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Usa, in arrivo il bebè su misura. “Come lo vogliono mamma e papà” Capelli biondi è castani, occhi chiari o neri: negli Stati Uniti le coppie potranno scegliere i tratti del bebé
I genitori potranno scegliere le caratteristiche del proprio bambino. Capelli biondi è castani, occhi chiari o neri: negli Stati Uniti le coppie potranno scegliere i tratti del bebé. Ma soprattutto potranno scegliere di proteggerli dalla predisposizione a determinate malattie (come alcuni tipi di tumore).
Ed è a questo secondo scopo più nobile che, assicura l’azienda statunitense 23andme, che ha brevettato la tecnica, verrà destinata la scoperta. Il progetto, la cui richiesta di brevetto era stata avanzata nel dicembre 2008, si chiamerà Family Traits Inheritance Calculator (Calcolatore di eredità dei tratti famigliari), e permetterà alla coppia che utilizza lo spermatozoo di un donatore, di selezionare i tratti desiderati, prendendoli da un apposito modulo su cui barrare le caselle preferite. ù
L’azienda, in un post dichiara: “Quando si presenta una richiesta di brevetto non si ha ben chiaro per cosa potrà servire la tecnologia. All’epoca pensavamo a un utilizzo del Calculator nelle cliniche per la fertilità, mentre ora i nostri clienti lo usano per scopi divertenti, come sapere quale sarà il colore più probabile dei capelli del proprio figlio o se è possibile che diventi intollerante al lattosio”.
(Affaritaliani.it)
Bere alcol è dannoso anche se con moderazione
L’abuso di alcol è sicuramente un attentato alla nostra salute, si diceva però che un bicchiere di vino al giorno facesse bene alla salute cardiovascolare. Ma un nuovo studio direbbe l’esatto contrario: bere alcol è dannoso anche se con moderazione, sarebbe dannoso per il cervello adulto poichè ne intacca la plasticità strutturale.
A dirlo è un nuovo studio della ‘Rutgers University’, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica ‘Neuroscience’. Il danno cerebrale consiste nella riduzione del 40 per cento della produzione di cellule nelle persone che durante la settimana bevono poco, per poi eccedere nei fine settimana. Abitudine che dilaga fra i giovani che iniziano a bere molto presto.
La scoperta allarmante porta la firma di Tracey J. Shors, professoressa di neuroscienze comportamentali e sistemi presso la Rutgers University e la dottoressa Megan Anderson, che hanno collaborato a loro volta con Miriam Nokia della University of Jyvaskyla in Finlandia.
La spiegazione arriva dalla dottoressa Megan Anderson che commenta come bere alcol è dannoso anche se con moderazione smentendo dunque che un bicchiere di vino al giorno faccia bene:
Anche bere con moderazione può trasformarsi in binge drinking [bere compulsivo] senza che la persona se ne accorga. A breve termine potrebbero esserci danni motori o funzionali impercettibili, ma a lungo termine questo tipo di comportamento potrebbe avere effetti molto negativi su apprendimento e memoria.
Negli Stati Uniti ed in altri paesi, il limite consentito dalla legge quanto a uso di alcol è dello 0,08 per cento. Partendo da questo, gli scienziati hanno condotto dei test su modello animale. La dose è stata adattatta a quella del consumo umano, vale a dire 3-4 bevande per le donne e 5 per gli uomini.
I risultati degli esperimenti hanno evidenziato la riduzione del 40 per cento delle cellule nervose prodotte nell’ippocampo, dove nascono i nuovi neuroni nel cervelllo che consentono, in modi diversi, le funzioni di apprendimento:
Se questa area del cervello è colpita ogni giorno per molti mesi e anni, alla fine si potrebbe non essere in più grado di ottenere nuove abilità o imparare qualcosa di nuovo nella vostra vita. E’ qualcosa di cui si potrebbe anche non essere a conoscenza che si sta verificando.
Naturalmente, ogni persona è un mondo sè, se per qualcuno un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica potrebbe essere eccessivo, per altri berne almeno tre è come fare un passeggiata di salute. Resta evidente il fatto che la moderazione è fondamentale per la nostra salute e, sapendo che bere alcol è dannoso anche se con moderazione, sarebbe opportuno pensare di accantonare l’idea delle grandi bevute con gli amici nei fine settimana solo per ‘sballarsi’, non ne vale davvero la pena.
Photo credit: Mark Birkle su Flickr
2001 – Attacco terroristico dell’11 settembre 2001: negli Stati Uniti, il dirottamento di tre aerei provoca il crollo del World Trade Center a New York e danni al Pentagono, e un quarto si schianta in Pennsylvania; muoiono quasi 3000 persone.
“Chiesa e pedofilia? Sono i bambini che seducono i preti”
Il pensiero è stato espresso dal reverendo Benedict Groeschel nel corso di un’intervista televisiva, scatenando una vera e propria bufera negli Stati Uniti. Sarebbero i sacerdoti, soprattutto quelli più deboli, a finire preda di adolescenti in cerca di sesso.
E’ sempre un tema assai scottante quello dei preti pedofili. Lo è particolarmente quando la discussione è ripresa da un prelato, come è avvenuto qualche giorno fa con l’intervista rilasciata al National Catholic Register dal reverendo Benedict Groeschel, appartenente all’ordine dei frati francescani del Rinnovamento. Le parole del prete hanno fatto riesplodere la polemica negli Stati Uniti. Non poteva essere altrimenti, dal momento che padre Benedict ha detto che sono i ragazzini, spesso in cerca di sesso, a sedurre i preti. Da diversi anni, l’uomo di chiesa è a contatto con sacerdoti che si sono resi colpevoli di abusi sessuale. Alla domanda su come ha lavorato con queste persone, il religioso ha risposto così: «Supponiamo di trovarci di fronte un uomo in preda ad un forte esaurimento nervoso, e un ragazzo viene da lui. In molti casi casi, è il ragazzo -14enne, 16enne, 18enne -il seduttore». Per dare peso alle sue dichiarazioni, padre Benedict ha fatto riferimento alla vicenda di Jerry Sandusky, ex assistente allenatore di football americano della Pennsylvania State University, condannato per aver abusato sessualmente di 45 minori, definendo il pedofilo un «povero ragazzo» e puntando il dito, piuttosto, contro coloro che sapevano ma non hanno detto nulla per anni sul suo caso.
Secondo il reverendo americano, i preti pedofili coinvolti «nel loro primo reato, non dovrebbero andare in prigione perché la loro intenzione non era quella di commette un crimine».
Le parole di padre Benedict non sono passate inosservate. Immediate le scuse della NCR sul suo proprio ufficiale per la «pubblicazione senza chiarimenti dell’intervista a Padre Benedict Groeschel dalla quale sembra trasparire che il bambino sia in qualche modo responsabile degli abusi. Non c’è nulla di più lontano dalla realtà. Abbiamo fatto un errore a mandare in onda quel materiale editoriale e ce ne scusiamo». L’intervista è stata infatti rimossa dal sito. Anche l’Arcidiocesi di New York ha ripudiato i commenti del prelato, definendoli «semplicemente sbagliati», tramite un comunicato pubblicato sul proprio sito ufficiale. «L’abuso sessuale su un minore è un reato, e chi commette quel crimine merita di essere perseguito nella misura massima prevista dalla legge », ha aggiunto il portavoce dell’Arcidiocesi di New York, Joseph Zwilling. Alla fine sono arrivate le scuse anche dello stesso padre Benedict: «Non ho intenzione di dare la colpa alla vittima. Un sacerdote (o chiunque altro) che abusa di un minore fa sempre una cosa sbagliata ed è sempre responsabile. La mia mente e il mio modo di esprimermi non sono più lucidi come quelli di una volta. Ho trascorso la mia vita cercando di aiutare gli altri il più possibile. Sono profondamente dispiaciuto del male che ho causato a chiunque».
STATI UNITI Tumori, i pazienti a basso reddito esclusi dalle sperimentazioni
I malati più poveri hanno molte meno chance di accedere ai trial clinici sui nuovi farmaci. In Italia penalizzate le donne
MILANO – Due notizie completamente differenti fra loro richiamano l’attenzione sull’importanza cruciale delle sperimentazioni per chi è malato di tumore. Da un lato, durante l’ultimo convegno della Società americana di oncologia clinica (Asco) è emerso un dato inquietante: i pazienti che hanno un reddito basso hanno meno probabilità di partecipare ai trial clinici con i nuovi farmaci. Dall’altro, una ricerca inglese appena pubblicata sulla rivista Annals of Oncology mostra come in Gran Bretagna sia cresciuto il numero di guarigioni dei bambini con un tumore grazie al loro maggiore accesso ai protocolli sperimentali.
I MALATI VOGLIONO «FARE LE CAVIE» – Sempre più spesso in oncologia l’accesso ai farmaci innovativi passa attraverso le sperimentazioni cliniche. Solo così i pazienti possono riceverli ancora prima che vengano ufficialmente approvati dalle autorità competenti (prima europee, poi italiane e regionali) e siano quindi introdotti nella pratica standard di tutti gli ospedali, se si rivelano efficaci come sperato. Il tempo, specie per chi ha un tumore, è un prezioso alleato e poter essere curati con un trattamento nuovo (specie quando la malattia è in fase avanzata e le altre terapie non hanno dato i risultati auspicati) è in molti casi la migliore chance per i malati, oltre che la loro più grande speranza. Ecco perché, con crescente partecipazione, i diretti interessati e i loro familiari chiedono di poter partecipare ai protocolli sperimentali: più che sentirsi «cavie» su cui vengono testate cure di cui ancora non è certa la validità (e la tossicità), i pazienti oggi vedono i trial come un’occasione da sfruttare, venendo però adeguatamente informati.
TRIAL OFF LIMITS PER I POVERI – E se i test clinici sono un’opportunità in più, è facile capire il motivo per cui la ricerca statunitense presentata all’Asco ha suscitato grande clamore oltreoceano, sollevando grande preoccupazione fra oncologi ed esperti. «Il nostro studio – ha spiegato l’autore della ricerca, Joseph Unger del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle – dimostra che dopo aver preso in considerazione tutti i fattori quali età, educazione, sesso, razza e condizioni mediche, il reddito di per sé era parametro associato alla partecipazione di un paziente a un trial clinico». Considerando i dati di oltre 5mila pazienti con cancro (monitorati dal 2007 al 2011) è infatti emerso che i pazienti con un reddito annuale inferiore ai 50mila dollari avevano una minore probabilità del 30 per cento di entrare in una sperimentazione clinica. E per quelli con reddito annuale sotto i 20mila dollari avevano le chance scendevano del 44 per cento. «Fra le possibili barriere all’accesso dei pazienti più poveri ai test – dicono gli autori – potrebbero includere i costi diretti per partecipare ai test stessi e quelli indiretti, come la necessità di prendere dei giorni di ferie dal lavoro».
TROPPO SPESSO ESCLUSE LE DONNE – Ogni anno si svolgono in Italia circa 700 studi clinici su farmaci e di questi circa un terzo sono su farmaci oncologici. «Il nostro Paese partecipa ormai stabilmente ai più importanti studi clinici multicentrici multinazionali – dice Carlo Tomino, direttore Ricerca e Sperimentazione Clinica dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) –, il nostro contributo è significativo e la qualità dei dati raccolti è spesso eccellente». Lo dimostrano i dati dell’Osservatorio Nazionale sulla Sperimentazione Clinica dei medicinali, sul cui sito internet è peraltro possibile consultare l’elenco delle sperimentazioni attive per le varie patologie, fra cui i tumori. Da noi, i criteri per la partecipazione ai trial clinici sono regolamentati rigidamente dal protocollo che, in ogni studio, deve essere attentamente seguito e che rappresenta la guida per medici sperimentatori e pazienti. «E, fortunatamente, il reddito non è un parametro che va calcolato – prosegue Tomino – perché il nostro tanto bistrattato Servizio Sanitario Nazionale (considerato come uno dei migliori a livello internazionale) consente a tutti i cittadini un accesso uguale sia alle strutture di cura che agli studi clinici su farmaci sperimentali». Il problema americano nasce infatti dal loro “modello di assistenza sanitaria”, che com’è noto, si basa ancora prevalentemente sulle assicurazioni private che i cittadini stipulano per avere la copertura delle spese mediche. Non a caso uno dei punti fermi della campagna elettorale del presidente Obama è stato proprio quello di prevedere una copertura assistenziale per una larga fascia di popolazione meno abbiente. «Certo anche da noi – conclude l’esperto – si può fare molto per migliorare la situazione e Aifa si sta impegnando su diversi fronti: dalla semplificazione normativa alla comunicazione ai cittadini, dalla riduzione dei Comitati etici (numerosissimi in Italia se confrontati a tutti gli altri Paesi del mondo) alla centralizzazione dell’autorità competente. C’è poi un problema legato al basso numero (e centri dedicati) di volontari sani coinvolti negli studi e di squilibrio tra la popolazione maschile e quella femminile, che, nonostante il protocollo lo consenta, viene arruolata in misura percentualmente inferiore negli studi. Infine, stiamo programmando una nuovo progetto per migliorare e continuare il dialogo con il cittadino-paziente. Siamo convinti infatti che la comunicazione, chiara e semplice deve rappresentare un obbligo e un dovere morale di qualsiasi istituzione pubblica e Aifa è particolarmente attenta a questa sua funzione».
Sceglie di partorire prima per permettere al marito morente di abbracciare la figlia
Commozione negli Usa: l’uomo era malato terminale, la moglie gli regala gli ultimi momenti di gioia
L’amore per un uomo può spingere a scelte coraggiose, quasi estreme. Una donna americana incinta ha deciso di dare alla luce la sua bambina con diverse settimane di anticipo per permettere al marito, malato terminale, di poter abbracciare la figlia prima di morire. Ora la bimba, la piccola Savanah Aulger, riposa tranquillamente nella sua culla senza sapere di tutto il dolore che l’ha circondata nei suoi primi di giorni di vita.
Mesi prima, il padre Mark aveva saputo di aver vinto la sua battaglia contro il cancro. Quello che non sapeva è che gli otto mesi di chemioterapia gli avevano distrutto i polmoni, i quali non riuscivano più a inspirare e a trasmettere l’ossigeno al corpo. La diagnosi, a gennaio 2012, era fibrosi polmonare. Gli restavano pochi giorni di vita. Così la moglie Diane, alla quinta gravidanza, ha deciso di partorire due settimane prima, in modo da dare la possibilità a suo marito Mark di vedere la loro bimba almeno una volta.
“Doveva essere lui la prima persona ad abbracciare Savanah. Appena è nata, l’ha tenuta in braccio per 45 minuti”, ha detto Diane. Quei momenti con la figlia sono stati però gli unici. Dopo pochi giorni, infatti, Mark è andato in coma. Ed è stata la moglie, ancora in ospedale dopo il parto, ad annunciare agli altri suoi quattro figli che il papà stava morendo.
Mark è morto tenendo in braccio la piccola Savanah. Quando il marito era ancora in coma, Diane si è accorta che il battito cardiaco stava rallentando e che stava smettendo di respirare. Così, ha preso la figlia e l’ha messa tra le braccia di Mark, tenendogli la mano fino al momento in cui è spirato.
Chavez: Stati Uniti sviluppato tecnologia per indurre cancro?Perché no
Molti leader del Sudamerica in questi ultimi anni hanno, uno dopo l’altro, contratto varie forme di tumore. Da Dilma Rousseff a Lula, da Fernando Lugo a Cristina Fernandez de Kirchner, passando da Hugo Chavez che si è domandato: “Che qualcuno abbia già sviluppato una tecnologia per indurre il cancro?”. Pensando subito agli Stati Uniti e agli esperimenti USA in Guatemala.
Hugo Chávez, presidente del Venezuela, operato d’urgenza a Cuba nel mese di giugno ufficialmente per un “ascesso pervico” (leggi http://is.gd/WKu0ny) ma già sottoposto a tre cicli di chemioterapia, durante un discorso all’accademia Militare ha lasciato intendere, precisando però che non era sua intenzione “accusare nessuno”, che forse gli Stati Uniti potrebbero aver sviluppato una “tecnologia per indurre il cancro”. Tale idea è sorta in Chavez dopo la notizia che anche alla presidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner è stato riscontrato un tumore, precisamente alla tiroide. Prima di lei, nel 2009, fu diagnosticato e curato a Dilma Rousseff, braccio destro di Lula e indicata alla sua successione, un tumore linfatico. Successivamente, due mesi fa, tocco a Lula, a cui fu scoperto un tumore alla laringe, tanto che l’ex presidente del Brasile ha iniziato il suo secondo ciclo di chemio. Colpito poi da un cancro anche il presidente del Paraguay, Fernando Lugo, che pare sia riuscito a curare. Infine c’è il caso di Chavez e oggi quello di Cristina Fernandez de Kirchner.
“Strano, molto strano – dice Chavez in tv e via radio – ma non è impensabile che qualcuno abbia già sviluppato una tecnologia per indurre il cancro… Se avessero sviluppato questa tecnologia senza dirlo a nessuno, sarebbe così sorprendente? Magari lo verremo a sapere tra 50 anni, chissà”. “Non sto sospettando degli Stati Uniti – aggiunge il leader del Venezuela – ma vi ricordate quando si disse che alcune infezioni in Guatemala erano state scatenate dalla CIA?”.
Chavez si riferisce al fatto che solo poco tempo fa si è venuto a conoscenza, ufficialment, del fatto che gli americani hanno condotto in Guatemala dei terribili esperimenti medici su soldati, prostitute, carcerati e malati di mente (circa 1.300 persone), a cui venivano inoculati la sifilide, la gonorrea o l’ulcera molle (ulcera venerea). Ufficialmente pare che tali esperimenti, portati avanti senza il consenso dei diretti interessati, dovessero servire per capire se la penicillina potesse curare tali infezioni. Di fatto, la commissione d’inchiesta aperta in seguito alla sconcertante rivelazione, avvenuta dopo che il Wellesley College ha rinvenuto la documentazione del medico che ha condotto gli esperimenti, dottor John Cutler (morto nel 2003), sembra che abbia appurato che solo 700 persone infettate hanno poi ricevuto un qualche tipo di trattamento, mentre 83 persone sono decedute.
Inoltre, si è scoperto che in alcuni casi si è andato ben oltre la “somministrazione” del batterio. Sembra infatti che a 7 donne affette da epilessia sia stata iniettata la sifilide attraverso una iniezione nella parte posteriore del cranio, tanto che queste poco dopo hanno contratto una forma di meningite batterica, senza però essere stata curata. Particolare ancor più inquetante, la scoperta che invece ad una donna allo stadio terminale hanno iniettato altre malattie, tra cui la gonorrea, per vedere come il corpo avrebbe reagito ad altre infezioni. Sei mesi dopo, la donna è morta. Il presidente Barack Obama ha chiamato il presidente del Guatemala, Alvaro Colom, per porgere le scuse degli USA, anche se il presidente guatemalteco non ha mancato di sottolineare come “la ricerca degli Stati Uniti in Guatemala sarebbe da considerare un crimine contro l’umanità”. Non sono questi gli unici esperimenti di cui gli stati Uniti si sono “macchiati”. Tra i più eclatanti (e ufficializzati) quelli condotti tra il 1946 e il 1956 su ragazzi e donne in stato interessante, tra gli altri, a cui facevano mangiare o bere cibi e bevande radioattive per “vedere l’effetto che fa” (leggi http://is.gd/tz5R5z).
Jessica Montani
LE CAMPAGNE ANTIFUMO NEL MONDO
9 Marzo 1967 – Svetlana Alliluyeva, figlia di Josif Stalin, chiede asilo agli Stati Uniti
Svetlana Josifovna Allilueva
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Svetlana e suo padre nel 1935
Svetlana Allilueva, o Allilujeva, nata Svetlana Josifovna Stalina, in russo Светлана Иосифовна Сталина (Mosca, 28 febbraio 1926), è una scrittrice russa naturalizzata statunitense, figlia di Josif Stalin e della sua seconda moglie Nadežda Allilueva.
Nel 1966, tredici anni dopo la morte di suo padre, quando il processo di destalinizzazione dell’Unione Sovietica è stato avviato già da molto, Svetlana Allilueva decide di fuggire dal suo Paese, e di trasferirsi negli Stati Uniti, a New York.
Nel 1967 pubblica il libro Twenty Letters to a Friend, (Venti lettere a un amico), per la casa editrice Harper & Row. Il libro riporta le memorie della figlia del dittatore che per vent’anni resse i destini dell’URSS e del mondo.
Tre anni dopo, nel 1970, a Mosca le autorità annunciano di averla privata della nazionalità sovietica.
Come molti figli di alti ufficiali della nomenclatura, Svetlana fu cresciuta da una balia e vide i suoi genitori solo in saltuarie occasioni. Sua madre, Nadežda Allilueva, seconda moglie di Stalin, morì il 9 novembre del 1932, quando Svetlana aveva solo sei anni.
Secondo le fonti ufficiali, la morte di Nadežda avvenne a causa di una peritonite acuta, risultato di un’ulcera vermiforme; varie altre teorie sono state elaborate, quali il suicidio, o l’omicidio su ordine di Stalin, o ad opera di Stalin stesso.
Svetlana si innamorò a sedici anni di un regista ebreo, tale Aleksej Kapler, allora quarantenne. Ma Stalin non era assolutamente d’accordo con questa storia d’amore. Così, successivamente, Kapler fu internato nel gulag di Vorkuta, in Siberia. Risulta forse chiaro come questo processo risultasse una farsa, solo per evitare che la storia d’amore dei due sfociasse in un matrimonio “scomodo”.
A 17 anni si innamorò di un compagno dell’Università di Mosca, Grigori Morozov, anch’egli ebreo. Il padre seppur risentito permise alla coppia di sposarsi, anche se giurò di non incontrare mai lo sposo. Dopo la nascita di un figlio, Joseph, nel 1945, la coppia divorziò nel 1947.
Il secondo marito di Svetlana era uno stretto collaboratore di Stalin, Jurij Ždanov (figlio del suo braccio destro, Andrej Ždanov). Si sposarono nel1949, ed ebbero una figlia, Ekaterina, nel 1950, ma anche questo matrimonio si dissolse poco dopo.
Dopo la morte del padre nel 1953, Svetlana adottò il cognome da nubile della madre e lavorò come insegnante e traduttrice a Mosca. Nel 1963incontrò un comunista indiano in visita nella capitale sovietica, Brajesh Singh. Egli fece ritorno a Mosca nel 1965, per lavorare come traduttore, ma ai due non venne permesso sposarsi. Singh morì nel 1966 e a Svetlana venne concesso di viaggiare in India per riportare le ceneri alla famiglia, in modo da poterle versare nel Gange. Svetlana restò in India per due mesi e si immerse nei costumi locali.
Il 6 marzo 1967, dopo aver prima visitato l’ambasciata sovietica di Nuova Delhi, la Allilueva si recò all’ambasciata statunitense e fece formale richiesta di asilo politico all’ambasciatore Chester Bowles. L’asilo le fu concesso. Comunque, a causa di preoccupazioni che il governo indiano potesse soffrire per via di ostilità da parte dell’Unione Sovietica, venne fatto in modo che lasciasse immediatamente il paese per la Svizzera, viaRoma. Rimase in Svizzera per sei settimane, prima di proseguire per gli Stati Uniti.
Al suo arrivo nell’aprile 1967, la Allilueva tenne una conferenza stampa in cui denunciò il regime del padre e il governo sovietico. La sua intenzione di pubblicare l’autobiografico Twenty Letters To A Friend, nel cinquantesimo anniversario della Rivoluzione Sovietica, provocò rabbia in URSS, e il governo minacciò di pubblicare una versione non autorizzata; la pubblicazione in Occidente venne quindi anticipata, e quel particolare caso diplomatico venne disinnescato.
A causa dell’alto profilo della defezione di Svetlana Allilueva, della sua schiettezza, delle sue connessioni in quanto figlia di Stalin, ecc., l’Unione Sovietica chiese e ottenne dagli Stati Uniti, nel dicembre 1967, un’assicurazione che i futuri disertori sarebbero stati ascoltati da funzionari sovietici prima che gli venisse concesso l’asilo.
Nel 1970 la Allilueva rispose ad un invito della vedova di Frank Lloyd Wright, Olgivanna Wright, a visitare Taliesin West a Scottsdale (Arizona). Come descrisse nell’autobiografico Faraway Music, Olgivanna credeva nel misticismo e si era convinta che Svetlana fosse una sostituta spirituale della figlia Svetlana, che aveva sposato il capo apprendista di Wright, William Wesley Peters, ed era morta in un incidente stradale un anno prima. Incredibilmente, la Allilueva si recò in Arizona, accettò di sposare Peters nel giro di qualche settimana, si spostò con la Taliesin Fellowship tra Scottsdale e Spring Green (Wisconsin), e adottò il nome di Lana Peters. La coppia ebbe una figlia, Olga. Per sua stessa ammissione la Allilueva mantenne rispetto e affetto per Wes Peters, ma il loro matrimonio di dissolse a causa della pressione dell’influenza della vedova Wright.
Nel 1982 si trasferì con la figlia a Cambridge, in Inghilterra, e nel 1984 ritornò in Unione Sovietica, dove lei e la figlia ottennero la cittadinanza e si stabilirono a Tbilisi. Nel 1986 la Allilueva ritornò negli Stati Uniti, e successivamente a Bristol negli anni novanta. Attualmente vive in una casa di riposo nel Wisconsin.
Libri di Svetlana Allilueva
- Twenty letters to a friend (autobiografia, pubblicata a Londra nel 1967, scritta nel 1963)
- Only one year (New York, 1969)
- Faraway music (India, 1984, Mosca, 1992)
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