, dove, a Douarnenez, scopre la sua residenza naturale; sarà lì che deciderà di trascorrere il resto della sua vita. Vivrà in Bretagna, ma il suo pellegrinare non si conclude: continuerà a cambiare spesso casa, sempre in continua ricerca di un qualcosa, di un “luogo”… “Je suis très impatient tout le temps… je suis impatient. Par exemple, en ce moment je suis là, mais je voudrais être … où ? ailleurs“. Le sue dimore avevano comunque le stesse caratteristiche, come racconta Jean Roudaut: davano tutte sul mare, erano tutte case fatiscenti, spoglie e decadenti. Per raggiungerlo, a volte, bisognava percorrere vie che diventavano sentieri, altre volte andare su per scalinate che ricordavano i borghi medievali e altre volte ancora andare al limite del villaggio. Perros non si vantava dei luoghi, ci viveva con indifferenza, come se fosse stato messo lì e poi spostato dalla marea delle circostanze. Non si installava mai veramente nelle stanze in cui viveva, né manifestava mai il desiderio di volersi fermare veramente a lungo: non sistemava mai i suoi libri, non si preoccupava della montagna di polvere, né tanto meno di mettere in ordine le pile di quotidiani che a volte fungevano da sedia. Si era sicuri però di trovare, sopra una sedia, la radiolina per ascoltare soltanto qualche concerto o opera di Bach e Monteverdi. Perros usava tenere sempre sopra le ginocchia un taccuino: in ogni momento avrebbe potuto scrivere qualche “nota”. Fra i libri si trovavano dei disegni, delle cartoline; su di un tavolino le penne stilografiche, le pipe, delle conchiglie e delle pietre. “La chambre, dans la lumière grise, est un lieu […]de “passage”. Il est difficile d’y demeurer; le visiteur tend la main vers un livre, caresse un galet, ou joue avec les poinçons et les repoussoirs pour se convaincre qu’il est toujours là. Car la pièce est un lieu d’incertitude. Ce n’est pas au bout du labyrinthe des rues, une pièce royale et protégée, mais une image, en un miroir prodigieusement concave, du monde, sans cesse se défaisant, et de l’homme malade d’une maladie essentielle, qui est son être même“. A volte lascia la casa per viaggiare, va a Tunisi, a Venezia, a Milano, a Quimper, a Bordeaux, a Parigi, a Brest. In realtà è uno straniero, un uomo senza terra, senza proprietà, passeggero, un uomo che non vuole mettere radici. Una pipa, un cane, una donna amata e dei figli vezzeggiati, nient’altro che si possa possedere materialmente. Non si vanta però di non possedere nulla. Spoglio, senza passato e senza rancore, continuamente in marcia, libero.

b) Metodo di lavoro

L’immagine che si trae dai suoi scritti è quella di un uomo nella continua e incessante ricerca degli altri, che osserva e cerca nei comportamenti di ognuno, la parte di poesia presente in ciascuno, attento, durante qualsiasi tipo di lettura, alla “voce”, la stessa che sfugge all’autore. Perros afferma che comunque non tutti la possiedono, come non tutti i lettori sono in grado di udirla. Questa “passione” nel fissare lo sguardo, la voce, la parola scaturita da un incontro, spinge Perros non solo ad utilizzare la penna, per redigere le sue note, ma anche matita e carboncini, per fissare attraverso una forma, un disegno, l’esperienza intima di quell’incontro. Nascono così una serie di ritratti realizzati con gessetti, carboncini, forme su carta, o incisioni su rame. Il suo interesse non è quello di rappresentare i volti come nature morte bensì di proporre dei volti con chiare “citazioni” o “allusioni”. Perros non considera la scrittura, e particolarmente quella poetica, come un’espressione di idee o di pensieri riducibili a formule, piuttosto uno stile, un modo di essere, irriducibile. Da ciò nasce il suo bisogno di osservare i volti di coloro che “pensano”, “car les regarder, c’est se regarder les regardant”, di incontrarli e quindi di fissarli sulla carta per continuare a comunicare con loro. Si può affermare infatti, che la lettera è la forma privilegiata del testo di Perros, e i suoi libri sono una forma particolare di epistolario; ciò che non si riesce a dire, secondo Perros, nell’intimità, lo si può proclamare al mondo grazie alle lettere; una raccolta di lettere può diventare così la via indiretta di una parola “particolare”. Georges Perros scrive fra due sentieri, l’andare e il tornare più volte, al margine di ciò che non è detto. I pensieri annotati e i fogli incollati formano un libro, che non è un assemblaggio di massime o di frammenti, ma costituisce una sottile cornice appena appoggiata sul bianco della pagina, un quadro per una parola assente. L’autore, in qualsiasi momento sa perdere il filo. La sua caratteristica stilistica è un’arte della rottura e del taglio. Si tratta di non lasciarsi condurre dal discorso, di non disturbare il silenzio, ma di farlo percepire. Questo è il ruolo di Perros: lasciare intendere ciò che trama dietro le nostre parole e nel nostro profondo. Un testo, per lui, non si migliora correggendolo o perseguitandolo: esso è vero o falso, giusto o sbagliato. Tutto sta nel tono. È inutile continuare se la voce non è presente fin dall’inizio. Il tono di Georges Perros mostra una profonda familiarità con se stesso e una incuranza delle circostanze esteriori: tutto… ma poco importa. “Je ne dis pas qu’il pleut s’il pleut. Je dis qu’il pleut quand j’ai de la pluie plein la peau, quand je plie sous un orage inexistant“. Il quotidiano non è quello dei gesti, ma il mondo della paura, dell’interminabile grigio delle nuvole. Per Perros, è necessario che il linguaggio abbia viaggiato attraverso il labirinto del nostro corpo, disceso i vulcani fino agli antipodi del nostro essere, che conosca le malattie e le eruzioni. Alla fine sarà un po’ sofferto, bruciato, ma sicuramente febbrile. Può portarci alla memoria ricordi ormai dimenticati. Così è impossibile instaurare un sistema di vita, costruire un codice morale teorico, qualificare attraverso un racconto continuo una situazione. Il pensiero si sviluppa contro l’esistenza, in quanto ne è dipendente. Lo scrittore si mantiene sempre distante dalla sua parola. Dal momento in cui essa tende a svilupparsi nel discorso, egli la frantuma. La frase resta nuda, straziante ed urlante. “L’esprit ne souffre pas la vie, qui est sa grande ennemie, son remords. Et son principe“. La letteratura è riabilitata da alcune costanti e da alcuni discreti omaggi: “Est écrivain tout individu qui n’ose pas vivre franchement. Tout écrivain valable est en mauvaise santé (rien à voir avec la santé physique)“. L’uomo si risveglia solamente quando si scopre dispiaciuto d’essere nato, e disperato perché incapace d’accettare i suoi limiti. La salute è quella del sonno, della soddisfazione. La letteratura aiuta essenzialmente a vivere male: “Écrire, ce n’est pas guérison; c’est exagération du mal“. Secondo Roudaut, Perros non si fa “complice” delle parole, anzi le costringe, le stringe, fino a quando non producano qualche chiarore; poi le abbandona, senza alcuna tenerezza. Il suo sguardo ombroso sulla vita lo induce a diffidare delle illusioni liriche: sta attento alla frase, la spia, evitando che questa scivoli nell’astratto, e lascia che le parole maturino, scintillino, producano immagini. Egli esige dal linguaggio, ciò che esige dall’esistenza; rifiuta l’abbandono, la superficialità. Si spiega così sia il suo gusto per i personaggi “pericolosi”: Kleist, Baudelaire e Valéry, autori che stima oltremodo, ma nei confronti dei quali nutre una certa diffidenza per la cura, secondo Perros, eccessiva dell’aspetto formale.

c) “professeur d’ignorance”

Noi non vediamo ciò che ci è vicino. Il mondo quotidiano ci sfugge. Le nostre abitudini rimangono sconosciute. Noi non sentiamo la nostra voce. Viviamo con negligenza la nostra vita fino a quando uno sconosciuto non viene a disturbare il nostro tepore. Ci risparmia un viaggio. Veste come noi, impiega le nostre parole, vive fra noi, ma tuttavia grazie alla sua presenza la nostra esistenza non è più la stessa. Ciò che per noi era trascurabile diventa essenziale. Colui che ci apre gli occhi non insorge contro la mediocrità della realtà umana, contro l’insignificanza della nostra condizione: egli constata ed afferma. Egli non si isola, partecipa. Non sfugge le cariche comuni nei sogni o nell’eloquenza, ma spinge fino al limite la prova di lucidità. Smascherandosi ci smaschera. Noi teniamo talmente tanto alle nostre banalità che non gli perdoniamo facilmente l’averci “risvegliato”: come sorreggere una parola “giusta” quando ci si sforza di parlare una lingua nobile, che è fuga e dissimulazione? Perros non crede in una letteratura pazientemente costruita. Scopre ogni mattina il vocabolario usuale, come un bambino che fa l’esperienza degli oggetti, con diffidenza e perseveranza. Vuole parlare più da vicino delle sue radici. Nessuna preoccupazione del bello, del successo, ma della rottura e dello strappo. Quando acquisisce le parole, le getta in mare, perde il nord. Egli, nei suoi scritti, opera con le nostre parole, la loro diversità, la loro familiarità, la loro banalità, le nostre espressioni umili e tenere, ma trasformate e rese udibili. Si tratta del nostro mondo e dei suo paesaggi, noi stessi con i nostri tic, ma visti per la prima volta da uno sguardo semplice e acuto. Scrivendo, Perros non ha lo scopo d’insegnare, di fare critica letteraria o di spiegare i testi, né di dipingere, ma gravando i testi e scrutando i volti, il suo intento è quello di raggiungere ciò che ci rode e di restituire alla morte un po’ della sua banalità. Scrivere è lavorare per separarsi, lavorare per la morte. Perros dedica tutto il suo tempo alla disperazione; nessuna attività lo distrae dal suo faccia a faccia, non tanto e non solo con sé stesso, ma con la nostra condizione di vita. Voleva rendere la morte più discreta e meno scandalosa. In Faut aimer la vie, Roudaut spiega come le note di Perros ruotino intorno a tre interessi: “autre-écrit” (ogni testo è una meditazione sul linguaggio, non un’analisi della sua materialità, ma l’evocazione di un “retro” testo implicito e pulsante), “autre-féminin” (lontano dal mettere fine alla solitudine, la coppia ne è sensibile), “autre-mort”. Tre forme essenziali. Per evitarle, bisognerebbe non scrivere, non amare, non sognare. L’esercizio della letteratura, l’incontro con le donne, la fede in Dio mostrano l’aspetto negativo della realtà dell’uomo. Egli, infatti, è un individuo in tormento, Perros lo afferma senza nessun dubbio, tanto meno con orgoglio, ma come una evidenza, una verità quotidiana di cui si stupisce con ironia e rassegnazione, non c’è niente da trattenere dalla letteratura né dalla vita. Intenzionalmente, mal incollati, i suoi fogli volano al vento.

 

1. 2 La parola di Perros tra scrittura e lettura

 

Uno dei tratti che più caratterizzano il pensiero di Perros è la sua avversione verso gli accademici e verso i loro discorsi “cultivés et heureux de l’être“. In tutto il percorso di Papiers collés, un tono alquanto sarcastico che rende evidente questa presa di coscienza. Sono frequenti i sillogismi del tipo: “ça pense donc ça suit”. Ha sempre sofferto dell’eccesso di distanza o al contrario della troppa vicinanza per poter percepire da vicino ed allo stesso tempo in modo distaccato lo sguardo incessante del lettore. Per celare ed allo stesso tempo svelare le sensazioni troppo coinvolgenti o passionali che questa relazione gli suscitava, si è pronunciato spesso sul testo, con dei laconismi, rotture costanti, l’uso di una parola frastagliata, fino ad arrivare all’uso dell’ellissi. Questa etica e questa estetica da breve incontro, della folgorazione senza sviluppo, è stata una delle sue strategie per permettersi di continuare a dire, senza in realtà dire, nascondendosi dietro una maschera. L’accademico preferisce in generale ostentare visibilmente protezione e veli: non parla se non è debitamente protetto da testi o commentari altrui e amplificazioni retoriche. Sebbene le tecniche siano diverse, anch’essi, come Perros cercano di mettere ordine nel rapporto tra passione e paura con questo gioco costante tra il celare e lo svelare. In Perros lettore, scrittore nel margine del testo di coloro che ha “e-letto”, la sua passione predominante sembrerebbe quella della fuga e del nascondino: “je crois bien que j’ai tout fait – sans le vouloir – pour m’éviter“; “envie de me cacher […] je me dépêche de rentrer, de me cacher, d’être seul“; “il y a en moi un type qui a très vite eu envie de se cacher. Ou plutôt: de ne pas être dans le champ. Invisible. J’y suis presque parvenu, ce n’est pas facile“; “j’ai besoin des autres et de leur chaleur. Mais à distance. À distance“. Nelle sue opere troviamo spesso espressioni similari: sempre la stessa fuga dallo sguardo e dal contatto dell’altro. La sua paura e la sua passione di nascondersi hanno guidato la sua vita, lo hanno condotto al teatro, “un comédien, c’est un homme qui se cache, qui a peur“. Gli stessi sentimenti lo hanno spinto ad abbandonare Parigi e lasciare la commedia teatrale, per condurlo in Bretagna, dove ha vissuto una vita di reclusione, in una casa dalle finestre chiuse. Perros ha tutti gli atteggiamenti di un uomo fobico, mosso da una grande paura e allo stesso tempo da un intenso desiderio dell’altro: unico rifugio la lettura, il mezzo per relazionarsi che più lo soddisfa. Cerca nel libro la presenza e l’assenza del corpo che lo rassicurano, mantenendosi così fisicamente lontano dall’altro, che tanto lo spaventa. L’incontro con la scrittura e i testi di altri gli offrono la possibilità di colmare il suo desiderio di incontro senza doversi impegnare a costruire un rapporto troppo “proche”. Non si tratta quindi di relazioni che richiedono un gioco di costanza fedele, piuttosto di momenti vacillanti, che comunque comportano una messa a nudo della coscienza. Leggere sarà allora cercare di incontrare l’evidenza segreta che scivola in ogni frase, che gli dà forma e allo stesso tempo sembra sfuggire di mano. “Vous chercheriez en vain les mots: solitude, destin, angoisse, désespoir, absurde… inutilisable. Toute approche du feu central étant corrigée par une autre, un mot trop chargé vite délesté entre parenthèses. On cerne la bête. On ne la tue pas. On rectifie le tir à mesure qu’elle nous échappe. À quoi bon ramasser un cadavre !” C. Burgelin paragona Perros al cacciatore o al pescatore, infatti per pescare o per cacciare occorre preparare gli attrezzi adeguati: amo, lenza o fucile, e studiare il modo per colpire la preda; nella scrittura, invece, bisogna liquidare la retorica, ogni schema precostituito, scardinare ogni tipologia di struttura: eliminare ciò che ostacola questa cattura furtiva in una caccia senza selvaggina. Niente spiegazioni. Zigzagare se è il caso. Il paragrafo spesso iniziato con un’idea si conclude con altro contenuto. Perros, protetto e nascosto nel suo rifugio, tira fuori la parte selvaggia, indomabile, quel che del paragrafo è impossibile catturare in un testo, in cui posa le sue invisibili reti o i suoi “mots furets”. Ma ciò che sfugge e si nasconde corrisponde a ciò che si dovrebbe catturare. “Un homme qui parle, ou qui écrit, nous échappe toujours“. Tuttavia in questa fuga, si vede che Perros attribuisce agli altri la sua stessa struttura fobica : bisogna incontrare l’autore. Questo spirito di fuga, è il punto centrale, il sistema nervoso non tanto dell’opera quanto dell’autore, infatti Perros non è un rigoroso esaminatore di opere né di strutture, piuttosto un appassionato dell’esperienza interiore dell’autore e del suo rapporto con la scrittura. “Écrire, c’est être certain d’une chose indicible, qui fait corps avec notre fragilité essentielle“. È questa crepa, questa linea invisibile di rottura tra il verbale e il corporale che egli cerca di circoscrivere. “D’où viennent tous nos maux, toutes nos félicités, sinon de cette chose que nous avons à dire et ne disons jamais ?” Per Perros, si tratta di nominare l’innominabile, ciò che è impossibile enunciare, che ha una voce e che, normalmente, sfugge all’autore come al suo lettore. È questo luogo incandescente nascosto o questo buco aperto, sul quale forse vi è una voragine, che danno alla scrittura la potenza o la musica o l’artiglio o il ritmo. “J’écris dans les trous“. Ciò che attende dalla lettura, forse è proprio quel momento in cui si lascia la presa e si dà spazio alla musica, alla potenza, alla “voce”, il momento asociale, quello dell’uomo vero, quindi, per Perros, quello dell’uomo solo. “C’est dans la solitude (définitive) qu’un homme pense le vrai de sa pensée. Le nu de sa pensée qui disqualifie tout le reste “. ” Il n’y a qu’un moment qui m’intéresse chez l’homme, quoi qu’il fasse ou soit, c’est celui où il se retrouve seul, soit sur un banc de square, soit dans les chiottes, soit sur un lit d’hôpital. Et ce qu’il fait de ce moment“. In letteratura come nella vita, è alla continua ricerca del passaggio di quei momenti di deserto, quegli stessi momenti che ci danno forza: “la perpétuelle solitude qui nous meut, qui fait notre énergie”; “sans la littérature, on ne saurait ce que pense un homme quand il est seul“. È evidente che una simile esperienza pone in essere una personalissima dialettica della distanza: restare distante, mantenere le distanze, per essere più vicini all’intimo, a ciò che non può ridursi, a ciò che non si può addomesticare. Infatti quel che più lo affascina negli uomini è la zona fra il silenzio e il segreto, così come in un testo:
Toute oeuvre d’art est […] conçue autour d’un silence, du silence qui sait, mais garde le secret pour permettre au mensonge qui l’appréhende, qui le tisse à l’envers, dont il est le support, de lui ôter toutes ses ceintures“.
Ma questo silenzio e questo segreto, devono restare tali in presenza di un essere umano per eccellenza come un’opera d’arte vera:
J’aime et j’en souffre, sentir un homme retenu, et incapable de se donner au maximum devant moi (ou tout autre). Qui n’est pas passionné, délirant devant moi“. Perros vuole incontrare l’uomo “a nudo”, spogliato da tutto, libero da eventuali costrizioni mentali e sociali, cioè l’uomo nella sua primordiale essenza.. L’uomo a nudo, è un uomo che ha un corpo – pesante, materiale, umorale, un uomo che cammina. Esiste una tale similitudine tra la scrittura e l’uomo che leggere i corpi vuol dire leggere i testi:
Pourquoi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, me laissent-ils à penser (oui) qu’ils ont fait ce que tout le monde est bien forcé de faire (même l’amour) alors que pas du tout ces messieurs Claudel, Perse … surtout s’ils se mêlent de faire état de leurs diverses passions, outrageusement lyricisées. Le langage, puisque aussi bien nous y voilà enlisés, s’il ne traverse pas toutes les couches des vingt-quatre heures qui nous sont allouées – non à louer – à quoi servirait-il ?
Leggere quindi permette di conoscere questo corpo in modo non solo materiale. I corpi legati dalla stessa miseria o goffaggine fisica possono incontrarsi al di là del loro corpo. Ed è questa verità del corpo, non squallida, ma eccessivamente banale ed inadeguata, che bisogna saper giudicare e nominare. Questo corpo abbandonato, lo si incontra soltanto in un linguaggio di solitudine, che non si trova nella mera scrittura ma oltre, nell’ascolto, quindi, della “voce”: “ce n’est jamais au langage des autres que j’ai fait appel. C’est à la solitude de leur langage, j’entends, leur langage d’avant et d’après l’écriture, celui qu’eux-mêmes ignoraient mais avaient sur le bout de la langue“. La lettura è, per Perros, sia un momento di separazione, sia, successivamente, un momento di riunione, che avviene ad un altro livello in quanto i due aspetti si sono mutuamente arricchiti. Perros, lettore profondo di Valéry, ama citare: “Penser, c’est perdre le fil“. Perros lettore, attento osservatore del filo testuale, utilizza l’arte di perdere il filo, di fare qualche buco nel ricamo del pensiero per ritrovarvi il filo segreto: “C’est de toute manière, quoi qu’on lise ou qu’on écrive, se retirer“. Si ritorna, così, sempre alla figura di un uomo nascosto, di un uomo in esilio, con cui Perros si vuole sempre più identificare. Esilio che può giungere all’annullamento di se stesso: “Je me suis de trop […]. Je ne travaille pas. Je suis travaillé“. Quando il “je de trop” è assente, come se fosse dissolto, si ha una sensazione di angoscia, ci si sente tormentati, usati dalle parole altrui. Durante la lettura si giunge a captare il corpo dell’autore ed allo stesso tempo si viene captati da questo; ciò farebbe supporre un ritiro, una sparizione del corpo del lettore. Si capisce perché Stendhal ha sedotto Perros, l’uomo delle maschere, dai svariati pseudonimi, continuamente in gioco con l’identità. Per Perros, egli incarna una specie di etica ideale, “cet homme extraordinairement contemporain de lui-même”, sempre“impatient de libérer les oiseaux de son discours”. Lo considera capace di cogliere qualsiasi situazione nel suo aspetto centrale “lui, Stendhal, le premier à isoler d’un langage aux rapports usés; le premier à dévoiler en franche et brute luminosité ce que le phénomène de vivre écrase ou fausse“. Questa lettura realizza ciò che meglio appaga Perros, cioè il meraviglioso paradosso d’una traccia evanescente “Stendhal, lecture faite de l’œuvre, lecture oubliée, mais persistant en sa trace légère, turbulente comme sillage de bateau sur la mer“. Questo suo interesse per Stendhal, per uno scrittore che parla da vicino, mette in luce in Perros il desiderio opposto alla solitudine. Egli, infatti, che ha sempre temuto la vicinanza, qui invece celebra quel “tatto-contatto” in cui tutte le distanze dall’altro e dal tempo vengono abolite. “Je ne supporte plus – de loin ou de près – que les hommes qui ont le sens du “toucher”, qui savent faire quelque chose de leurs dix doigts – les musiciens de l’espace“. Stendhal, Barthes e qualcun’altro sono i musicisti di cui parla. Parlare da vicino suppone avere una totale libertà con il linguaggio. “Critique. Parler de Baudelaire, etc., comme il se parlait à lui-même“. Per Burgelin è appassionante vedere, come Perros per diventare un uomo dal ” tocco ” delicato, sia indotto a suonare in staccato la musica della lingua. Fino a giungere, a volte, molto lontano con dei minimalismi e con delle ellissi, come per esempio in alcune “note” su Kleist: “Kleist. Galop de cheval. Poussière (grecque). Sperme (odeur)“. Egli stesso ci fornisce la sua chiara visione del lettore : “Les meilleurs lecteurs sont ceux qui ont renoncé à toute ambition d’écrire“, infatti Perros non si definisce uno scrittore, non ha quella ambizione. Egli scrive semplicemente delle “note” al margine del foglio. “Si j’écris c’est dans la marge, le texte est ailleurs“, comunque anche se scrive nella part marginale del foglio resta sempre attento a: “empêcher les mots de faire des petits dont ils seront fiers“. Bisogna ritornare al soliloquio, quello vero, che accoglie la necessaria incoerenza del discorso, come in questo seguito di note formalmente dislocate, ma che si pigiano, concatenate da una singolare urgenza : “Parole sans référence. Brute. Ignorante. Source. Traversée de couches géologiques. Ce qu’on demande au trajet. L’écriture poisse. Greffe. Distance. Changer. Leiris taureau. La distance, langage bloqué. Mon voisin. Rester à bonne distance du lieu de métamorphose. Sentir qu’on écrit faux…“. Tutto sta nel trovare il ritmo giusto, quel ritmo da cui proviene ogni musicalità: “[le rythme] d’où nous viennent ces rythmes, ces cadrages respiratoires qui nous forcent à obéir à leur exigence musicale, et nous font croire que tout le monde parle non pas tant en vers que soumis à une mystérieuse métrique qui les caractérise plus et mieux que leurs paroles mêmes?” Nelle opere “forti”, bisogna sforzarsi di scoprire quella metrica tanto travagliata quanto segreta: “Toute oeuvre de haute race voile l’évidence d’un poème. Sans lequel, rien. Ni Discours de la Méthode, ni Chartreuse de Parme ni Guerre et Paix. Tenter d’isoler ce poème en éliminant tout ce qui l’empêche”. Dietro la retorica si cela il ritmo, la respirazione stessa del corpo. Esiste in Perros lettore la speranza di trovare una respirazione, nel senso stretto del termine, nel ritmo della parola scritta da altri. Vivere qualcosa, una ebbrezza o una eccitazione attraverso questo ritmo di qualcun altro. La scrittura di Julien Gracq gli offre questo “giubilo” o questa “scottatura”: “Il y a dans la prose de Gracq comme un cliquetis d’armes, sa phrase est chargée – charge émotive – et fait soudain craquer le texte entier, comme le dégel un étang. Il y a emportement, l’alcool métaphorique emporte le linéaire, l’enivre. On pourrait donc ici parler d’érotisme, au sens plein de ce terme extraordinairement galvaudé. Un fil électrique parcourt, fait vibrer, résonner, le cœur des mots, allumés ici et là, et le regard s’en trouve comme enchanté, quasiment “féminisé”; l’oreille alertée par une rumeur de fête lointaine, à figuration magique“. La gioia del lettore – ed egli non smette mai di ricordare che leggere è un piacere – è quella gioia legata ad un respiro felice, è quella che secondo Perros proporrebbe Jean Grenier: “œuvre chantante, notes timbrées à partir d’un neutre légèrement mouillé, parole haletante, suspendue, anxieuse d’en trop dire, de trop se livrer, mais dans le même temps, soucieuse d’atteindre la zone du “juste assez”, suggérant plus que proférant, essentiellement honnête, craignant de trahir sa fêlure, et ne se laissant faire ou défaire, ne s’abandonnant qu’au contact, si j’ose dire, d’un émerveillement d’ordre naturel, ou surnaturel, c’est ici la même chose“. Respirare come gli altri, respirare nell’altro. Forse è qui la speranza di ogni vera lettura, cioè quella inspirante, quella che accetta d’essere investita dal ritmo altrui: “Un simple petit Corot, un intime Vermeer (…) respirent au-delà de la soufflerie humaine, pulmonaire“. Per sapere respirare così divinamente, è opportuno sviluppare le proprie capacità recettive: “Jean Grenier se comparait volontiers à une éponge“. Perros sembrava affascinato dall’idea di una specie di spugna nascosta in ognuno di noi, la spugna polmonare. Stupefacenti sono le immagini che gli ispirano Barthes e la sua scrittura. “L’être, non tant pacifié, réconcilié – avec quoi, avec qui? – qu’équivalent à tout ce qui peut lui arriver, dans cette imbibation propre à l’éponge, dans cette étrange humidité ou moisissure, qui est comme le chant secret du mystère, qui suppure. Moitie“. “Moi” e “toi”, io e tu rappacificati e riconciliati; l’uno e l’altro, metà. Con Barthes, “on respire en mesure, à hauteur du corps“. Pinget è un autore dal respiro largo: “[il] respire bien. La respiration, tout est là. (…) Et on devient sensible à la respiration des autres. (…) Au lieu d’écouter ce qu’ils racontent, on regarde leurs mots, on les bat en mesure. Et on regarde aussi les siens, pourquoi pas“. L’opera di Joubert “respire légèrement”. Jules Renard, gli offre il paradosso di una scrittura che trova bene o male, il suo soffio, ma che allo stesso è capace di tirare un canto da lasciare senza respiro: “Toute son œuvre respire à peine, toujours à deux doigts du figement, de la paralysie. Mais c’est bien dans cet infirme jeu entre la chair de l’être et l’os du cadavre qu’elle trouve son chant tragique, et du coup, échappe à son homme“. Vista l’assenza di pesante materialità, grazie a questa leggerezza la frase respira e, con lei, il suo lettore. Il testo dell’altro dona letteralmente vita. Perros, in rapporto a questa capacità di “respiro”, considera in ambito teatrale come autori maturi Gérard Philippe e da Jean Vilar, nella scrittura narrativa Stendhal e nella scrittura poetica Mallarmé. Da una lettura bisogna essere “organiquement touché” , così solo possiamo congiungerci al corpo dell’altro-autore. La frase a questo punto diventa tramite tra il lettore e l’autore. Essa ci permette di assorbire le parole, le frasi, il corpo dell’autore. Per Perros bisogna poter essere direttamente inzuppati di parole degli altri “j’aime boire”, essere una spugna che assorbe. Riempirsi dell’altro, colmare il vuoto. Perros scrittore – lettore, comunque resta un uomo ricco di contraddizioni, infatti, si lascia colmare, come una spugna, dei tanti autori da lui letti e, allo stesso tempo, vive in una sorta di fuga perenne dalla “presenza” degli altri. “J’aime le zinc d’un bistrot, c’est une manière d’approcher les hommes à distance, de les entendre, de les voir, sans risquer d’être pris pour autre chose qu’une forme d’homme en transit“. Il retroscena è il suo luogo naturale : “Je suis un homme essentiellement “coulisseux”. Je déteste être sur scène, j’ai horreur d’être dans la salle. Mais je me trouve très bien à deux doigts de l’un et de l’autre“. Contemporaneamente distante e vicino, presente e assente. Si capisce così la necessità, per questo “contrebandier de la littérature”, di utilizzare la “nota”, la postilla. Conciso per suggerire un incontro, insieme inconsistente e incandescente. Da questa assenza di pesante materialità, da questa leggerezza, la frase respira e con lei il suo lettore. Il testo dell’altro dona letteralmente vita.

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Premessa

Premessa
Quando un incontro colpisce. A volte basta una semplice frase perché questo avvenga, infatti così è stato. Leggendo Come un romanzo di Daniel Pennac si è realizzato un incontro-scontro con “la lettura, resurrezione di Lazzaro, sollevare la pietra della parola” 1 … Mi sono chiesta chi avesse mai scritto questa frase e perché. La nota indicava: Échancrures di Georges Perros. Pennac, nel suo saggio, descrive Perros come un professore universitario che teneva dei “cours d’ignorance”, durante i quali, per la maggior del tempo leggeva; non spiegava, ma leggeva, leggeva di tutto, passando da un autore classico ad un altro e poi, concluso il tempo della “lezione”, continuava a leggere per i suoi studenti nei bistrot. In quel momento ho pensato di avere incontrato uno scrittore interessante. Ho iniziato a leggere i suoi libri. Gorges Perros, professore universitario, scrittore e lettore di professione, è un personaggio abbastanza conosciuto in Francia, ma il suo vivere ai margini della società non lo ha certo aiutato ad essere famoso, anche se questo pensiero non lo ha mai interessato. Ho deciso di dedicare alla sua opera questo mio lavoro di ricerca, nell’intento di penetrare nel suo universo e di familiarizzare con la sua scrittura forte, incisiva, ma insieme alquanto enigmatica, per contribuire alla diffusione degli scritti di Perros in Italia. La mia indagine, attraverso un’esplorazione della scrittura di Perros, vuole mettere in luce alcuni aspetti della sua produzione letteraria: l’utilizzo di una scrittura diversa dai canoni a cui siamo abituati. Una scrittura fatta di frammenti, note, aneddoti, esercizi di traduzione ed interpretazione, una scrittura che non si presta certo ad una lettura di diletto, ma che richiede una disponibilità ad entrare in un universo singolare, personalissimo. Perros sperimenta un’ansia-tormento, “les affres du style” per usare l’espressione di Flaubert, deciso a trovare la parola “giusta”, ossia la parola che renda giustizia, che sia cioè in grado di eliminare qualsiasi traccia di inessenziale dalla sua scrittura; la capacità di scandagliare le possibilità del linguaggio alla ricerca di una parola espressiva, non scontata, non abusata e svuotata dal suo significato originale: una parola “pura”. Perros è uno scrittore che ha vissuto ai margini della società ed ha scritto ai margini dei libri, redigendo su qualsiasi pezzo di carta note, frammenti, spunti e aneddoti, raccontando la quotidianità perché, secondo lui, lì si cela l’essenziale. Questa sua marginalità, il suo rapporto atipico con il mondo e la società letteraria può certamente avere influenzato le sue decisioni, come l’abbandono del teatro e della capitale francese per rifugiarsi in un paesino della Bretagna, bagnato dal mare. Lettore di professione, ha dato fiato alla “voce”. Alla voce del libro, che prende vita nel momento in cui qualcuno la sente leggendo un testo. Perros-scrittore, scrive la sua “voce”. Perros-lettore, legge e sente la “voce”. Perros-uomo perde la voce, porta sempre con sé una lavagnetta, la sua “ardoise magique” 2 . È un uomo per nulla disperato, perché finché c’è un pezzettino di carta, ha modo di dare fiato alla sua “voce” e ascoltare quella degli altri. ooo

1 – Daniel Pennac, Come un romanzo, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2001, p. 45. (retour)

2 – Titolo della sua ultima opera, dedicata a coloro che hanno perso la voce per un intervento di laringectomia. Scritto durante l’ultimo anno di vita. (retour)

Georges Perros, da Une vie ordinaire, Gallimard 1962

Ho qui sul tavolo una cesta
da dove pende un nastro
di macchina da scrivere Arriva
da un cassetto che conosco bene
mi affascinava da piccolo
Ai bambini piacciono i cassetti
Ci trovano di che sognare
di che farsi male prendendo
un paio di pinze per un uccello
I miei genitori hanno tenuto i mobili
su cui mi arrampicavo bambino
casomai mi venisse voglia
di un cassettone di mogano
stile novecento orribile
Adesso mio padre è morto
e mia madre ha spedito
quello che lui aveva lasciato
nel famoso cassetto Dice
che se questa roba mi può servire
non si sa mai sono vecchi
ma tu che scrivi costano
questi nastri vellutati rossi e neri
Il lutto che non ho portato
non è né rosso né nero Lancinante
Mio padre è morto accompagnato
da tre o quattro sopravvissuti
al disastro che ci aspetta
nel cimitero di Fruges
paese dove è nata la mamma
settant’anni fa o quasi Non ho memoria
per le date né per i calendari
Vivo in un mondo che non ha ore
o giorni anni è difficile
da spiegare Mi piacevano gli anni
quando andavo a scuola
prima che mio padre fosse nella tomba
e insieme mi desse
un po’ più voglia di morire
o di vivere più intensamente
come se ormai niente importasse
(Cosa mi resta di mio padre
se non certi modi che ho
e mi stupisco di avere
un timbro di voce un’inflessione
che m’impedisce di vivere
senza fare atto di eredità
E mai avrei pensato
di parlarne al passato
quando eravamo insieme
e dopo tante battaglie
era contento di trovare
un uomo possibile in suo figlio
ne aveva conosciuti così pochi
L’ultimo giorno insieme fu nel Nord
Costeggiavamo il mare tutti e due
quel mare scuro votato
all’Inghilterra Sfregio della terra
Gli domandavo quale amore
lo avesse portato là Il cappello a cencio
sul cranio provato
da tutti gli altri rispose
che lui era come me il mare
gli faceva bene Era
a dire il vero in pensione
termine difficile da stabilire
tanti significati contiene Io l’ho presa
la mia molto prima di averne diritto
sì avrei cominciato allora
senza dirlo come di nascosto)
ma tutto ancora importa Ho fatto vivere
e si ricomincia domani
Se non ci fossi che io penso
ogni cosa sarebbe a posto
Ma non si possono amare quelli che si amano
senza dare una mano
Non domandano di più
che raramente e allora
il male ci strappa la carne viva
Stiamo con loro per far amare
quello che resta da amare
in un mondo senza libertà
che le sbandiera tutte Ed è come tacere
una sventura soffocata
in petti troppo stretti
Il mestiere di uomo ha le sue catene
e si muore prima che amore
tu ci abbia dato il buongiorno.

Vita di Georges Perros

[da perros.ordinaire.free.fr]
Georges Perros voleva fare della sua vita un deserto, ma la sua presenza dimora nell’insaziabile sollecitudine del lettore, dell’altro. Moralista, lascia due raccolte di poesie, tre volumi di Papiers collés, svariate note di lettura e una notevole corrispondenza ancora da scoprire; niente che, secondo lui possa costituire un’opera letteraria. Sotto l’apparenza del caso, regna nella scrittura di Perros un’armonia eterogenea diretta dalle impenetrabili leggi interiori. Più che scrittore nel senso letterario del termine, Perros si definisce: “faiseur de notes invétérés”. Egli vede nei libri un luogo di lavoro che corrisponde ad un’assenza essenziale, e non ad un fine in sé. La sua scrittura, intuitiva e folgorante, ha trovato nelle “note” la sua forma privilegiata. Cerca di giungere al cuore dell’esperienza poetica per trovarvi un’originale “innocenza”, nell’intento di dare una forma, di esprimere, in qualche modo, il linguaggio liberato da ogni sovrastruttura, un pensiero primordiale spogliato da ogni convenzione. Perros ha scelto di restare al margine della vita e della scrittura. Ha vissuto l’esperienza letteraria come isolamento, ma soprattutto come straordinaria sollecitazione dell’altro, amico o lettore, dal quale riesce a suscitare il meglio. Ha scelto di vivere a Douarnenez, ma per lui la Bretagne è uno spazio spirituale: “continent d’esprit”. Il trasferimento del suo centro di gravità crea un allontanamento, una distanza necessaria per scrivere, per avvicinarsi agli altri. Ossessionato dal taciturno gusto di vivere, è sempre alla ricerca, e la sua opera ne è la dimostrazione, poiché essa è come scritta al margine di un libro impossibile da cui vorrebbe scaturire il senso, sussultare il segreto della scrittura, dell’uomo. Perros vive di quell’istante che fissa l’eternità, annullando la distanza tra la vita e l’opera. La sua scrittura, insieme movimento e incertezza, è paragonata ad una permanenza, come il finis terrae alla soglia del mare; Georges Perros è “passeur”, un uomo che accompagna, trasporta, conduce…
Nato a Parigi il 31 agosto del 1923, Georges Poulot trascorre la sua infanzia nel quartiere di Batignolles, poi a Reims e nei Vosgi, dove suo padre fu trasferito per lavoro. Comincia a suonare il pianoforte e frequenta il Conservatorio. A sedici anni prende lezioni d’arte drammatica a Rennes. Tra il 1941 e il 1944 abbandona gli studi e si trasferisce a Parigi dove frequenterà per tre anni dei corsi teatrali al Centre du Spectacle; conosce Gilbert Minazzoli e ne diviene amico. Assiste ai corsi di Paul Valéry e Vladimir Jankélévitch al Collège de France. Insaziabile lettore, incontra André Gide e Paul Léautaud, si lega a Louis Guilloux, Gérard Philipe e Marcel Arland. Collabora con il gruppo di scrittori dell’avanguardia: “les Lettristes”, firma il loro manifesto e scrive per la rivista “La Dictature Lettriste”. Intanto completa i suoi studi d’arte drammatica e debutta in teatro recitando la Celestina. Nel 1948 riceve il premio “Prix de comédie” che lo aiuta ad entrare alla Comédie Française, dove recita piccoli ruoli senza una reale passione; deciderà infatti, quasi subito, di fuggire dal teatro, detestando la “razza” degli attori. Va ad abitare a Meudon, dove frequenta Armand Robin. Al fine d’incontrare Jean Grenier , momentaneamente residente in Egitto, accompagna la compagnia teatrale al Cairo. Nel 1950 scrive la sua Lettre- préface che spedisce a Grenier, e abbandona definitivamente la Comédie Française. Entra a lavorare, grazie a Gérard Philipe, come lettore al Théâtre national populaire presso Jean Vilar. Nel 1952 confida alcune “note” a Grenier, che ne percepisce il valore. A sua volta Grenier, cosciente di trovarsi davanti ad uno scrittore di talento e con un profondo senso della vita, ritiene opportuno inviare il materiale visionato a Jean Paulhan; quest’ultimo decide di pubblicarle nella “Nouvelle Revue Française”. Da questo momento Perros diviene un collaboratore della NRF. I suoi scritti critici e le sue impressioni di “lettore” gli attirano l’attenzione e l’amicizia di André Breton, Robert Pinget, Roland Barthes, Pierre Klossowski, Michel Butor, Georges Lambrichs, Roger Judrin, Brice Parain, etc. Da questo momento, firmerà i suoi scritti utilizzando lo pseudonimo: Georges Perros, con cui sarà conosciuto dal pubblico. Incontra Tania, una ragazza di origini russe che diventerà sua moglie. Intraprende diversi viaggi in motocicletta verso e all’interno della Bretagna. Fra il 1954 e il 1959 condurrà una vita molto tormentata; i suoi soggiorni in Bretagna, dove alloggia in mansarde o in case fatiscenti, diventano sempre più frequenti. All’inizio degli anni ’58 va a vivere a Douarnenez, dove Tania lo raggiungerà. Nel 1960, le edizioni Gallimard pubblicheranno i primi Papiers collés, una raccolta di articoli pubblicati nella NRF e note varie. Realizza una trasmissione radiofonica di due ore sulla Bretagna e pubblica, nel 1962 Poèmes bleus, testo poetico a cui verrà assegnato, l’anno seguente, il premio “Max Jacob”. Dopo la nascita dei due figli, Frédéric (1961) e Jean-Marie (1963), sposa Tania e un anno dopo nasce Catherine (1964). Vive grazie a diversi espedienti: lettore di manoscritti per la T.N.P., pubblicazione di diversi articoli, lezioni di pianoforte e le traduzioni di Per Olof Sundman, di August Strindberg, di Anton P. Tchekhov e di Fernand Crommelynck. Sempre presso le edizioni Gallimard, nel 1967 pubblica Une vie ordinaire, lungo romanzo-poema in versi ottonari. Perde il suo lavoro di lettore al T.N.P., ma viene assunto come lettore alla Gallimard. Si reca a Milano, Venezia e Roma insieme ai suoi amici Lorand Gaspar e Michel Butor e di questa esperienza italiana restano interessanti tracce nei suoi Papiers. Dal 1970 tiene presso la Facoltà di Lettere di Brest un singolare corso di letteratura, da lui definito “cours d’ignorance”. Sempre con Michel Butor, nel 1971 si reca in Tunisia a trovare l’amico Loran Gaspar. Nel 1973 viene pubblicata la seconda raccolta di Papiers collés II, a cui viene assegnato il premio “Valéry Larbaud”. Di tanto in tanto ritorna a Parigi, ma continua a scrivere e dipingere ininterrottamente a Douarnenez. Nel 1974 gli consegnano il “Prix Bretagne” per l’insieme della sua opera. L’anno successivo si trasferisce in una piccola casa sul Plomarc’h, che domina la baia. Claude Rojet Journaoud gli dedica una trasmissione “Poésie ininterrompue” su France Culture, mentre Paul André Picton realizza una trasmissione per FR3; nel 1976 France Culture va in onda con: “Entretiens avec Georges Perros” de Jean Daive e Jean-Marie Gibbal, conversazione fortemente interessante, giacché Perros racconta se stesso, la sua esperienza teatrale, la sua vita parigina, la scelta di rifugiarsi in Bretagne, il suo amore per il mare, per le corse in motocicletta, ma soprattutto parla della sua scrittura, di come essa non abbia l’intento di aggiungere nulla alla conoscenza, bensì quello di ricondurre a qualcosa di più semplice, di più essenziale, da vivere insieme agli altri. Poco dopo, in seguito ad una diagnosi di cancro alla gola, Georges Perros subisce un intervento di laringectomia; segue una cura chemioterapica presso l’ospedale di Parigi, ma l’evento per lui più sconvolgente consiste nella perdita dell’uso della parola. Si rifiuta di fare una rieducazione logoterapica e torna a Douarnenez dove inizia a scrivere L’ardoise magique, dedicato a coloro che hanno subito il suo stesso intervento. Nello stesso anno pubblica Échancrures presso le edizioni Calligrammes. Nel 1977 la malattia si aggrava: durante il mese di dicembre subisce un secondo intervento. Il 24 gennaio del 1978 muore presso l’ospedale di Laënnec, a Parigi. Adesso riposa nel cimitero di Douarnenez, che domina il mare. Qualche mese dopo la sua morte, le edizioni Gallimard pubblicheranno Papiers collés III.

Geroges Perros

Geroges Perros

Georges Poulot, detto Perros, è nato a Parigi il 31 agosto 1923. Attratto dal mestiere di attore, nel 1946 frequenta il conservatorio ed entra nella Comédie-Française, che lascia nel 1950, dopo il suo incontro con lo scrittore Jean Grenier. Divenuto lettore al T.N.P. per tramite di Gérard Philippe si avvicina a Jean Vilar e pubblica i suoi primi scritti nel 1953 sulla N.R.F. Lettore straordinario, allaccia amicizie con molti scrittori con i quali intrattiene spesso una fitta corrispondenza. Stufo di Parigi, si insedia a Douarnenez nel 1959. La Bretagna diviene allora la sua “provincia dell’anima”. “Uomo in movimento”, diviene una figura caratteristica della cittadina dove divide il suo tempo tra letture, passeggiate – “prendere aria era il suo mestiere” – e l’assidua frequantazione dell’agenzia di stampa locale e dei caffè del porto.
Nel 1969 diventa lettore ufficiale presso Gallimard. Impartisce anche appassionanti “lezioni d’ignoranza” alla facoltà di Brest, dove, privo com’è di titoli universitari, viene retribuito dal sacro fuoco della passione.
Ricoverato in ospedale e laringectomizzato nella primavera del 1976, ormai privo della parola, si rivolge ai suoi interlocutori grazie all’aiuto di una “lavagna magica”. Muore due anni dopo e riposa nel cimitero marinaro di Douarnenez-Tréboul. Luogo magico, magnifico, troppo bello per la morte.

Il est long à se déclarer, ce pays
On n’en perçoit pas tout de suite
Le tressaillement organique
On le trouve généralement beau
C’est une manière
De s’en débarrasser.
Il faut s’y enfoncer s’y perdre
Comme dans l’amour justement,
En connaître toutes les saisons
Et surtout celle-là où l’homme
Perd un peu de son ombre
Et surtout celle-là l’hiver
Qui rend les choses à leur nom.

da « Poèmes bleus », Gallimard 1962

Fatica a dichiararsi, questo paese
Non puoi percepirlo all’istante
Il sussulto organico
Generalmente è piacevole
E’ un modo come un altro
Per liberarsene.
Bisogna sprofondare e perdersi
Come tra le braccia di un’amante
Conoscerne tutte le stagioni
E soprattutto quella in cui l’uomo
Perde un po’ della sua ombra
E soprattutto quella invernale
Che restituisce le cose al loro nome

(libera versione di Lunastella)