LE PAROLE PERDUTE DI GIOVANNI GANDINI

Prima, dopo, poi. Prima: “Bisogna approfondire il problema del ridere. Ridere non si può scrivere, è come respirare, mangiare, camminare. Come si fa a scrivere il camminare?” Dopo: “Ciccio sostiene che la mia voce è come uno sturalavandino. Ma lui pensa che io stessi parlando. Semplicemente pensavo”. Poi: “Tre uova recuperate da Anna T. che poi, incerta sugli appigli, ha fatto precipitare un blocchetto di cemento fortunatamente fermato da testa e braccia di mia proprietà. Molto ghiaccio, sei sbucciature, un cerotto. Ricomincia la vita avventurosa”. Prima Giovanni Gandini si era procurato uno scatolone di blocchetti Mont Blanc, quelli piccoli a quadretti, che dovevano diventare la sua voce. Dopo, indispensabili per necessità e pensierini, quei foglietti strappati nervosamente non erano mai abbastanza svelti a raccogliere le sue parole, e lui si spazientiva, mentre la conversazione degli altri andava avanti per conto suo e con lui alzavano la voce, come quando si parla a un sordo. Gli amici se li tenevano, quei furibondi bigliettini, soprattutto se abitati dai suoi famosi topolini parlanti in francese o milanese, disegnati in un baleno, (“un rat con sù el sucher fa gateau!”), se lui non era abbastanza svelto a riprenderseli per infilzarli su un ferretto come spiedini e conservarli, come ha fatto di tutta la carta che ha ingombrato la sua vita e di cui non ha mai buttato via neppure un frammento. Li teneva datati e numerati, foglietti di parole mute che hanno accompagnato la sua vita per 12 anni, a cominciare dalla laringectomia nel 1994. Ed erano già diventati un libro, “una traccia per chi ha la pigrizia di scrivere, una bisaccia dove conservare, scegliere segni e cose evitando così il rifugio del silenzio o la sofferenza della parola storpiata”. Non ha fatto a tempo a tenerlo tra le mani perché è morto prima che fosse pronto, sabato 18 febbraio (e non venerdì 17, come han scritto i giornali) 2006. Esce adesso (edizioni Archinto, pagg. 149, euro 16) Un milione di copie, titolo voluto da lui e che aveva da tempo nel cassetto attorno a una storia appena immaginata, di un uomo in un’ isola deserta che trova il modo di stampare un milione di messaggi di soccorso. Ma i messaggi di Gandini sono stati, sono, soccorrevoli soprattutto per gli amici, che dal loro allegro, gentile caos si sentono assolti per tutte le volte che non hanno capito, si sono distratti, hanno cambiato discorso, non hanno avuto la pazienza di aspettare che l’ aria gli salisse dall’ esofago, e lui riuscisse ad afferrarla, a domarla, a collegarla ai suoi pensieri troppo veloci e scoppiettanti, sempre lieti e divertenti, per trasformarla in parola. “E’ sempre stato molto ciarliero, anche dopo”, ricorda Annamaria, la moglie di una vita. Non si è mai lamentato, non si è mai arreso, ha continuato a chiacchierare con tutti e con tutti i mezzi a disposizione, parole scritte o soffiate o mimate o disegnate: una immane fatica che lui definisce “eruttare gracchiamenti”. Di due sole cose si sentiva davvero privato, cantare in coro con gli amici certe filastrocche dialettali dimenticate e fischiettare da solo qualche bella canzone sentimentale. Nella prefazione Gandini ricorda quella notte di San Lorenzo del 1994, quando cantò per l’ ultima volta Sul ciastel de Mirabel (gh’ era una che la cantava, la cantava tanto ben che fino in Franzia i la sentiva). Dice la moglie: “Eravamo andati a vedere Lisbon Story di Wim Wenders e c’ era una vecchia canzone che a Giovanni piaceva molto. In macchina, io che sono stonata, la canticchiai e lui cercò di fischiettarla, senza riuscirci: è stata la sola volta che gli ho visto una lacrima”. Di cosa sia stato Linus, fondato da Gandini nel 1965 forse lo sanno veramente solo quelli che allora erano giovani o quasi, come Umberto Eco che su Abitare ha raccontato come all’ epoca il fumetto facesse scandalo tra i dotti e fu Gandini a “farlo diventare uno strumento di riflessione culturale e occasione di delizia sia per gli happy few che per i molti che non avevano mai sentito parlare non solo di Charlie Brown ma neppure di Kraxy Cat o di Pogo Possum”. Nei suoi 516 pensieri e ricordi e canzoncine e richieste pratiche e disegnini di illustri amici più gli inevitabili suoi topolini c’ è il mondo perduto di uno scrittore finissimo e surreale, di una persona di parole diventata silenziosa con mai rivelato dolore, di un uomo che viveva altrove, forse dietro lo specchio di Alice, e per questo raccattava i topolini della casa di campagna che orrificavano Anna Maria e li manteneva in una gabbia ben nascosta con quotidiani pasti al formaggio. Alla fine, “Pianissimo” si intitola la riflessione, seria, su quello che significa far parte di un popolo che “teso nello sforzo di emettere suoni, aggrotta i denti, sbuffa, mugola, sibila, digrigna gli occhi. Ma se ce l’ ha con qualcuno è con se stesso”: un popolo che non è nell’ elenco degli handicappati e non ha una pensione di invalidità. “E’ un vasto mondo di persone avvilite, alla continua scoperta, loro malgrado, che solo la parola significa lavoro, idee, amore, successo, e che la società fatica a non trattarli come paria”. C’ ero anch’ io a certe serate con lui e le sue lucide parole fanno male: “a una cena il laringectomizzato non parla, c’ è troppo rumore, i commensali sono troppo rapidi nei loro scambi orali. Se scrive qualcosa su un pezzo di carta si ferma la tavola, c’ è chi prende gli occhiali, chi non capisce la scrittura. Il foglietto fa il giro del tavolo e quelle poche parole scritte diventano incomprensibili. L’ argomento cui si riferiva è già stato dimenticato”. L’ 8 giugno alla Milano Libri (a Milano, ovvio) presentano il libro e si inaugura la mostra Il mondo di Giovanni, con opere di Copi, Folon, Topor, Frank Dickens, Tadini, Cingoli, Somarè e una gran quantità di materiale del lavoro di Gandini editore, scrittore, disegnatore. – NATALIA ASPESI

L’ ultima opera e una mostra celebrano il mitico fondatore di Linus

Rivediamo Giovanni Gandini nelle ultime passeggiatine che faceva tra la casa di via Montebello e San Marco, accompagnato da Pancho, grande cane pastore dal pelo di un bel grigio screziato, molto arruffato, che era venuto a somigliare al suo padrone oltre che nell’ aspetto anche nell’ affettuosa irruenza. Gandini non è certo stato soltanto «il mitico» inventore di «Linus», la rivista di fumetti che fondò nel 1965 con i soldi ricavati dalla vendita di una collezione di francobolli. Fu infatti un uomo scintillante, ricco di idee e fantasie, instancabile inventore di giornali, di libri suoi e altrui, di mostre, di mode perfino, come il «modernariato» di cui fu forse il primo collezionista. Dal 1994 era un laringectomizzato, e andava in bestia perché mentre i non udenti, i non vedenti e i non camminanti sono molto considerati dalla pubblica sanità, dei non parlanti secondo lui nessuno si cura: ingiustizia diventata argomento dell’ ultimo capitolo del suo libro appena uscito «Un milione di copie». Dopo l’ operazione aveva preso l’ abitudine di partecipare alle conversazioni degli amici distribuendo i foglietti su cui scriveva le sue famose battute che non poteva più buttar lì con la bella vociona di un tempo, e aforismi, aneddoti, filastrocche, mini-storie: insomma saporiti pezzetti di letteratura tascabile. Quasi sempre illustrati con i suoi celebri topi, diventati con gli anni la sua firma: si ricorda in città che un gallerista di Monte Napoleone chiamato dagli eredi di un famoso collezionista, sfogliando cartelle assai ricche, tra un foglio di Matisse e uno di De Chirico, a un tratto non potè trattenere un grido: «Ma questo è un Gandini!». Di quei messaggini, ironici e malinconici, amorosi e a volte severi, ma sempre necessari, lui ha voluto fare un libro. Li ha catalogati, messi in ordine, arricchiti, ed è riuscito, poco prima di morire, il 18 febbraio scorso a 77 anni, a rivedere le bozze portategli da Rosellina Archinto, l’ amica editrice. Del resto anche i suoi libri precedenti – citiamo per tutti «Caffè Milano» (Scheiwiller 1987) – erano caratterizzati dalla brevità fulminante dei testi. «Un milione di copie» viene festeggiato domani – con l’ intervento di Paolo Mereghetti e Piero Gelli – alla «Milano Libri» in via Verdi, la libreria della moglie Anna Maria, un posto speciale in cui i clienti sono o diventano tutti amici. Aperta nel 1962, tra i soci fondatori aveva anche Franco Cavallone, il notaio (morto anche lui l’ anno scorso a luglio) compagno d’ università del Gandini e suo grande amico. Tanto che fu lui il traduttore, per oltre dieci anni, delle strisce dei «Peanuts» di Schultz: «tutte diligentemente tradotte in ufficio e, finché l’ ufficio non fu mio, con gli originali appoggiati su un cassetto aperto, in basso, e il testo italiano sul piano della scrivania…», come leggiamo in un suo scritto pubblicato dalla «Milano Libri». Giovanni era figlio di un altro «mitico» personaggio: il sarto Gandini, nativo di Fontanellato, autore dei più mirabili tailleur che si siano mai visti in città. Anna Maria viene da Palermo, figlia di Guido Gregorietti, pittore e restauratore, primo conservatore, dal 1952, del museo Poldi Pezzoli. Si sposarono nel ‘ 57, e la loro casa fu ben presto uno dei luoghi d’ incontro della Milano degli anni ‘ 60: quella della Triennale e dei cantautori, della Galleria Milano, del Tencitt, del Santa Tecla, del club Turati… Una casa aperta agli amici milanesi e ai «provinciali» che da Venezia o da Torino, da Parma o da Parigi venivano a vedere cosa succedeva di bello a Milano. Perché allora Milano – oggi pare incredibile – era davvero il posto dove, in un clima di grande rinnovamento culturale, tutto poteva accadere.

 

Borgese Giulia

I segreti di Linus

Charlie Brown in Italia

di ENRICO REGAZZONI

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Una copertina di Linus

DISEGNARE topi. Nella multiforme attività di Giovanni Gandini – indimenticabile padre della rivista Linus, scomparso nel febbraio del 2006 – questa era un’occupazione non marginale (aggettivo che gli avrebbe strappato un sorriso). Topi fantastici e rarefatti, tenuti a malapena insieme da un filo di matita. Topi ironici, malinconici e affettuosi (non a caso, fra i necrologi apparsi sul Corriere, all’indomani della sua morte, ce n’era uno che diceva: “Tutti i topi del mondo piangono e ringraziano…”). E tale attitudine, come del resto ogni altra, era per lui anche un’occasione per entrare e uscire di scena, mascherarsi e smascherarsi, contrastare gli anni che passano, corteggiare l’aspetto giocoso della vita.

Da un lato era capace di illustrare con i suoi topi l’edizione di un suo libro (come Caffè Milano, raccolta di pezzi dell’omonima rubrica da lui tenuta sui quotidiani milanesi, edita nel 1987 da Scheiwiller), firmando i disegni con lo pseudonimo di Carlo Staminski; dall’altro, non esitava ad autodenunciarsi con una specie di biglietto da visita che recitava: “Si eseguono topi su ordinazione: per nozze, onomastici, pensierini, amore, sarcasmo, ringraziamento, protesta, affetto, scuse, nascite, nonni, stanza dei bambini, merendine, inviti, fidanzamenti, sport, promozioni, moda, portafortuna…”.

Bene, ora la bozza di questo biglietto da visita è traslocata insieme ai relativi topi e a tutto l’archivio di Gandini (nove scatoloni e sei cartelle di materiale grafico, più 33 scatole di volumi) all’Università Statale di Milano. Al Centro Apice, per l’esattezza, che si è dato il meritorio compito di conservare, organizzare e valorizzare “quei fondi archivistici e bibliografici che per rarità e completezza possano servire alla storia dell’editoria libraria e periodica” (sono stati già acquisiti, fra gli altri, il Fondo Scheiwiller, la Collezione ‘900 Sergio Reggi e le Riviste illustrate del Fondo Marengo). Tutto Gandini all’università, insomma, dove “tutto” significa una mole cartacea davvero impressionante: la sua corrispondenza con gli editori e quella personale, gli scritti pubblicati e quelli inediti, la rassegna stampa e le tesi su di lui, il materiale preparatorio per le riviste Linus e Giornalone, i libri societari, i progetti in fase di definizione, la raccolta rilegata di Topolino 1946-1947, il catalogo incompleto delle figurine Liebig.Più, naturalmente, la sua biblioteca, fantastica cascata di fumetti e libri per bambini, periodici da lui diretti, libri e periodici della Milano Libri (la casa editrice da lui fondata insieme alla moglie Annamaria nel 1963), stamponi e patinate di ogni genere. Non basta. A dar corpo a questa “gandineide” concorrono altri due elementi: il primo è il progetto di un libro (che al momento si intitola “Viaggio nel mondo di Giovanni”) che due studiosi milanesi, Alessandro Beretta e Alberto Saibene, stanno allestendo alacremente e che cercherà di organizzare in modo leggibile i due principali filoni della sua vulcanica attività, quello pubblicistico e quello progettuale; il secondo è l’idea di una mostra, Gandini & Friends, che attualmente sta cercando casa (la Triennale?) e nella quale il regista Giancarlo Soldi e il grafico Salvatore Gregorietti (che progettò la veste di Linus, nel 1965) intendono mettere in scena quella bella Milano degli anni Sessanta, nella quale bere un bicchiere al bar Giamaica era un pretesto per assemblare idee e non solo rimpianti, e dove Gandini non faticò a trovare eccezionali collaboratori (quali Franco Cavallone e Ranieri Carano) per importare il mondo dei Peanuts di Schulz, né stentò più che tanto a far sedere su un divano Umberto Eco, Elio Vittorini e Oreste Del Buono per il dibattito su “Charlie Brown e i fumetti” che tenne a battesimo il primo numero di Linus.

Ma, tornando al Fondo Gandini della Statale, la voglia di spulciare tra le carte è tanto irresistibile quanto sconsiderata, e non solo per la quantità del materiale ma anche per il numero dei personaggi nei quali Giovanni si atomizzò in vita, nel chiaro intento di risultare imprendibile. Quale Gandini inseguire? Il progettista o il corsivista? Lo scrittore di favole o il collezionista? Il poeta o l’estensore di esilaranti lettere?
Saltando gli anni eroici di Linus (già a lungo battuti), verrebbe da mettersi sulle tracce de Il Giornalone, bellissimo esperimento (anche grafico!) del 1972, che visse un solo anno perché ebbe il torto di arrivare troppo presto, e radunò un gruppo di amici davvero notevoli, da Emilio Tadini a Sandro Somaré, da Roland Topor a Frank Dickens, da Bob Blechman a Ralph Steadman. Ma si vorrebbe anche sbirciare fra le bozze di riviste pensate e mai apparse, come Fax, Gnac & Patac, Il fumo… O rileggersi i suoi libri, da L’orso buco a Piccoli gialli. O giocare a uno dei suoi pazzi giochi, come quel Waterloo!! che restituisce a Napoleone la possibilità di vincere.

Infine, com’è naturale, la mano si ferma su una delle numerose buste che contengono quella “corrispondenza personale e con gli editori” nella quale Gandini profuse, se non la parte migliore di sé, quella più felicemente trasgressiva. Autore instancabile di lettere inventate che impreziosivano la posta del suo Linus, Giovanni non smise mai di affidare alle missive, con esibita ingenuità, il carico delle sue attese, delle sue proteste, del suo divertimento. Scrivere era il suo modo di bussare, e scrisse un po’a tutti: a Sergio Tofano, per esempio, invitandolo a far rivivere il suo Bonaventura su Il Giornalone (Tofano, garbatamente, rifiutò); o a Cesare Zavattini, per sollecitare i suoi suggerimenti; o ancora a Leonardo Sciascia, per contestargli l’esclusiva di critica sulle cose di Sicilia (e Sciascia gli rispose imputandogli, a sua volta, “un fondo di antipatia per i siciliani”); perfino a Monica Vitti, per ringraziarla di aver detto in tv che apprezzava Charlie Brown. E poi ci sono le lettere a Charles M. Schulz, per informarlo senza trionfalismi del successo italiano dei suoi Peanuts. E quelle inviate con risentimento ai giornali che continuavano ad attribuire la paternità di Linus a quel gruppo di nomi illustri che lui aveva chiamato a collaborare.

Di fatto è un bene che le tracce di un’intelligenza così evasiva siano ora richiuse dentro un contenitore pubblico e consultabile, qual è un archivio universitario. Forse lui storcerebbe il naso.
Epigono di un dandismo intellettuale che da Oscar Wilde ad Antonio Delfini ha amato spendere la sue ricchezze nella vita, anziché nelle opere, Giovanni Gandini restò fedele al suo autoritratto affrontando i paradossi imposti dallo stile. Fino all’ultimo, quegli anni senza voce (era stato laringectomizzato nel 1997) che tappezzò di bigliettini incredibili, una stagione solo apparentemente muta della quale ha dato conto in Un milione di copie, libro apparso da Archinto quando lui non c’era già più.

“Non è triste l’indifferenza di esserci o non esserci”, scrive in uno dei 516 pensieri del libro. “E’ triste sentire quanto manchino idee, humus, sapore nella conversazione. Mi manco molto”. E sembra l’abisso. Ma poi lo vedi, in quel filmato girato da Soldi per Giovanni Minoli nel 2002 sulla storia del fumetto: non parla, è vero, si aggira nello storico cortile di via Spiga (dov’era la redazione di Linus) e ha un’aria fragile e impaziente, ma non triste. Nel battito degli occhi, nelle dita che si muovono svelte, c’è intatta la sua ironia. Ed è come se fosse l’ultimo protagonista del suo vero sogno, quello di un fumetto per grandi.