Collaboratori domestici e crisi economica: così i familiari prendono il posto dei badanti

Nonostante gli assistenti stranieri siano aumentati del 53% in dieci anni, la spesa media di 667€ al mese per sostenerli è diventata elevata in bilancio. Così nel 15% dei casi un membro dello stesso nucleo ha lasciato il lavoro per assistere un congiunto

» FamigliaAura De Luca – 24/05/2013
 
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Di loro c’è un bisogno divenuto negli ultimi anniquasi irrinunciabile. Eppure, nonostante la loro presenza sia aumentata del 53 per cento in dieci anni, avvalersi dei servizi di assistenza familiare di badanti e collaboratori domestici, soprattutto in tempi di crisi, per molti italiani è divenuto un costo troppo alto da sostenere. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis e dall’Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) per il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali da cui viene fuori che sostenere un badante all’interno di un nucleo costa, in media, 667 euro al mese per famiglia. 

È vero, evidenzia il dossier, che il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Ma è anche vero che i servizi di collaborazione domestica in Italia sono caratterizzati ancora da una forte destrutturazione, soprattutto quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Non solo. Questo tipo di welfare, cosiddetto ‘informale’, ha un costo che grava quasi interamente sulle famiglie e, stando ai numeri del Censis, solo il 31,4 per cento riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si traduce per i più nell’accompagno. Ecco perché, in un contesto di questo genere, soprattutto con una domanda crescente di protezione sociale, viene sottolineate l’importanza di incrociare il ‘welfare familiare’, che impiega rilevanti risorse private, con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantirne la sostenibilità sociale.

I DATI IN GENERALE. Nell’ultimo decennio l’area dei servizi di cura e assistenza per le famiglie ha rappresentato per il nostro Paese un grande bacino occupazionale. Il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Sono 2 milioni 600mila le famiglie (il 10,4 per cento del totale) che hanno attivato servizi di collaborazione, di assistenza per anziani o persone non autosufficienti, e di baby sitting. E si stima che, mantenendo stabile il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei collaboratori salirà a 2 milioni 151mila nel 2030 (circa 500mila in più). 

UN SERVIZIO ASSISTENZIALE ANCORA MOLTO DESTRUTTURATO NONOSTANTE LA CRESCENTE DOMNADA. I servizi di collaborazione domestica in Italia si caratterizzano ancora per la forte destrutturazione, anche quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Si configurano come un lavoro domestico a tutto tondo, con una quota dell’83,4 per cento dei collaboratori occupati nel governo della casa, fino all’assistenza avanzata a persone non autosufficienti (15,3 per cento) e a bambini (18,3 per cento). C’è poi una sottovalutazione del valore delle competenze, visto che solo il 14,3 per cento dei collaboratori ha seguito un percorso formativo specifico, sebbene il 60 per cento di essi si occupi dell’assistenza di una persona anziana. 

DA LAVORO DI “RIPIEGO” A PROFESSIONE CHE GLI STRANIERI SCELGONO SEMPRE PIÙ CONSAPEVOLMENTE. Va sottolineata anche l’assenza di intermediazione nel rapporto di lavoro. Solo il 19 per cento delle famiglie si avvale di intermediari per il reclutamento. Ed esiste un’ampia area di lavoro totalmente irregolare (il 27,7 per cento dei collaboratori) e “grigio” (il 37,8 per cento) che si accompagna però al progressivo consolidamento di un quadro di tutele. La scelta lavorativa dei collaboratori ha un carattere residuale, se il 71 per cento di essi si trova nell’attuale condizione per necessità e il 35,4 per cento perché ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41 per cento). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali hanno fatto apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza (il 70 per cento) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16 per cento sta cercando attivamente un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani il 25 per cento).  

LE DIFFICIOLTÀ DI INCONTRO E DI GESTIONE TRA DOMANDA E OFFERTA. In questo quadro, non possono essere trascurate le difficoltà che sempre più famiglie incontrano non solo nel reclutamento, ma anche nella gestione del rapporto con i collaboratori. La pesantezza del “fattore organizzativo” le porta oggi a chiedere con forza, oltre agli sgravi di natura economica, una maggiore semplificazione per l’assunzione e la regolarizzazione dei collaboratori (lo chiede il 34 per cento contro il 40 per cento che richiede gli sgravi), ma anche servizi che sul territorio favoriscano l’incontro tra domanda e offerta (29 per cento). Inoltre, il 34,5 per cento delle famiglie vorrebbe l’istituzione di registri di collaboratori al fine di garantirne la professionalità, il 39 per cento vorrebbe invece che venissero create o potenziate le strutture che si occupano di reclutamento, mentre il 25,7 per cento sarebbe pronto ad affidarsi totalmente a un’agenzia privata che sollevi la famiglia da tutte le incombenze di carattere burocratico e gestionale. 

IL WELFARE INFORMALE È QUASI INTERAMENTE A CARICO DEI FAMILIARI. Ma le vere incognite che oggi incombono sulla sostenibilità del sistema sono soprattutto di natura economica. Il welfare informale ha un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari. A fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4 per cento delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’accompagno (19,9 per cento). Se la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5 per cento sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4 per cento) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2 per cento ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2 per cento ha intaccato i propri risparmi, il 2,8 per cento si è dovuto addirittura indebitare. L’irrinunciabilità del servizio sta peraltro portando alcune famiglie (il 15 per cento, ma al Nord la percentuale arriva al 20 per cento) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa rinunci al lavoro per prendere il posto del collaboratore.

DEI BADANTI C’È BISOGNO MA PER MOLTI IL COSTO DEL SERVIZIO È GIÀ DA ORA INSOSTENIBILE. Intrappolate nella spirale perversa delle esigenze crescenti a fronte di risorse calanti, il 44,4 per cento delle famiglie pensa che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di aumentare il numero dei collaboratori o delle ore di lavoro svolte. Ma al tempo stesso la metà delle famiglie (il 49,4 per cento) sa che avrà sempre più difficoltà a sostenere il servizio e il 41,7 per cento pensa addirittura che dovrà rinunciarci.

TRA I PARENTI CHE DECIDONO DI ASSISTERE UN FAMILIARE LA MAGGIORNAZA SONO DONNE CHE LASCIANO IL LAVORO. Tra le famiglie attualmente prive di badante, il 20 per cento dichiara che in casa è presente una persona che ha bisogno di cura e assistenza. In questi casi non ci sono esborsi economici da sostenere, ma un costo non irrilevante grava comunque sulla famiglia: la rinuncia a lavorare da parte di un suo componente. Si stima che nel 25 per cento delle famiglie in cui è presente una persona da assistere, e non si possa ricorrere ai servizi di un collaboratore, vi è una donna (nel 90,4 per cento dei casi) giovane (il 66 per cento ha meno di 44 anni) che ha rinunciato al lavoro interrompendolo (9,7 per cento), riducendo significativamente l’impegno (8,6 per cento) o smettendo di cercarlo (6,7 per cento).

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Difficoltà economiche, lavoro e famiglia: la sfida quotidiana delle donne ai tempi della crisi

Da Eurispes un focus sulla condizione femminile nell’Italia della recessione, quattro scatti fotografici che immortalano un universo che si mette in gioco per affrontare le difficoltà economiche, sociali, personali e familiari di questi tempi

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Il punto di vista delle donne per raccontare lasocietà italiana. L’economia, il lavoro, la famiglia e la propria identità: quattro scatti fotografici che immortalano l’universo femminile che, ancora una volta, si mette in gioco per affrontare le difficoltà legate ai tempi di oggi. È così che l’Eurispes vuole rendere omaggio alle donne italiane, per il ruolo che rivestono nel contesto familiare e per la loro capacità di affrontare il cambiamento. Un’analisi mirata, dunque, derivata dai dati utilizzati nella stesura del Rapporto Italia 2013, ma non integralmente pubblicati, che cercano di dare risposta ad alcune domande fondamentali: quali comportamenti adottano le donne italiane per soddisfare le esigenze quotidiane del nucleo familiare? Quali sono le principali opinioni sull’andamento economico del Paese? In che modo riescono a perpetuare, alla luce della crisi, lo stile di vita del loro essere contemporaneamente lavoratrici, madri e donne?

LE DONNE E LA CRISI. Le donne sono le più preoccupate per la difficile condizione di crisi del Paese: il 66,4 per cento denuncia una situazione economica nettamente peggiorata rispetto agli anni passati. D’altronde, come già sottolineato dall’Eurispes, ci troviamo di fronte alla “tempesta perfetta”. Per la prima volta, infatti, si stanno avvitando su se stesse tre crisi: oltre a quella economica e a quella sociale, si aggiunge una degenerazione preoccupante del quadro politico-istituzionale. Di conseguenza, nel 62,2 per cento dei casi le donne si trovano costrette ad utilizzare i risparmi messi da parte per pagare le spese necessarie al sostentamento della famiglia. La possibilità di risparmiare qualcosa, d’altronde, è impossibile per l’81,8 per cento delle intervistate, ci riesce solo 1 donna su 5. In parallelo, il 40,2 per cento delle donne incontra difficoltà per saldare le rate del mutuo per la casa e il 34,3 per cento ad onorare il pagamento del canone d’affitto.

IL CARICO FISCALE. In un’Italia in piena recessione la spesa che i contribuenti hanno dovuto sostenere nei confronti dello Stato è diventata insostenibile. Il 40,5 per cento delle donne indica un netto aumento del carico fiscale sostenuto nell’ultimo anno dalla propria famiglia mentre il 27,6 per cento segnala un aumento anche se lieve. Per la maggior parte delle intervistate, il 50,3 per cento, diminuire il carico fiscale equivarrebbe ad aumentare le possibilità economiche dei cittadini e riattivare i consumi. Allo stesso tempo, per il 31 per cento delle intervistate tasse più basse rappresenterebbero un fattore per il rilancio dell’economia e delle imprese.

AL POSTO LORO: LE PRIORITÀ CHE IL PROSSIMO GOVERNO DOVREBBE AFFRONTARE. Se si trovassero al posto di chi governa le donne metterebbero al primo posto tra gli interventi non più rinviabili l’aumento delle pensioni minime (91 per cento), seguito dall’introduzione di nuove politiche a sostegno delle imprese (90,3 per cento), da maggiori tutele per i lavoratori (88,6 per cento) e dall’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo (88,5 per cento). Tra gli altri interventi ritenuti urgenti, le donne segnalano anche la riforma della legge elettorale (87,2 per cento), l’introduzione dei meccanismi della redistribuzione delle ricchezza (86,9 per cento), il rientro dei capitali dall’estero (85,9 per cento) e la modifica dei meccanismi di accesso al credito (83 per cento).

LE DONNE E IL LAVORO: UNA SFIDA CONTINUA. La retribuzione è spesso causa di frustrazione tra le donne: secondo la rilevazione dell’Eurispes a non essere soddisfatte di questo aspetto del lavoro sono il 50,9 per cento delle donne (32,2 per cento poco e 18,7 per cento per niente) a fronte del 49,1 per cento di quante si dichiarano abbastanza (44,2 per cento) e molto soddisfatte (solo il 4,9 per cento). Inoltre, altra causa di preoccupazione tra le donne italiane è la mancanza di opportunità per valorizzare le competenze acquisite nel percorso formativo. Ben il 63,2 per cento delle donne non è soddisfatta delle possibilità di carriera; di queste il 26,5 per cento non lo è per niente e, di contro, solo nell’8,5 per cento dei casi le lavoratrici dichiarano di essere molto soddisfatte di poter crescere professionalmente. Quasi il 40 per cento delle lavoratrici non si sente valorizzato per le proprie capacità (26,5 per cento poco e ben il 13,1 per cento per niente) e difficilmente si riscontra una convergenza tra i propri interessi o aspirazioni personali e la professione lavorativa (è così per il 43,1 per cento delle intervistate: 15,5 per cento per niente e 27,6 per cento poco), oppure affinità con il percorso formativo (50,2 per cento).

IL LAVORO GARANTISCE UN FUTURO? Il 65,7 per cento delle lavoratrici dichiara di non essere in grado di fare progetti per il futuro (41,3 per cento poco e 24,4 per cento per niente). Nella situazione attuale, il 63,2 per cento non è poi nelle condizioni economiche/finanziarie per sostenere spese importanti. Di conseguenza, per far fronte alle spese il 38,2 per cento delle lavoratrici afferma di essere costretta a dover cercare un’altra occupazione (abbastanza 28,3 per cento e molto 9,9 per cento). Se il 42,4 per cento può ancora rinunciare a chiedere un aiuto alla famiglia, il 29 per cento dichiara di rivolgersi in parte a parenti e genitori per affrontare le difficoltà quotidiane, mentre è un comportamento che perseguono abbastanza il 19,1 per cento delle intervistate e molto il 9,5 per cento. Le difficoltà nel sostenere spese di rilievo sono particolarmente evidenti per coloro che abitano nelle regioni del Nord-Est e del Sud (che dichiarano di non poter affrontare tali spese rispettivamente nel 32,4 per cento e nel 23,9 per cento casi), seguite da quelle che vivono al Centro e nelle Isole (poco: 48,2 per cento e 47,6 per cento). Sembrano vivere una situazione migliore le donne di 35-40 anni (35,9 per cento) che risiedono nelle regioni del Nord-Ovest e nel Sud (abbastanza rispettivamente nel 33,7 per cento e nel 30,4 per cento).

RISPARMIO E TAGLI AI CONSUMI. Il 76,6 per cento delle italiane intervistate dall’Eurispes (Rapporto Italia 2013) nel corso dell’ultimo anno ha constatato una diminuzione del proprio potere d’acquisto, cioè della capacità di fare acquisti per mezzo delle proprie entrate: il 35 per cento molto, il 41,6 per cento abbastanza. Il 20,5 per cento ha riscontrato solo in misura contenuta una riduzione del proprio potere d’acquisto, il 2,9 per cento per niente. Nell’ultimo anno il 92,4 per cento del campione di italiane ha acquistato più prodotti in saldo, il 91,6 per cento ha ridotto le spese per i regali, il 90,3 per cento ha cercato punti vendita più economici per l’acquisto di vestiti, l’89,3 per cento ha ridotto le spese per i pasti fuori casa, l’88,1 per cento ha ridotto le spese per viaggi e vacanze, l’88,1 per cento ha cambiato marca di un prodotto alimentare se più conveniente, l’86,5 per cento ha ridotto le spese per gli articoli tecnologici. Il 74,5 per cento ha cercato punti vendita più economici per l’acquisto di prodotti alimentari. Quote rilevanti ma meno elevate di intervistate hanno ridotto le spese per la benzina usando di più i mezzi pubblici (52 per cento); il 38,2 per cento si è rivolto per le sue spese al mercato dell’usato.

LE COSE ALLE QUALI NON SI PUÒ RINUNCIARE. Tra le spese indispensabili, le donne italiane non rinuncerebbero soprattutto ai prodotti alimentari di qualità (39.9 per cento). Al secondo posto si collocano gli spostamenti su mezzo privato (automobile, motoveicolo), indicati dal 18,7 per cento del campione, al terzo i viaggi (12 per cento). Le altre intervistate indicano che, se costrette al risparmio, non vorrebbero fare a meno degli abiti di marca (5,4 per cento), degli articoli tecnologici (5,2 per cento), di trattamenti estetici e articoli di profumeria (2,9 per cento), di svaghi e divertimenti (2,7 per cento).

CRISI DI LIQUIDITÀ. Tra i segnali più drammatici di affanno delle italiane gli acquisti a rate (il 30,9 per cento delle donne si è rivolto al credito al consumo) e le altre forme di finanziamento (il 31,6 per cento si è rivolta ad un compro oro). Il 29,9 per cento delle donne ha svolto servizi presso conoscenti per incrementare le proprie entrate (assistenza ad anziani, sartoria, babysitter, vendita di oggetti autoprodotti, pulizie, giardinaggio). Il 27,3 per cento ha venduto beni/oggetti su canali online di compravendita (ad esempio e-Bay).

GLI ACQUISTI IN RETE. Il 61,7 per cento delle donne che navigano abitualmente sono iscritte ad almeno un gruppo d’acquisto, il 38,3 per cento a nessuno. In particolare, il 32,2 per cento ha fatto anche concretamente acquisti attraverso uno di questi gruppi, il 29,5 per cento si è invece fermata all’iscrizione senza fare acquisti. Il 29 per cento, pur non essendo iscritta, sa di cosa si tratta, mentre il 9,3 per cento non sa cosa siano. I prodotti/servizi più acquistati dalle donne tramite gruppi online sono i pasti (pranzi, cene, aperitivi), comprati dalla metà delle intervistate che hanno fatti acquisti; seguono trattamenti estetici e pacchetti benessere (47,7 per cento); viaggi (37 per cento); apparecchiature tecnologiche (30 per cento). Il 25,9 per cento ha acquistato biglietti per spettacoli/mostre, il 19,3 per cento visite mediche, il 15,2 per cento corsi, il 13,6 per cento prodotti alimentari. Il 21 per cento ha comprato altri prodotti/servizi.
 

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Obesità infantile: Miraglia, “c’è un legame tra il Bisfenolo A e l’insulino-resistenza”

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Comunemente utilizzato fino a qualche tempo fa per la produzione di biberon, e ancora oggi presente in bicchieri, lattine per bibite e altri contenitori di plastica per gli alimenti, il Bisfenolo A (BPA) sostanza chimica usata prevalentemente in associazione con altri composti per produrre plastiche e resine, potrebbe avere un ruolo importante nel’obesità infantile. A stabilire la relazione tra questa sostanza e il sovrappeso dei bambini uno studio condotto da un team di ricercatori della Seconda Università degli Studi di Napoli su 100 bambini obesi che ha evidenziato una correlazione tra Bisfenolo A e la resistenza insulinica, solitamente associata all’obesità.

I risultati di questa ricerca sono stati presentati all’ultimo Congresso della Società italiana diPediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), mentre i lavori effettuati in collaborazione con il CNR di Napoli, sono stati seguiti da Emanuele Miraglia del Giudice, professore associato di Pediatria del Dipartimento della Donna, del Bambino e di Chirurgia Generale e Specialistica diretto dalla professoressa Laura Perrone. “Con questo studio, unico nel suo genere in Italia – ha spiegato il professor Miraglia – abbiamo misurato i livelli di BPA nelle urine di circa 100 bambini obesi campani. Il dato nuovo e originale dello studio è il riscontro di una correlazione positiva tra i livelli di BPA urinario e il grado di insulino-resistenza in tali bambini. In altre parole, più alti erano i livelli di BPA e maggiore era l’insulino-resistenza”. “Poiché l’insulino-resistenza è correlata con le complicanze dell’obesità – ha poi aggiunto -, è possibile ipotizzare che il BPA giochi un ruolo rilevante nella modulazione di complicanze come l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia e la sindrome metabolica anche nell’obesità pediatrica”.

Uno studio che apre una nuova prospettiva nella gestione dell’obesità infantile che, in Italia,colpisce quasi un bambino su quattro; in Campania quasi la metà dei bambini tra i 6 e i 10 anni è obeso o in sovrappeso. Si definisce obeso un bambino il cui peso supera del 40 per cento quello ideale, mentre si definisce in sovrappeso se lo supera del 20-40 per cento, oppure quando il suo Indice di Massa Corporea (BMI – Body Mass Index) è maggiore del previsto. Per evitare l’obesità è importante tenere sotto controllo il peso del bambino sin dalle prime epoche di vita facendo riferimento alle tabelle dei percentili, uno strumento che consente di verificare quanto il peso e l’altezza si discostano dalla norma.

BISFENOLO A: IDENTIKIT DI UNA SOSTANZA. Il bisfenolo A (BPA) è una sostanza chimica usata prevalentemente in associazione con altre sostanze chimiche per produrre plastiche e resine. È impiegato, ad esempio, nel policarbonato, un tipo di plastica rigida trasparente utilizzato per produrre recipienti per uso alimentare come le bottiglie per bibite con il sistema del vuoto a rendere, i biberon, le stoviglie di plastica (piatti e tazze) e i recipienti di plastica. Residui di BPA sono presenti anche nelle resine epossidiche usate per produrre pellicole e rivestimenti protettivi per lattine e tini. Il BPA può comunque migrare in piccole quantità nei cibi e nelle bevande conservati in materiali che lo contengono.

Proprio per questo motivo, è balzato all’attenzione della cronaca perché contenuto nei biberon e in altri oggetti destinati a neonati e bambini, una situazione che ha poi portato a vietare il suo utilizzo in molti Paesi. In seguito al recepimento della direttiva europea 2011/8/EU, in Italia è stata vietata la vendita e l’importazione di biberon contenenti BPA a partire dal giugno 2011, di fatto, però, il Bisfenolo A continua ad essere presente in moltiprodotti destinati ai bambini e agli adulti, come stoviglie e bottiglie di plastica, vernici per lattine, prodotti farmaceutici e confezioni alimentari.

QUALI PRECAUZIONI ASSUMERE? È possibile ridurre al minimo l’esposizione dei bambini e degli adulti al bisfenolo A, adottando le seguenti misure precauzionali elencate dall’Istituto Superiore di Sanità:

• Non usare contenitori alimentari in policarbonato nel microonde. Il policarbonato è forte e durevole, ma con l’usura causata dal tempo e dalle temperature elevate potrebbe rilasciare BPA.

• Ridurre l’uso di cibi in scatola, in particolare per i cibi caldi o liquidi. Optare, invece, per vetro, porcellana o contenitori di acciaio inox senza rivestimenti interni in plastica.

• Gettare biberon, stoviglie e posate in plastica molto vecchi,  usurati, ingialliti e sostituirli con altri più nuovi o con recipienti in vetro o ceramica.

• Se si vive in un paese extra-UE, scegliere biberon privi di BPA.

• Quando si usa una bottiglia di acqua in plastica, non ri-utilizzarla più volte ed evitarne il riscaldamento.

• Adottare una accurata igiene orale in modo da ridurre la necessità di cure dentali (il materiale utilizzato per le otturazioni dei denti può contenere bisfenolo A)

 

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‘Hotel Transylvania’: quando i mostri vanno in vacanza!

Dai produttori dei ‘I Puffi’ e dal regista della serie animata ‘Star Wars: the clone’s war’, arriva il film animato che parla di tolleranza e affetti familiari, con tante risate e tante creature, un po’ pasticcione ma assolutamente irresistibili

Fonte: © Sony Pictures Animation 2012

 

“Sono il mostro Frankenstein… Io sono il ConteDracula ulalà! Io sono l’Uomo Lupo famelico! Siamo mostri strani ma con molta umanità!”. Probabilmente la generazione over 30 ricorderà il jingle di ‘Carletto il Principe dei mostri’, cartone animato giapponese semiserio che ha divertito tantissimi bambini. L’idea del “tutti insieme appassionatamente” dei vari mostri cinematografico-letterari, infatti, ha sempre appassionato grandi e piccini. E forse è proprio per questo voler ritornare alle vecchie, care, quasi rassicuranti, creature della fantasia che Genndy Tartakovsky, già regista della serie animata tv ‘Star Wars: la guerra dei Cloni’, ha diretto per la Sony Pictures Animation ‘Hotel Transylvania’.

In questa pellicola troviamo il Conte Draculache, per proteggere sua figlia Mavis dagli umani, ha costruito un Resort a cinque stelle, ‘Hotel Transylvania’, un posto dove i mostri e le loro rispettive famiglie possono divertirsi, liberi di essere sé stessi, senza la presenza di esseri umani a dar loro fastidio. Sono proprio questi ultimi, infatti, la più grande minaccia per l’esistenza dei mostri, e lo sa bene il buon Conte che ha perso la sua consorte proprio in uno scontro con gli umani. Così la roccaforte diventa un ottimo bastione contro il mondo esterno. Ma la piccola draculina Mavis, però, non è dello stesso avviso. Per colpa dell’iperprotettivo padre, infatti, la sua vita è simile a quella di una reclusa.

Ma il giorno del 118° compleanno di Mavis è quasi vicino, così come il regalo di ricevere finalmente
 un po’ di libertà. Mentre fervono i preparativi per la festa di compleanno che chiama a raccolta i mostri di tutto il mondo dall’uomo invisibile, a Frankenstein passando per la Mummia, arriva l’imprevisto che sconvolgerà l’intero castello, i suoi abitanti ed i piani del vampiro. In hotel arriva infatti il ventunenne Jonathan che, zaino in spalla, varca inaspettatamente la porta girevole della hall. Per evitare il panico tra i suoi ospiti, Dracula non può far altro che mascherarlo da mostro, una sottospecie di cugino di Frankenstein, e cercare di cacciarlo il prima possibile. Peccato che Mavis provi, una volta visto il giovane, se ne innamora. Tutto questo porterà il vampiro a fare i conti col “mondo di fuori”, con una figlia che sta crescendo e col proprio passato.

‘HOTEL TRANSYLVANIA’ RACCONTATO DAI SUOI DOPPIATORI ITALIANI


In questa pellicola il regista Genndy Tartakovsky ce la mette tutta a far divertire lo spettatore. Edal momento che si ride dall’inizio alla fine, l’obiettivo è stato centrato in pieno. Nonostante questo, il film lascia nello spettatore una sorta di riflessione. I mostri non sono cattivi, brutti magari un po’ sì, sporchi qualcuno, ma conta la sostanza. Ecco quindi che il regista vuole far riflettere sulla paura per l’altro e dell’altro! Perché in questo caso non sono tanto gli umani a temere i mostri, che anzi come si vedrà in seguito ne sono attratti, ma il contrario. Quindi riprende alcune tematiche affrontate sia in ‘Monsters&Co’ quanto, anche se con toni diversissimi, nel ‘Cabal’ di Clive Barker.


[© Sony Pictures Animation 2012]

Dracula potrebbe sbarazzarsi rapidamente del giovane Jonathan, senza che nessuno se neaccorga, ma “se lo uccido i mostri faranno un balzo indietro di secoli!” e non solo al suo amico umano dirà “sei sicuro che tutti i tuoi simili saranno in grado di accettarci?” e l’altro con uno sguardo sconsolato fa “no”. Ma si ragiona anche sul rapporto genitori-figli, nello specifico padre-figlia, sulla difficoltà di accettare che i bambini crescano, che non si può impedir loro di diventar adulti, innamorarsi, farsi anche male, illudendosi che chiudendoli dentro una gabbia dorata tutto vada bene. 

Tartakovsky si prende anche gioco di ‘Twilight’ mostrando un’immagine della serie con un Dracula disgustato che fa “Bleah! Così ci dipingono adesso!”. Nella versione italiana buono è il doppiaggio, sia per la prova di Bisio, che parla con un formidabile accento romeno, che per la e sia per la traduzione, che conserva lo smalto della battute originali e delle canzoni. Il film ha avuto un grande successo sia Oltreoceano che in Italia dove è stato al primo posto bei botteghini, superando il nuovo 007, per venire scalzato, ironia della sorte, proprio dall’ultimo e fin troppo strombazzato capitolo della saga vampiresca di Twilight più melensa della storia. 

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Specie umana: e se l’estinzione fosse stata evitata grazie a una mutazione genetica?

Secondo una ricerca dell’Itb-Cnr, “100 mila anni fa si è diffusa un’alterazione che ha portato all’inattivazione di due geni legati al sistema immunitario che costituiscono la principale causa di morte nel periodo prenatale e nei neonati”

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Proprio ai suoi albori, la specie umana è stata a un passo dall’estinzione: si stima che fra 200mila e 100mila anni fa la popolazione dei nostri antenati sia crollata fino al limite critico di 10 mila, forse addirittura 5 mila membri. Successivamente, però, si è verificato un boom demografico che ci ha permesso di diffonderci sempre di più, nel continente africano prima, e nel resto del mondo poi. Che cosa aveva provocato quel ‘collo di bottiglia’ nell’espansione della nostra specie e che cosa ha permesso di superarlo? Le ipotesi proposte sono molte: dai progressi culturali, come lo sviluppo del linguaggio, ai cambiamenti climatici, fino ad eventi naturali catastrofici, come un’imponente eruzione vulcanica.

Oggi, una ricerca condotta da un gruppo internazionale di biologi e paleoantropologi dell’Istituto di tecnologie biomediche (Itb) del Cnr, pubblicata su ‘Proceedings of the National Academy of Sciences Usa’, propone un nuovo fattore significativo: le malattie infettive. “Circa 100 mila anni fa nella nostra specie si è diffusa una mutazione che ha portato all’inattivazione di due geni legati al sistema immunitario – ha spiegato Ermanno Rizzi dell’Itb-Cnr -, conferendo una migliore protezione da alcuni ceppi batterici patogeni, come ‘Escherichia coli K1’ e streptococchi di gruppo B, che costituiscono la principale causa di morte nel periodo prenatale e nei neonati”.

Il gruppo di cui il dottor Rizzi fa parte, formato da 13 persone che coprono sia la partesperimentale sia quella bioinformatica delle tecnologie ‘Next generation sequencing’, è coordinato da Gianluca De Bellis sempre dell’Itb-Cnr, che è stato coinvolto in quanto primo laboratorio in Italia ad utilizzare le tecnologie di sequenziamento ultramassivo di nuova generazione, indispensabili a questo progetto. “Abbiamo scoperto – ha proseguito il ricercatore – due geni che non sono funzionali negli esseri umani, mentre lo sono nei primati più prossimi a noi, e che avrebbero potuto essere l’obiettivo di batteri patogeni letali per neonati e bambini con un impatto significativo sulla capacità riproduttiva e, quindi, sula sopravvivenza della specie”.

Secondo il team di ricercatori, dunque, nei nostri antenati si sarebbe verificata l’inattivazione di due recettori per l’acido sialico che modulano le risposte immunitarie e fanno parte di una grande famiglia di geni che sarebbe stata molto attiva nell’evoluzione umana. È stato scoperto che il gene ‘Siglec’ che codifica per la proteina ‘Siglec-13’ non fa più parte del nostro genoma, anche se rimane integro e funzionale negli scimpanzé. L’altro gene, che codifica per la proteina ‘Siglec-17’, è ancora espresso negli esseri umani, ma sembra leggermente modificato e produce una proteina più corta, priva di utilità per gli agenti patogeni invasivi. Gli umani avrebbero, cioè, ‘oscurato’ dal proprio corredo geneticale le proteine sfruttate dall’agente patogeno per prendere il sopravvento.

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