Collaboratori domestici e crisi economica: così i familiari prendono il posto dei badanti

Nonostante gli assistenti stranieri siano aumentati del 53% in dieci anni, la spesa media di 667€ al mese per sostenerli è diventata elevata in bilancio. Così nel 15% dei casi un membro dello stesso nucleo ha lasciato il lavoro per assistere un congiunto

» FamigliaAura De Luca – 24/05/2013
 
Fonte: Immagine dal web

 

Di loro c’è un bisogno divenuto negli ultimi anniquasi irrinunciabile. Eppure, nonostante la loro presenza sia aumentata del 53 per cento in dieci anni, avvalersi dei servizi di assistenza familiare di badanti e collaboratori domestici, soprattutto in tempi di crisi, per molti italiani è divenuto un costo troppo alto da sostenere. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis e dall’Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) per il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali da cui viene fuori che sostenere un badante all’interno di un nucleo costa, in media, 667 euro al mese per famiglia. 

È vero, evidenzia il dossier, che il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Ma è anche vero che i servizi di collaborazione domestica in Italia sono caratterizzati ancora da una forte destrutturazione, soprattutto quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Non solo. Questo tipo di welfare, cosiddetto ‘informale’, ha un costo che grava quasi interamente sulle famiglie e, stando ai numeri del Censis, solo il 31,4 per cento riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si traduce per i più nell’accompagno. Ecco perché, in un contesto di questo genere, soprattutto con una domanda crescente di protezione sociale, viene sottolineate l’importanza di incrociare il ‘welfare familiare’, che impiega rilevanti risorse private, con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantirne la sostenibilità sociale.

I DATI IN GENERALE. Nell’ultimo decennio l’area dei servizi di cura e assistenza per le famiglie ha rappresentato per il nostro Paese un grande bacino occupazionale. Il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53 per cento), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3 per cento del totale dei collaboratori. Sono 2 milioni 600mila le famiglie (il 10,4 per cento del totale) che hanno attivato servizi di collaborazione, di assistenza per anziani o persone non autosufficienti, e di baby sitting. E si stima che, mantenendo stabile il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei collaboratori salirà a 2 milioni 151mila nel 2030 (circa 500mila in più). 

UN SERVIZIO ASSISTENZIALE ANCORA MOLTO DESTRUTTURATO NONOSTANTE LA CRESCENTE DOMNADA. I servizi di collaborazione domestica in Italia si caratterizzano ancora per la forte destrutturazione, anche quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Si configurano come un lavoro domestico a tutto tondo, con una quota dell’83,4 per cento dei collaboratori occupati nel governo della casa, fino all’assistenza avanzata a persone non autosufficienti (15,3 per cento) e a bambini (18,3 per cento). C’è poi una sottovalutazione del valore delle competenze, visto che solo il 14,3 per cento dei collaboratori ha seguito un percorso formativo specifico, sebbene il 60 per cento di essi si occupi dell’assistenza di una persona anziana. 

DA LAVORO DI “RIPIEGO” A PROFESSIONE CHE GLI STRANIERI SCELGONO SEMPRE PIÙ CONSAPEVOLMENTE. Va sottolineata anche l’assenza di intermediazione nel rapporto di lavoro. Solo il 19 per cento delle famiglie si avvale di intermediari per il reclutamento. Ed esiste un’ampia area di lavoro totalmente irregolare (il 27,7 per cento dei collaboratori) e “grigio” (il 37,8 per cento) che si accompagna però al progressivo consolidamento di un quadro di tutele. La scelta lavorativa dei collaboratori ha un carattere residuale, se il 71 per cento di essi si trova nell’attuale condizione per necessità e il 35,4 per cento perché ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41 per cento). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali hanno fatto apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza (il 70 per cento) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16 per cento sta cercando attivamente un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani il 25 per cento).  

LE DIFFICIOLTÀ DI INCONTRO E DI GESTIONE TRA DOMANDA E OFFERTA. In questo quadro, non possono essere trascurate le difficoltà che sempre più famiglie incontrano non solo nel reclutamento, ma anche nella gestione del rapporto con i collaboratori. La pesantezza del “fattore organizzativo” le porta oggi a chiedere con forza, oltre agli sgravi di natura economica, una maggiore semplificazione per l’assunzione e la regolarizzazione dei collaboratori (lo chiede il 34 per cento contro il 40 per cento che richiede gli sgravi), ma anche servizi che sul territorio favoriscano l’incontro tra domanda e offerta (29 per cento). Inoltre, il 34,5 per cento delle famiglie vorrebbe l’istituzione di registri di collaboratori al fine di garantirne la professionalità, il 39 per cento vorrebbe invece che venissero create o potenziate le strutture che si occupano di reclutamento, mentre il 25,7 per cento sarebbe pronto ad affidarsi totalmente a un’agenzia privata che sollevi la famiglia da tutte le incombenze di carattere burocratico e gestionale. 

IL WELFARE INFORMALE È QUASI INTERAMENTE A CARICO DEI FAMILIARI. Ma le vere incognite che oggi incombono sulla sostenibilità del sistema sono soprattutto di natura economica. Il welfare informale ha un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari. A fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4 per cento delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’accompagno (19,9 per cento). Se la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5 per cento sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4 per cento) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2 per cento ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2 per cento ha intaccato i propri risparmi, il 2,8 per cento si è dovuto addirittura indebitare. L’irrinunciabilità del servizio sta peraltro portando alcune famiglie (il 15 per cento, ma al Nord la percentuale arriva al 20 per cento) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa rinunci al lavoro per prendere il posto del collaboratore.

DEI BADANTI C’È BISOGNO MA PER MOLTI IL COSTO DEL SERVIZIO È GIÀ DA ORA INSOSTENIBILE. Intrappolate nella spirale perversa delle esigenze crescenti a fronte di risorse calanti, il 44,4 per cento delle famiglie pensa che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di aumentare il numero dei collaboratori o delle ore di lavoro svolte. Ma al tempo stesso la metà delle famiglie (il 49,4 per cento) sa che avrà sempre più difficoltà a sostenere il servizio e il 41,7 per cento pensa addirittura che dovrà rinunciarci.

TRA I PARENTI CHE DECIDONO DI ASSISTERE UN FAMILIARE LA MAGGIORNAZA SONO DONNE CHE LASCIANO IL LAVORO. Tra le famiglie attualmente prive di badante, il 20 per cento dichiara che in casa è presente una persona che ha bisogno di cura e assistenza. In questi casi non ci sono esborsi economici da sostenere, ma un costo non irrilevante grava comunque sulla famiglia: la rinuncia a lavorare da parte di un suo componente. Si stima che nel 25 per cento delle famiglie in cui è presente una persona da assistere, e non si possa ricorrere ai servizi di un collaboratore, vi è una donna (nel 90,4 per cento dei casi) giovane (il 66 per cento ha meno di 44 anni) che ha rinunciato al lavoro interrompendolo (9,7 per cento), riducendo significativamente l’impegno (8,6 per cento) o smettendo di cercarlo (6,7 per cento).

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