Arriva il “Segreto di Italia” che non piace ai partigiani L’opera racconta gli orrori di Codevigo nel 1945 dove i comunisti uccisero un centinaio di italiani

Nessuno è contento della guerra. Nessuno è tranquillo quando i tedeschi bussano alla porta di casa. Nessuno però sembra felice neanche per l’imminente liberazione.

Una immagine del film “Il segreto di Italia”

Insomma, nella primavera del 1945, a Covedigo, paese della bassa padovana, i sentimenti della popolazione sono contrastanti. È su questo clima, di attesa di un ulteriore cambiamento epocale non voluto ma subito come sempre, nei secoli dei secoli, che si muove il film Il segreto di Italia girato da Antonello Belluco. Che, nel soggetto scritto con Gerardo Fontana, l’ex sindaco di Covedigo a cui il film è dedicato dopo la sua scomparsa lo scorso giugno durante le riprese, registra il momento esatto in cui l’Italia non sapeva che cosa essere esattamente. Così, alle forze che si muovevano correttamente per liberare il paese dal nazifascismo, se ne sono unite altre accecate dall’odio o da vendette personali.

Fatto sta che, come in altre parti di Italia, anche in quelle zone si sono verificati orrori, noti come l’«eccidio di Covedigo», con l’esecuzione da parte dei partigiani comunisti, dopo un processo sommario, di più di un centinaio tra militanti della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere e di civili anonimi. Come ha anche documentato Giampaolo Pansa nel suo osteggiato libro Il sangue dei vinti che ritaglia qualche pagina proprio sulla maestra del paese, Corinna Doardo, «una fascista non fanatica, piuttosto un’ingenua», che fu rapata a zero e costretta a camminare per le vie del centro con una coroncina di fiori in testa prima di venire uccisa.

Naturalmente, nel film di Belluco che uscirà nelle sale il 20 novembre, non poteva non mancare anche questo drammatico avvenimento. Cosa che non ha certo aiutato il regista che nella realizzazione del film, parlato in un dialetto veneto reso comprensibile, si è visto chiudere molte porte. Anche oggi che esce in sala: «Qualcuno mi ha detto che il film è bello aggiungendo però che non lo poteva proiettare “perché sono i partigiani a decidere”», svela il regista che ha potuto contare solo su un contributo della Regione Veneto. La cosa curiosa è che l’approccio di Belluco a una materia scottante è di assoluta «laicità». «Non c’è – sottolinea il regista – nessun giudizio politico o storico. Non voglio essere definito “il revisionista del cinema” perché mi sembrerebbe di essere uno che spiega o rivede le cose. Io unicamente racconto gli stati d’animo individuali e i sentimenti di una comunità all’interno di fatti terribili realmente accaduti».

Ecco così l’idea alla base del film. Il segreto di Italia, il nome della protagonista, che affonda le radici in un avvenimento del suo lontano passato e che, per tutta la vita, le ha impedito di tornare nel luogo dove è nata. Ora che però, dopo 55 anni dagli Stati Uniti è volata a Covedigo per il matrimonio della nipote, deve fare i conti con i suoi ricordi. Che hanno il sapore meraviglioso della giovinezza, dell’amore per il diciottenne Farinacci Fontana (Alberto Vetri) fascista un po’ per caso per parte di padre, ma anche della gelosia. Quella per la bella Ada (Maria Vittoria Casarotti Todeschini) giunta da Fiume di cui il ragazzo si innamorerà. Una scintilla, una cattiveria, e l’eccidio farà da sfondo a quest’amore non più innocente.

Ecco l’irrompere dei partigiani della Brigata Garibaldi che era guidata da Arrigo Boldrini ma che nel film ha il nome di Ramon (Andrea Pergolesi) forse anche per evitare guai giudiziari visto che l’avvocato del figlio di Boldrini ha già inviato due raccomandate chiedendo di supervisionare la sceneggiatura.

Nella parte di Italia da adulta c’è Romina Power che torna al cinema dopo parecchi anni: «La conoscevo da tempo, le ho inviato la sceneggiatura a Los Angeles. Lei mi ha chiamato il giorno dopo dicendomi che si era commossa e che era pronta a venire. È una grande professionista, ha imparato da sola e perfettamente le battute in veneto», ricorda il regista che, indomito, sta già lavorando al prossimo progetto, un film sulle foibe: «Qualcuno m’ha detto: “Ma vuoi ancora farti del male?”».

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Quel “Sangue sparso” ed una celtica stretta tra le mani

“Mai più ruberete la sua voce, fermerete i suoi passi. Per lui ora parla il vento. Come il mare è il suo cammino”

Quel “Sangue sparso” ed una celtica stretta tra le mani
Francesco Cecchin, 35 anni fa

Piazza Vescovio, Excalibur, estate 2010. Quando incontro Flavio per la prima volta non posso non notare il suo sguardo triste e quel dolore che gli permea l’anima. Siamo seduti ad un tavolo in un angolo, con noi ci sono Bruno, Marco e Fabrizio. Ordiniamo alcune birre. “Ecco, questa l’ho portata per te – mi dice Flavio –  È stata nel mio cassetto per trent’anni”. Mi porge una scatolina, la apro con le mani che già tremano al pensiero di cosa vi troverò dentro. Quando scorgo una catenina sottile, spezzata, con una croce celtica d’argento, una sensazione di gelo mi passa lungo  la schiena. “Me la donò Maria Carla quando Francesco morì: ‘Lui vorrebbe che la tenessi tu’ mi disse”. Un piccolo oggetto che tengo tra le mani come una reliquia, mentre una lacrima scende giù. Penso a quel ragazzo sorridente che l’aveva portata al collo con onore, inconsapevole che la sua giovinezza stava per spezzarsi.

Flavio non parla. Nessuno di noi ci riesce. È difficile spiegare con le parole cosa si prova in certi momenti. Ricordo ogni dettaglio di quelle ore trascorse a quel tavolo con i “ragazzi di Piazza Vescovio”, li conoscevo appena, eppure erano già parte della mia vita. È Flavio a rompere quel silenzio doloroso: “Ti ho portato anche questo” dice, e mi porge un pacchetto avvolto con carta da imballaggio e spago. Contiene un quadretto, con alcuni disegni ed una scritta che riporta una frase di Julius Evola. “Me lo regalò Francesco, e mi disse ‘promettimi una cosa: che non diventerai mai un politicante come tanti di oggi. Promettimelo’. Ed io glielo promisi”. Bruno tira fuori dalla sua borsa di avvocato una busta con alcune foto: una bara con una bandiera tricolore sopra, uno striscione: “Camerata Cecchin presente”, le lacrime e le braccia tese, e quella scritta su quel muretto “Francesco vive nei nostri cuori”, e poi quella targa: “Mai più ruberete la sua voce, fermerete i suoi passi. Per lui ora parla il vento. Come il mare è il suo cammino. Francesco Maria Cecchin caduto per la Rivoluzione. Il popolo lo onora. 16.VI.1979”. Quella targa è ancora lì, dove Francesco cadde in quella sera d’estate di 35 anni fa.

Anche Marco ha portato qualcosa: è un manifesto che ha disegnato con le sue mani, c’è un ritratto di Francesco, la fiaccola del Fronte della Gioventù e la scritta “Lui vive, Lui combatte”.

Si fa sera, a Piazza Vescovio i locali accendono le luci. Usciamo tutti insieme, svoltiamo l’angolo, percorrendo quei pochi metri che ci separano dal teatro di morte di quella notte. Varchiamo il piccolo cancello e portiamo la nostra preghiera a Francesco, lasciamo un fiore. Flavio mi abbraccia e mi ringrazia: “Sangue sparso”, il film che stavo scrivendo, sarebbe stato un piccolo e certamente inadeguato risarcimento alla memoria del suo Francesco, quell’amico perduto troppo presto, ma avrebbe significato iniziare ad uscire dall’oblio a cui tutto un mondo sembrava destinato.

Emma Moriconi

 

Sera di giugno

Quella sera, era di giugno…sei uscito per una passeggiata nel tuo quartiere, insieme a tua sorella. Volevi andare a mangiare un gelato, passare qualche ora senza pensieri. Come tutti i ragazzi della tua età. Ma tu non eri come loro. Non eri un ragazzo come tanti. Eri un militante politico, un giovane fieramente e semplicemente schierato “dalla parte sbagliata”.

Quella sera di giugno eri tranquillo, nonostante l’atmosfera tesa, quasi irreale. Un’atmosfera pesante e cupa, alimentata da quelli per cui “uccidere un fascista non è reato”. Quelli che non sopportavano la presenza di un nucleo forte ed agguerrito che osava fare politica nel “loro” territorio. Quelli che quello stesso pomeriggio ti avevano minacciato pesantemente e duramente. Quelli che, in tre, ti hanno rincorso, picchiato e gettato in un cortile.

Il loro odio ti spingeva dalla vita verso la morte…troppo presto. Troppo presto il destino ti ha presentato il conto. Troppo presto il tuo sangue ha acceso ancora una volta il dolore e la rabbia quasi impotente di chi condivideva la tua scelta di vita.

Era una sera di giugno e ti sei trovato ad affrontare da solo i tuoi assassini. Hai cercato di proteggere tua sorella, di fare in modo che lei non vedesse quello che avevi capito ti sarebbe successo di lì a poco. Hai cercato di difenderti con quello che avevi per le mani…ma non è servito. Un grido, un tonfo sordo e poi silenzio. Un silenzio di morte. Restavano solo il tuo corpo e il tuo sangue sparso in quel cortile, con il pugno stretto intorno ad una chiave piegata.

Il ricordo della tua gioventù, del tuo sorriso, sono chiusi nei cuori di chi ti ha conosciuto e di chi, oggi come ieri, segue il tuo esempio. Sono il carico prezioso di una nave che viaggia oltre il tempo e lo spazio, senza mai affondare, con le vele gonfie di vento e il tuo nome sulla bandiera.

Un vento che spazza le nuvole, che porta via le menzogne e gli imbrogli che in troppi hanno cercato di far passare per realtà. Senza pudore, senza rispetto per niente e per nessuno. I tuoi assassini e chi li ha protetti e difesi non hanno mai pagato per il loro crimine. Ma la vera giustizia non può essere fermata dall’infamia di uomini senza onore.

La tua gioventù è come un fiore, che da quella sera di giugno giace a terra col gambo spezzato. Ma la bandiera che portavi sventola ancora alta e fiera, perché altri come te hanno raccolto il testimone, hanno seguito i tuoi passi che nessuno ormai riuscirà più a fermare.

Eri primavera, eri libertà. Adesso porti in mano una rosa e nell’altra la verità!

Cristina Di Giorgi

 

Frammenti di cuore e ricordi

“Alla fine degli anni 70 Francesco era poco più di un ragazzino. Due caratteristiche fondamentali lo distinguevano fortemente: la sua presenza in qualsiasi occasione militante a Roma ed il suo comportamento silenzioso, composto e serio. Di Francesco va conservato lo spirito che lo distingueva, la presenza continua, l’umiltà, la serenità, la costanza e l’abnegazione”.

“Quella notte la tua vita finiva… il tuo cuore non batteva più. Il tuo braccio non si sarebbe più levato verso il cielo, i tuoi occhi non avrebbero più brillato, la tua voce non avrebbe più gridato.

Ma ora siamo qui noi: saremo i tuoi occhi che guardano il mondo, saremo il tuo braccio, saremo la tua voce… Saremo te!”

“…A volte la nebbia nasconde il cielo, ma poi arriva sempre un soffio di vento che la spazza via. E allora i raggi del sole illuminano coloro che sono rimasti in piedi ad aspettare…”

Emma Moriconi

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Come vedere film in streaming

Questa sera in TV non trasmettono nulla di buono, per andare al cinema si è fatto tardi e il lettore DVD è occupato dal tuo fratellino impiccione e i suoi cartoni animati. Come fare a passare la serata senza annoiarsi? Fossi in te, mi guarderei un bel film su Internet.

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Foto all’inizio dell’articolo: Cinema

Pubblicato da Salvatore Aranzulla 

aranzulla.tecnologia.virgilio.it

IN MOLTE PELLICOLE È PRESENTE LA MALATTIA, MA SENZA APPROFONDIMENTO

IN MOLTE PELLICOLE È PRESENTE LA MALATTIA, MA SENZA APPROFONDIMENTO

Volete saperne di più sul cancro?
Non andate al cinema

I film non dicono la verità sulle possibilità di diagnosi e di cura che oggi la medicina mette a disposizione dei pazienti

Clint Eastwood nel film «Gran Torino»Clint Eastwood nel film «Gran Torino»

MILANO – Clint Eastwood, il Walt Kowalski del film Gran Torino (quello in cui lui, reduce dalla guerra di Corea, anziano e malato, prima disprezza, poi finisce per difendere dai teppisti i suoi vicini di casa, asiatici di etnia Hmong) tossiva tanto e probabilmente aveva un tumore al polmone. Non muore per quello, ma perché viene ucciso dai delinquenti della banda. Gran Torino (il titolo è il nome dell’automobile Ford che Walt custodiva gelosamente in garage), uscito nel 2008 non è né il primo né l’ultimo film dove il cancro assume un qualche ruolo, anche da comprimario.

 

«GRAN TORINO» – Di tumori, nei film degli ultimi anni, si parla sempre di più. A partire da La gatta sul tetto che scotta(pellicola del 1958 dove un padre ammalato di tumore si confronta con il figlio alcolizzato) e ancora prima con il Diario di un curato di campagna (che è affetto da un tumore allo stomaco: e siamo nel 1951) per arrivare non solo a Gran Torino, ma a molte altre opere cinematografiche che hanno via via analizzato diversi aspetti legati al mondo dell’oncologia e dei malati. Erin Brockovich (il titolo italiano è: Forte come la verità, del 2000) è una segretaria di uno studio legale che indaga su una compagnia sospettata di avere contaminato le falde acquifere di una cittadina americana, provocando tumori ai residenti e fa emergere l’aspetto epidemiologico della malattia e le sue cause ambientali. Lo stesso fanno l’avvocato Michael Clayton nell’omonimo film del 2007 e la pellicola Le ultime 56 oredell’italiano Claudio Fragasso sui linfomi dei militari e l’uranio impoverito della guerra di Balcani. Poi ci sono le implicazioni economiche delle cure che emergono nel film L’uomo della pioggia (1997) di Francis Ford Coppola.

 

Una scena del film «La prima cosa bella»Una scena del film «La prima cosa bella»

A VIENNA – E ancora: Wit and dying young (1999) parla di cancro all’ovaio e del problema dei trattamenti, mentre Le invasioni barbariche (canadese del 2003), L’eternità e un giorno(Mia aioniotita kai mia mera, titolo originale greco, 1998) e La prima cosa bella (italiano del 2010) affrontano il tema dell’assistenza ai malati terminali. “Oncomovies: cancer in cinema” sarà oggetto di una relazione al prossimo congresso della European Society of Medical Oncology (Esmo) che si terrà a Vienna nei prossimi giorni. «Oggi il cinema si occupa di alcuni aspetti legati ai tumori che erano totalmente assenti in passato – commenta Luciano De Fiore dell’Università La Sapienza di Roma che ha condotto uno studio su questo tema –. Il cancro non è un soggetto facile da rappresentare, ma il fatto che se ne parli in qualche film permette di far conoscere meglio al pubblico questa malattia e le sue implicazioni».

 

PROVE SCIENTIFICHE – Purtroppo però l’immagine che emerge dai film non rappresenta la realtà scientifica dei giorni nostri. Troppo spesso il cinema vede il cancro come un elemento della trama che serve a drammatizzare la situazione e provoca, nella maggior parte delle situazioni, la morte dei protagonisti che ne sono affetti. Invece, le possibilità di sopravvivenza dei pazienti, grazie alle cure oggi disponibili, non sono mai rappresentate sul grande schermo. «Non si parla mai nei film – commenta De Fiore – delle opportunità che la medicina offre oggi ai pazienti. E raramente la sopravvivenza dei malati viene attribuita ai trattamenti ora disponibili. Fortunatamente nella vita reale le cose sono ben diverse».

IL SENO SNOBBATO – De Fiore a altri ricercatori hanno preso in esame 82 film dove si parla di tumore e hanno analizzato, fra i personaggi, 40 donne e 35 uomini affetti dalla malattia. In 21 film il tipo di tumore non era dichiarato. I sintomi erano menzionati nel 72 per cento delle pellicole, mentre il riferimento a test diagnostici compariva nel 65 per cento dei casi. La terapia più citata risultava essere la chemioterapia, seguita dai trattamenti antidolorifici. Non solo: Hollywood non sembra focalizzarsi sui big killer (a eccezione del cancro al polmone), ma preferisce parlare di leucemie, linfomi e neoplasie al cervello (il cancro al seno è quasi sempre snobbato). Nonostante tutte queste considerazioni, però, i ricercatori ritengono che usare il grande schermo per raccontare storie sul cancro possa avere un impatto positivo sia sui pazienti che sui medici. «Può servire – commenta De Fiore – ad aumentare l’attenzione al problema e a capire il valore delle nuove terapie. Non solo: può aiutare gli oncologi a prendere in considerazione alcuni problemi che a volte trascurano. Per esempio: le conseguenze che la malattia può avere sulla sessualità, il rapporto medico-paziente, gli effetti delle terapie. E, perché no, il significato della vita e della morte». Del resto La Bohemeraccontava un dramma della medicina di altri tempi: la tubercolosi. Che oggi è controllabile con i farmaci.

Adriana Bazzi
abazzi@corriere.it

Ferragosto

Ferragosto
In Italia Ferragosto è sinonimo di balneazione (Sicilia, Isola Bella)
Tipo di festa popolare
Data 15 agosto
Celebrata in Italia
Tradizioni Balneazione

Albero della cuccagna in spiaggia per Ferragosto

Il Ferragosto è una festività che cade il 15 agosto in concomitanza con la ricorrenza dell’Assunzione di Maria.

In Italia, il giorno di Ferragosto è tradizionalmente dedicato alle gite fuori porta e spesso caratterizzato da lauti pranzi al sacco, grigliate e, data la calura stagionale, da rinfrescanti bagni in acque marine, fluviali o lacustri. Molto diffuso anche l’esodo verso le località montane o collinari, in cerca di refrigerio.

Il Ferragosto nell’Antica Roma [modifica]

Il termine Ferragosto deriva dalla locuzione latina feriae Augusti (riposo di Augusto) indicante una festività istituita dall’imperatore Augusto nel 18 a.C. che si aggiungeva alle esistenti e antichissime festività cadenti nello stesso mese, come i Consualia, per celebrare i raccolti e la fine dei principali lavori agricoli. L’antico Ferragosto, oltre agli evidenti fini di auto-promozione politica, aveva lo scopo di collegare le principali festività agostane per fornire un adeguato periodo di riposo, anche detto Augustali, necessario dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti.

Nel corso dei festeggiamenti, in tutto l’impero si organizzavano corse di cavalli e gli animali da tiro, buoiasini e muli, venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori. Tali antiche tradizioni rivivono oggi, pressoché immutate nella forma e nella partecipazione, durante il “Palio dell’Assunta” che si svolge a Siena il 16 agosto. La stessa denominazione “Palio” deriva dal “pallium“, il drappo di stoffa pregiata che era il consueto premio per i vincitori delle corse di cavalli nell’Antica Roma.[1]

Nell’occasione, i lavoratori porgevano auguri ai padroni, ottenendo in cambio una mancia: l’usanza si radicò fortemente, tanto che in età rinascimentale fu resa obbligatoria nello Stato Pontificio.[2]

Il Ferragosto durante il Fascismo [modifica]

La tradizione popolare della gita di Ferragosto nasce durante il ventennio fascista. A partire dalla seconda metà degli anni ’20, nel periodo ferragostano il regime organizzava, attraverso le associazioni dopolavoristiche delle varie corporazioni, centinaia di gite popolari, grazie all’istituzione dei “Treni popolari di Ferragosto”, con prezzi fortemente scontati.

L’iniziativa offriva la possibilità anche alle classi sociali meno abbienti di visitare le città italiane o di raggiungere le località marine o montane. L’offerta era limitata ai giorni 13, 14 e 15 agosto e comprendeva le due formule della “Gita di un sol giorno”, nel raggio di circa 50-100 km, e della “Gita dei tre giorni” con raggio di circa 100-200 km.

Fu durante queste gite popolari che la maggior parte delle famiglie italiane ebbe per la prima volta la concreta possibilità di vedere con i propri occhi il mare, la montagna e le città d’arte. Nondimeno, dato che le gite non prevedevano il vitto, nacque anche la collegata tradizione del pranzo al sacco.

Il Ferragosto nella cultura popolare [modifica]

  • In Lombardia e Piemonte, fino ai primi decenni del XX secolo, era uso “dare il ferragosto” (in lombardo dà el faravóst) che consisteva nel donare emolumenti in denaro o in beni commestibili alle maestranze, da parte dei datori di lavoro, in modo che le famiglie potessero trascorrere lietamente il giorno di Ferragosto. Nei cantieri edili, verso la fine di luglio, veniva fissato dai muratori un grande ramo d’albero sulla parte più elevata del fabbricato in costruzione, detta pianta del faravóst, che serviva scherzosamente a rammentare all’impresario l’imminente esborso della tradizionale mancia.[3]
  • Torino, fino alla metà del XX secolo, molti cittadini si recavano per pranzare nel ristorante o al sacco nel parco in riva al Po, adiacenti alla chiesa della Madonna del Pilone. Tale costumanza era denominata “Festa dle pignate a la Madona dél Pilòn“, ovvero “Festa delle pentole alla Madonna del Pilone”.[4]
  • Montereale, nel prato adiacente l’Abbazia della Madonna in Pantanis, il giorno di Ferragosto si tiene la gara poetica tra cantori a braccio.[5]
  • La smorfia napoletana assegna al Ferragosto il n.45

Il Ferragosto in cucina [modifica]

  • Il piatto tradizionale per eccellenza del pranzo di Ferragosto è il piccione arrostito. Tale usanza, un tempo diffusa in buona parte d’Italia e che ancora sopravvive in alcune zone, pare sia nata inToscana, in epoca carolingia.[6]
  « A ferragosto si mangiano i piccioni arrosto. »
  (Detto popolare)

Il Ferragosto nella musica [modifica]

L’opera lirica “Pagliacci” del compositore napoletano Ruggero Leoncavallo si svolge proprio nel giorno di Ferragosto (“Oh, che bel sole di mezz’agosto!”; “Per la Vergin pia di mezz’agosto!”)

Il Ferragosto nel cinema [modifica]

Il Ferragosto nella letteratura [modifica]

Note [modifica]

  1. ^ Lodovico Antonio MuratoriDissertazioni sopra le antichità italiane, Barbiellini, Roma1755, tomo II, pag.32
  2. ^ Gaetano MoroniDizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Tipografia Emiliana, Venezia1843, volume XXIII, pag.155
  3. ^ Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Imperial Regia Stamperia, Milano, 1839
  4. ^ Vecchie, care consuetudini…La Stampa19 agosto 1922, pag.4
  5. ^ Roberta Tucci, I “suoni” della campagna romanaRubettinoSoveria Mannelli2003
  6. ^ Attilio Zuccagni-Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole, Presso gli Editori, Firenze1842
  7. ^ Annalisa Barbagli, La cucina di casa del Gambero RossoGRH2002