Specie umana: e se l’estinzione fosse stata evitata grazie a una mutazione genetica?

Secondo una ricerca dell’Itb-Cnr, “100 mila anni fa si è diffusa un’alterazione che ha portato all’inattivazione di due geni legati al sistema immunitario che costituiscono la principale causa di morte nel periodo prenatale e nei neonati”

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Proprio ai suoi albori, la specie umana è stata a un passo dall’estinzione: si stima che fra 200mila e 100mila anni fa la popolazione dei nostri antenati sia crollata fino al limite critico di 10 mila, forse addirittura 5 mila membri. Successivamente, però, si è verificato un boom demografico che ci ha permesso di diffonderci sempre di più, nel continente africano prima, e nel resto del mondo poi. Che cosa aveva provocato quel ‘collo di bottiglia’ nell’espansione della nostra specie e che cosa ha permesso di superarlo? Le ipotesi proposte sono molte: dai progressi culturali, come lo sviluppo del linguaggio, ai cambiamenti climatici, fino ad eventi naturali catastrofici, come un’imponente eruzione vulcanica.

Oggi, una ricerca condotta da un gruppo internazionale di biologi e paleoantropologi dell’Istituto di tecnologie biomediche (Itb) del Cnr, pubblicata su ‘Proceedings of the National Academy of Sciences Usa’, propone un nuovo fattore significativo: le malattie infettive. “Circa 100 mila anni fa nella nostra specie si è diffusa una mutazione che ha portato all’inattivazione di due geni legati al sistema immunitario – ha spiegato Ermanno Rizzi dell’Itb-Cnr -, conferendo una migliore protezione da alcuni ceppi batterici patogeni, come ‘Escherichia coli K1’ e streptococchi di gruppo B, che costituiscono la principale causa di morte nel periodo prenatale e nei neonati”.

Il gruppo di cui il dottor Rizzi fa parte, formato da 13 persone che coprono sia la partesperimentale sia quella bioinformatica delle tecnologie ‘Next generation sequencing’, è coordinato da Gianluca De Bellis sempre dell’Itb-Cnr, che è stato coinvolto in quanto primo laboratorio in Italia ad utilizzare le tecnologie di sequenziamento ultramassivo di nuova generazione, indispensabili a questo progetto. “Abbiamo scoperto – ha proseguito il ricercatore – due geni che non sono funzionali negli esseri umani, mentre lo sono nei primati più prossimi a noi, e che avrebbero potuto essere l’obiettivo di batteri patogeni letali per neonati e bambini con un impatto significativo sulla capacità riproduttiva e, quindi, sula sopravvivenza della specie”.

Secondo il team di ricercatori, dunque, nei nostri antenati si sarebbe verificata l’inattivazione di due recettori per l’acido sialico che modulano le risposte immunitarie e fanno parte di una grande famiglia di geni che sarebbe stata molto attiva nell’evoluzione umana. È stato scoperto che il gene ‘Siglec’ che codifica per la proteina ‘Siglec-13’ non fa più parte del nostro genoma, anche se rimane integro e funzionale negli scimpanzé. L’altro gene, che codifica per la proteina ‘Siglec-17’, è ancora espresso negli esseri umani, ma sembra leggermente modificato e produce una proteina più corta, priva di utilità per gli agenti patogeni invasivi. Gli umani avrebbero, cioè, ‘oscurato’ dal proprio corredo geneticale le proteine sfruttate dall’agente patogeno per prendere il sopravvento.

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