Come nasce un cancro? Cosa sono i cancerogeni e come avviene la cancerogenesi

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Cancerogenesi e cancro

La cancerogenesi è un processo che porta alla formazione del cancro. Il cancro è un insieme di patologie caratterizzate da un incontrollato accrescimento di cellule anomale. Queste cellule danno origine ad una popolazione cellulare che – oltre alla capacità di riprodursi velocemente – possiede molte caratteristiche, come le capacità di resistenza e la possibilità di invadere sia gli organi ed i tessuti più vicini che quelli più lontani.

La cancerogenesi può essere causata da agenti genotossici ed in tal caso si parla di CANCEROGENESI MUTAZIONALE. Tuttavia, la cancerogenesi può essere causata anche da agenti non genotossici o da agenti epigenetici, per cui viene chiamata CANCEROGENESI EPIGENETICA.

Nella cancerogenesi mutazionale gli agenti genotossici e DNA-reattivi vanno a provocare una mutazione nella cellula sana. Questa mutazione provoca un’alterazione del materiale genico all’interno della cellula, quindi porterà alla formazione diretta di neoplasie. Nella mutazione epigenetica, invece, la cellula “sana” contiene già i geni per lo sviluppo del cancro. Questi geni inizialmente si presentano in modalità inattiva, però possono essere attivati dall’azione di particolari agenti promotori o epigenetici.

Gli agenti epigenetici possono essere degli ormoni (estrogeni coniugati), immunosoppressori, sostanze allo stato solido (materiale plastico ed eternit/amianto o asbesto), le TCDD (2,3,7,8-tetraclorurodibenzo-p-diossina, note come diossine) e gli esteri del forbolo (tetradecanoilforbolo acetato, DDT).
Molto importante ricordare che un mutageno può diventare un cancerogeno, ma non è detto che un cancerogeno sia un mutageno.
Che cos’è un cancerogeno?

Il cancerogeno è una sostanza che dà origine a neoformazioni tissutali con caratteristiche atipiche. Non è sempre detto che le neoformazioni tissutali siano maligne; può anche darsi che la neoformazione sia benigna e poi con il tempo si trasformi in maligna, o rimanga tale. In qualunque caso di neoformazioni bisogna sempre rivolgersi ad un medico specializzato che tenga sotto controllo la situazione della crescita cellulare.

I cancerogeni a loro volta possono anche classificarsi in:
CANCEROGENI CON ATTIVAZIONE-INDIPENDENTE o DIRETTI: i cancerogeni primari o diretti, come per esempio gli agenti alchilanti o gli isotopi radioattivi, sono già attivi e non necessitano di attivazioni metaboliche per esplicare la loro azione tumorale;
CANCEROGENI CON ATTIVAZIONE-DIPENDENTE o INDIRETTI: i cancerogeni indiretti, noti anche come cancerogeni secondari o procancerogeni (ammine aromatiche, IPA), devono essere prima attivati da metabolizzazioni per esplicare la loro attività cancerogena. La maggior parte dei cancerogeni sono di questo tipo.

Che cos’è il genotossico?

Il genotossico è una sostanza che deriva da un progenotossico, il quale – per diventare tale ed indurre una mutazione – deve subire una bioattivazione metabolica. La stessa cosa si può applicare anche per il cancerogeno. Quindi il cancerogeno terminale deriva dal procancerogeno attivato con una bioattivazione.

Ritornando al percorso dello sviluppo della cancerogenesi, se la cellula subisce una mutazione al materiale genico può ripararsi o andare in contro ad apoptosi. Se la fase di riparazione o la morte cellulare non ha avuto un buon successo, durante la replicazione della cellula mutata l’alterazione viene trasmessa a livello delle cellule figlie. Fortunatamente, la mutazione può essere silente ed in tal caso non c’è il verificarsi di neoplasie, ma se la mutazione ha colpito particolari geni della cellula (onco-soppressori o proto-oncogeni), quest’ultima si avvia verso la produzione di tessuto neoplastico. Lo sviluppo del tumore è regolato da due particolari proteine (geni) che sono:
PROTO-ONCOGENI: accelerano l’attività di proliferazione del tumore riducendo l’apoptosi cellulare;
ONCO-SOPPRESSORI: rallentano l’attività di proliferazione del tumore aumentando l’apoptosi cellulare.

Normalmente l’attività di questi due geni è bilanciata; fanno cioè in modo di controllarsi a vicenda e la cellula ha uno sviluppo controllato. Con l’intervento di una mutazione che sbilancia tale equilibrio, avremo un’elevata attività dei proto-oncogeni ed un’eccessiva riduzione degli onco-soppressori. In seguito a questo sbilanciamento la cellula va in contro a formazione neoplastica.
Un esempio di proto-oncogeni è il gene ras, mentre tra gli onco-soppressori ricordiamo le p53. È stato constatato che nel 50% dei casi una mutazione a livello delle proteine p53 provoca la formazione di tumori nell’uomo. Le proteine p53 vengono anche definite “guardiani del genoma”, quindi sono in grado di bloccare il ciclo cellulare in caso di avvenuta mutazione. Con il blocco del ciclo cellulare permette alla cellula di riparare e indurre apoptosi in caso di fallimento.
Le tappe della cancerogenesi

La cancerogenesi è composta principalmente da 3 tappe.

La prima tappa è la fase di INIZIAZIONE ed è dovuta al contato con il genotossico, che va provocare la mutazione nelle cellule. Le cellule che hanno la mutazione vengono chiamate anche cellule iniziate. Non è detto che questo danno provochi il tumore, ma in molti casi le cellule hanno proprio bisogno di questo promotore che agevoli l’azione di sviluppo della neoplasia.

La seconda tappa è quella di PROMOZIONE, che non è un qualcosa di positivo perché in questa fase le cellule iniziano tumore la loro moltiplicazione dando origine ad un raggruppamento di cellule con genoma modificato.

Infine, la terza ed ultima tappa è la PROGRESSIONE, che inizialmente si presenta con raggruppamento di cellule benigne (neoplasia benigna), però con il passare del tempo le cellule benigne si trasformano in cellule maligne, in seguito all’intervento di altri promotori o altre mutazioni.
Molto importante per lo sviluppo del tumore è l’esatta sequenza delle tappe ora descritte.

FONTE

Scoperta la proteina che porta al cancro

Scoperta la proteina che porta al cancro
Milano – I ricercatori dell’Università Statale di Milano in collaborazione con i colleghi di Harvard hanno scoperto una proteina che facilita la trasformazione delle cellule in tumori. 
Sarebbe la proteina NF-Y, che regola l’utilizzo del Dna all’interno delle cellule, a portare il cancro nell’organismo. 
Lo scopo degli esperti è quello di isolare la proteina in questione per frenare il processo di sviluppo del tumore, per arrivare a una nuova strategia di cura della malattia.

Volto, impronte, voce… le dieci cose per cui siamo unici (e identificabili)

La nostra carta d’identità è il genoma, un “pin” di tre miliardi di cifre. Ma decrittarlo rapidamente (anche in parte) è impossibile. così scienza e polizie cercano altri metodi per riconoscerci. Saranno affidabili?

di ALEX SARAGOSA


L’Fbi riconoscerà le persone guardandole in faccia. Detta così la notizia non sembra un granché, ma è potenzialmente sconvolgente. Quello che ha annunciato la polizia federale americana a metà settembre è l’avvio del nuovo programma di identificazione Ngi (Next Generation Identification), che affiancherà al classico archivio di foto più impronte digitali di criminali e sospetti (ma anche di militari, poliziotti e altri impiegati pubblici) quello dei dati biometrici di volto, iride e voce. 

In futuro, con nuovi sistemi informatici di riconoscimento in tempo reale, in parte già disponibili, l’Fbi potrebbe così identificare all’istante ogni persona (presente nei suoi archivi, ma anche di cui abbia solo una buona foto o registrazione sonora) che passi davanti a una telecamera di sorveglianza o parli a portata di microfono spia. 

Per l’Fbi è la scoperta del santo Graal dell’identificazione rapida e inequivocabile di criminali e terroristi, per noi incarna l’incubo orwelliano dello Stato in grado di conoscere ogni nostra mossa. Ma funzionerà? Per distinguere una persona da tutte le altre bisogna essere certi di aver trovato un elemento che resti costante nel tempo, non sia alterabile e sia tanto personale da renderci diversi dagli altri sette miliardi di altri esseri umani sul pianeta. 

In effetti una carta di identità perfetta ci sarebbe, ed è il Dna. Il nostro genoma si può infatti considerare una sorta di Pin lungo tre miliardi di “cifre” 

 

(le basi azotate adenina, citosina, guanina e timina che si alternano). Tutte le sue possibili varianti, cioè quattro elevato a 3 miliardi, formano un numero tale da assicurarci che, a eccezione dei gemelli monozigoti, nessuno dei cento miliardi di esseri umani vissuti finora ha avuto il Dna di un altro. 

Per la verità, il 99,5 per cento del genoma è comune a tutti gli esseri umani, e la nostra individualità poggia su quella quindicina di milioni di basi che formano i geni che esprimono i tratti fisici e psicologici personali, ma la quantità di possibili combinazioni resta più che sufficiente a garantire l’unicità di ogni persona che sia mai vissuta. 

Decrittare rapidamente, economicamente e senza rischio di errori, a scopo identificativo, quello 0,5 per cento di Dna individuale è però ancora impossibile, e anche l’analisi semplificata di tredici brevi parti del Dna particolarmente mutevoli, usata normalmente nella medicina legale, resta affare complesso, costoso e soggetto a errori o ambiguità, come dimostrano, per esempio, le indagini sull’assassinio di Meredith Kercher a Perugia. 

Cosa potremmo considerare allora un indicatore pratico della nostra identità personale? La prima opzione è stata puntare su quelle caratteristiche fisiche legate al Dna, che, in pratica, ne sono un’accessibile rappresentazione esterna. Il viso, per esempio: colore e tipo di pelle, occhi, naso, bocca e capelli sono diretta espressione di un insieme di geni (per questo i gemelli “identici” sono tali).

Il consorzio scientifico International Visible Trait Genetics ha però scoperto che questi geni sono pochissimi: in una ricerca pubblicata a metà settembre affermano, dopo aver esaminato il genoma di diecimila persone, che l’aspetto del nostro volto dipende dal funzionamento di appena cinque geni.

Questo fa capire quanto le possibilità di variazioni del volto siano limitate: quindi la probabilità di avere da qualche parte dei sosia, o almeno persone che ci somigliano molto, sono troppo alte per poter contare sul viso come carta d’identità veramente affidabile. 

A peggiorare le cose ci sono poi le modifiche dovute all’invecchiamento, l’uso di accessori che coprono il volto e il fatto che nella realtà ombre e luci distorcono i lineamenti. Le difficoltà di questo approccio le ha dimostrate una recente ricerca condotta all’Università norvegese di GjØvik: i ricercatori hanno usato sia volontari umani che un sistema computerizzato di riconoscimento dei volti per individuare più foto delle stesse persone in un insieme di migliaia di immagini.

 Hanno scoperto che sia gli uomini che il computer commettevano un’inaccettabile quantità di errori, scambiando spesso persone diverse per la stessa. Del resto Innocence Project, un’organizzazione che negli Usa è riuscita a far liberare dalla prigione trecento innocenti riesaminando le prove della loro condanna, afferma che nel 70 per cento dei casi l’errore è dovuto a un’identificazione errata da parte di testimoni oculari.

Ma la scienza della biometria non si è certo fermata ai volti: visto che questi non sono molto affidabili, adesso si punta su quelle caratteristiche fisiche che, pur essendo determinate di base dal Dna, ognuno di noi sviluppa poi in modo diverso. Per esempio le impronte digitali, la cui formazione dipende dalla distribuzione di fibre connettive sotto la punta delle dita, che viene modificata casualmente dal contatto delle mani del feto con la placenta. 

Per questo anche i gemelli monozigoti hanno impronte molto simili ma non identiche. Finora, in miliardi di controlli, non sono state mai trovate due impronte uguali. Alcune possono però essere ingannevolmente simili e determinare clamorosi errori di identificazione. 

Come quello che portò all’arresto di Brandon Mayfield, un avvocato americano le cui impronte, secondo l’Fbi, coincidevano con quelle rilevate sulle bombe esplose a Madrid nel 2004.

Successivi riscontri fatti in Spagna scagionarono invece Mayfield completamente. Che le impronte fossero un metodo identificativo tutt’altro che perfetto si sapeva comunque già dal 1995, quando a 156 esperti vennero sottoposte sette impronte, chiedendo loro di associarle ai quattro possibili sospetti di cui avevano le schede: solo 68 esperti riuscirono a identificare correttamente tutte e sette le impronte.

Più promettente sembra essere l’identificazione attraverso un’altra parte del corpo che si sviluppa in modo molto diverso in ogni individuo nel periodo intrauterino: l’occhio. L’identificazione avviene misurando pieghe e macchioline di pigmento che costellano il muscolo circolare dell’iride, o la struttura a ragnatela dei vasi sanguigni della retina.

Il fatto che l’occhio, pur se esplorabile dall’esterno, sia un organo interno offre garanzie di protezione e stabilità alle sue strutture. Certo, nessuno ha ancora dimostrato che tutti gli occhi esistenti al mondo sono diversi, ma la velocità dell’identificazione con un’invisibile scansione ottica dell’occhio  –  possibile anche a metri di distanza  –  seguita da un quasi istantaneo raffronto in database computerizzati, ha fatto sì che questo metodo sia già usato in diversi aeroporti e zone protette nel mondo, sia per l’accesso degli autorizzati sia per il riconoscimento di potenziali pericoli.

L’uso della scansione dell’occhio, in assenza di personale, può però essere rischioso, perché i lettori potrebbero essere ingannati da fotografie di iridi o, come ipotizzato nel film Minority Report, da occhi estratti dall’orbita.

La scansione della retina sarebbe più affidabile, ma richiede che il soggetto fissi lo scanner da vicino, e quindi è più lenta e meno pratica. Molto meno noto è un nuovo filone della ricerca biometrica: la misura delle orecchie. I padiglioni esterni nascono da tre lobi nella testa dell’embrione, identici per tutti, ma che poi si sviluppano casualmente, formando una struttura diversa da persona a persona.

Nel 1989 si dimostrò, usando foto di orecchie di diecimila persone, che ognuna di esse era distinguibile dalle altre e quest’anno ricercatori dell’Università di Miami hanno ideato un sistema computerizzato che trasforma l’immagine dell’orecchio in dati numerici e potrebbe servire per realizzare un database di “identificazione auricolare”.

Le orecchie, però, spesso non sono ben visibili nelle immagini, si modificano con l’età e la loro forma può essere alterata da piercing e ornamenti. Non è detto, comunque, che la nostra individualità sia percepibile solo attraverso la vista. Che dire, per esempio, dell’odore?

Ognuno di noi ha una diversa combinazione di ghiandole odorifere e un diverso mix di batteri, in grado di alterare l’odore delle molecole che quelle emettono. Una ricerca condotta dall’etologo Dustin Penn su 197 austriaci ha rivelato che il corpo umano emette ben cinquemila sostanze organiche volatili, soprattutto dalle ascelle.

L’emissione di 373 di queste sostanze è risultata costante nelle dieci settimane dell’esperimento e 44 di esse presentano una variazione individuale sufficiente a costituire un segno identificativo. È questa nostra firma odorosa individuale, impercettibile ai nostri nasi poco sensibili, ciò su cui contano i segugi quando cercano tracce delle persone scomparse.

Però, anche in questo caso, l’odore di una persona può essere alterato, o variare con alimentazione, età o salute. D’altra parte, non emettiamo solo odori individuali, ma anche suoni. La nostra voce dipende da strutture, come la trachea, la lingua o la laringe, che si sviluppano in modo diverso da persona a persona, e per un computer non è difficile misurare tono e frequenza dei vari suoni che questa combinazione produce, e usarla poi per riconoscerci.

Il problema è che la voce è molto incostante, cambia con l’età, con lo stato di salute e psicologico e può essere alterata a volontà, o registrata e riprodotta. Non a caso i sistemi identificativi basati sulla voce, in genere, sono solo una “seconda linea di difesa”, che affianca un controllo di documenti o di altre caratteristiche fisiche.

Un discorso simile si può fare per l’andatura, che dipende da un complesso, individuale, insieme di ossa, articolazioni, muscoli e depositi di grasso: è abbastanza caratteristica da farci riconoscere amici e parenti da lontano e un computer potrebbe sintetizzarla in un codice numerico, ma può mutare troppo, intenzionalmente o meno, per essere un indicatore decisivo dell’individualità.

Anche il battito cardiaco, secondo una ricerca della Apple, potrebbe essere così personale da costituire una password con cui attivare il proprio smartphone. La differenza nel battito dipende da struttura e dimensioni del cuore, che variano da persona a persona, così come variano i periodi di contrazione e rilassamento dei ventricoli e degli atri.

Misurando questi tempi con precisione, si ottiene una sorta di “Pin cardiaco”. Alterare volontariamente questa caratteristica è molto difficile. In compenso però il battito cardiaco si modifica da sé secondo lo stato mentale e fisico, e nessuno, comunque, ha ancora dimostrato che sia veramente diverso in ognuno di noi. 

Forse, alla fine, la ricerca del segno univoco dell’Io non potrà che indirizzarsi nel luogo dove l’Io, appunto, risiede: il cervello. Il numero di possibili encefali è infatti superiore anche a quello dei possibili Dna. Basti considerare che in un medio cervello umano ci sono cento miliardi di neuroni e ognuno è collegato a settemila altri, in una rete scolpita dalle esperienze individuali, le cui possibili varianti rasentano l’infinito.

E forse ogni cervello esprime la sua individualità, modulando in modo leggermente diverso l’insieme dei suoi segnali elettrici, misurabili esternamente. Nel 2001 ricercatori canadesi hanno dimostrato di poter riconoscere individui in un gruppo di 40 analizzando le loro onde cerebrali alfa, mentre un’altra ricerca, sulle onde gamma, ha trovato chiare variazioni individuali in cento persone. Non si sa ancora, però, se questa “carta d’identità neurale ” sia veramente costante nel tempo: in fondo nessun organo cambia tanto nel corso della vita quanto il cervello…

http://www.repubblica.it/

Sbagliando si evolve: l’adattamento all’ambiente aiutato dagli errori

EvoluzioneL’evoluzione si verifica “per sbaglio”: sarebbero gli errori inscritti nel codice genetico a consentire l’adattamento all’ambiente e, di conseguenza, lo sviluppo di una specie. È quanto affermano i ricercatori dell’Università dell’Arizona di Tucson, in uno studio pubblicato su Pnas, che ritengono di aver scoperto il tassello mancante alla teoria dell’evoluzione di Darwin.

La ricerca è stata condotta su una popolazione di lieviti – microrganismi usati di frequente nelle ricerche biologiche -, e, in base alla loro osservazione, gli scienziati hanno elaborato un modello matematico che ha consentito di simularne l’evoluzione genetica. I risultati dell’esperimento hanno indotto gli studiosi a teorizzare che siano gli “sbagli programmati” a guidare lo sviluppo degli esseri viventi: l’errore compiuto da una cellula nella trascrizione di una o più proteine – che ne altera le proprietà o le funzioni -, potrebbe, in alcuni casi, rivelarsi efficace e, dopo qualche tempo, entrare a far parte del patrimonio genetico.

“L’evoluzione ha bisogno di un parco giochi in cui sperimentare i possibili cambiamenti – spiega Joanna Masel, che ha guidato la ricerca – È un po’ come accade nel marketing: le idee e i prodotti nuovi devono essere testati per comprendere se sono in grado di rispondere o meno alle nuove sfide”.

Se i meccanismi di interpretazione delle informazioni genetiche fossero sempre stati impeccabili, “gli organismi sarebbero rimasti sempre gli stessi e non sarebbero stati in grado di adattarsi a nuove situazioni o a modifiche ambientali” conclude l’esperta.

http://salute24.ilsole24ore.com/

Tumori: Bastano 15 sigarette per una singola mutazione del DNA

PUBBLICATO DA EN.THEOS VENERDÌ 18 DICEMBRE 2009

(ASCA) – Roma, 18 dic – Per un polmone nuovo ci vogliono 15 anni, per farlo invecchiare bastano 15 sigarette. Parola degli esperti del Wellcome Trust Sanger Institute di Cambridge (Gran Bretagna) che per la prima volta sono riusciti a catalogare tutti gli errori genetici a cui va incontro il Dna sotto l’effetto delle sostanze chimiche del tabacco.

Sono 23.000 le mutazioni dei geni provocate dal fumo, secondo il nuovo studio del Progetto Genoma Umano dei Tumori pubblicato su Nature. Il nuovo tassello nella comprensione dell’insorgenza e dello sviluppo dei tumori, in particolare quelli del polmone e il melanoma (tumore della pelle), si arricchisce di dettagli inediti. Nel caso del fumo, ad esempio, bastano 15 sigarette, secondo i calcoli dei ricercatori, a innescare una singola mutazione. Le variazione negative del Dna si trasmettono poi alle generazioni successive. Per far rientrare l’allarme, secondo lo studio, c’e’ bisogno di 15 anni di completa astinenza dal tabacco.
Articolo su Smettere di Fumare sul fumo ed i tumori al polmone.
Se pensate che smettere di fumare sia una cosa difficile ed infelice, provate un pò a leggere i commenti di chi ha smesso, con uno dei metodi più usati in questi tempi: il Metodo di Allen Carr. Allen Carr ha fatto del suo metodo di ristrutturazione dell’inconscia idea che abbiamo del fumo un libro ed un video. Provare per credere!