Nota biografica


1.1 Nota biografica

Georges Perros voleva fare della sua vita un deserto, ma la sua presenza dimora nell’insaziabile sollecitudine del lettore, dell’altro. Moralista, lascia due raccolte di poesie, tre volumi di Papiers collés, svariate note di lettura e una notevole corrispondenza ancora da scoprire; niente che, secondo lui possa costituire un’opera letteraria. Sotto l’apparenza del caso, regna nella scrittura di Perros un’armonia eterogenea diretta dalle impenetrabili leggi interiori. Più che scrittore nel senso letterario del termine, Perros si definisce: “faiseur de notes invétérés“. Egli vede nei libri un luogo di lavoro che corrisponde ad un’assenza essenziale, e non ad un fine in sé. La sua scrittura, intuitiva e folgorante, ha trovato nelle “note” la sua forma privilegiata. Cerca di giungere al cuore dell’esperienza poetica per trovarvi un’originale “innocenza”, nell’intento di dare una forma, di esprimere, in qualche modo, il linguaggio liberato da ogni sovrastruttura, un pensiero primordiale spogliato da ogni convenzione. Perros ha scelto di restare al margine della vita e della scrittura. Ha vissuto l’esperienza letteraria come isolamento, ma soprattutto come straordinaria sollecitazione dell’altro, amico o lettore, dal quale riesce a suscitare il meglio. Ha scelto di vivere a Douarnenez, ma per lui la Bretagne è uno spazio spirituale: “continent d’esprit”. Il trasferimento del suo centro di gravità crea un allontanamento, una distanza necessaria per scrivere, per avvicinarsi agli altri. Ossessionato dal taciturno gusto di vivere, è sempre alla ricerca, e la sua opera ne è la dimostrazione, poiché essa è come scritta al margine di un libro impossibile da cui vorrebbe scaturire il senso, sussultare il segreto della scrittura, dell’uomo. Perros vive di quell’istante che fissa l’eternità, annullando la distanza tra la vita e l’opera. La sua scrittura, insieme movimento e incertezza, è paragonata ad una permanenza, come il finis terrae alla soglia del mare; Georges Perros è “passeur”, un uomo che accompagna, trasporta, conduce… * * * Nato a Parigi il 31 agosto del 1923, Georges Poulot trascorre la sua infanzia nel quartiere di Batignolles, poi a Reims e nei Vosgi, dove suo padre fu trasferito per lavoro. Comincia a suonare il pianoforte e frequenta il Conservatorio. A sedici anni prende lezioni d’arte drammatica a Rennes. Tra il 1941 e il 1944 abbandona gli studi e si trasferisce a Parigi dove frequenterà per tre anni dei corsi teatrali al Centre du Spectacle; conosce Gilbert Minazzoli e ne diviene amico. Assiste ai corsi di Paul Valéry e Vladimir Jankélévitch al Collège de France. Insaziabile lettore, incontra André Gide e Paul Léautaud, si lega a Louis Guilloux, Gérard Philipe e Marcel Arland. Collabora con il gruppo di scrittori dell’avanguardia: “les Lettristes”, firma il loro manifesto e scrive per la rivista “La Dictature Lettriste”. Intanto completa i suoi studi d’arte drammatica e debutta in teatro recitando la Celestina. Nel 1948 riceve il premio “Prix de comédie” che lo aiuta ad entrare alla Comédie Française, dove recita piccoli ruoli senza una reale passione; deciderà infatti, quasi subito, di fuggire dal teatro, detestando la “razza” degli attori. Va ad abitare a Meudon, dove frequenta Armand Robin. Al fine d’incontrare Jean Grenier , momentaneamente residente in Egitto, accompagna la compagnia teatrale al Cairo. Nel 1950 scrive la sua Lettre- préface che spedisce a Grenier, e abbandona definitivamente la Comédie Française. Entra a lavorare, grazie a Gérard Philipe, come lettore al Théâtre national populaire presso Jean Vilar. Nel 1952 confida alcune “note” a Grenier, che ne percepisce il valore. A sua volta Grenier, cosciente di trovarsi davanti ad uno scrittore di talento e con un profondo senso della vita, ritiene opportuno inviare il materiale visionato a Jean Paulhan; quest’ultimo decide di pubblicarle nella “Nouvelle Revue Française”. Da questo momento Perros diviene un collaboratore della NRF. I suoi scritti critici e le sue impressioni di “lettore” gli attirano l’attenzione e l’amicizia di André Breton, Robert Pinget, Roland Barthes, Pierre Klossowski, Michel Butor, Georges Lambrichs, Roger Judrin, Brice Parain, etc. Da questo momento, firmerà i suoi scritti utilizzando lo pseudonimo: Georges Perros, con cui sarà conosciuto dal pubblico. Incontra Tania, una ragazza di origini russe che diventerà sua moglie. Intraprende diversi viaggi in motocicletta verso e all’interno della Bretagna. Fra il 1954 e il 1959 condurrà una vita molto tormentata; i suoi soggiorni in Bretagna, dove alloggia in mansarde o in case fatiscenti, diventano sempre più frequenti. All’inizio degli anni ’58 va a vivere a Douarnenez, dove Tania lo raggiungerà. Nel 1960, le edizioni Gallimard pubblicheranno i primi Papiers collés, una raccolta di articoli pubblicati nella NRF e note varie. Realizza una trasmissione radiofonica di due ore sulla Bretagna e pubblica, nel 1962 Poèmes bleus, testo poetico a cui verrà assegnato, l’anno seguente, il premio “Max Jacob”. Dopo la nascita dei due figli, Frédéric (1961) e Jean-Marie (1963), sposa Tania e un anno dopo nasce Catherine (1964). Vive grazie a diversi espedienti: lettore di manoscritti per la T.N.P., pubblicazione di diversi articoli, lezioni di pianoforte e le traduzioni di Per Olof Sundman, di August Strindberg, di Anton P. Tchekhov e di Fernand Crommelynck. Sempre presso le edizioni Gallimard, nel 1967 pubblica Une vie ordinaire, lungo romanzo-poema in versi ottonari. Perde il suo lavoro di lettore al T.N.P., ma viene assunto come lettore alla Gallimard. Si reca a Milano, Venezia e Roma insieme ai suoi amici Lorand Gaspar e Michel Butor e di questa esperienza italiana restano interessanti tracce nei suoi Papiers. Dal 1970 tiene presso la Facoltà di Lettere di Brest un singolare corso di letteratura, da lui definito “cours d’ignorance”. Sempre con Michel Butor, nel 1971 si reca in Tunisia a trovare l’amico Loran Gaspar. Nel 1973 viene pubblicata la seconda raccolta di Papiers collés II, a cui viene assegnato il premio “Valéry Larbaud”. Di tanto in tanto ritorna a Parigi, ma continua a scrivere e dipingere ininterrottamente a Douarnenez. Nel 1974 gli consegnano il “Prix Bretagne” per l’insieme della sua opera. L’anno successivo si trasferisce in una piccola casa sul Plomarc’h, che domina la baia. Claude Rojet Journaoud gli dedica una trasmissione “Poésie ininterrompue” su France Culture, mentre Paul André Picton realizza una trasmissione per FR3; nel 1976 France Culture va in onda con: “Entretiens avec Georges Perros” de Jean Daive e Jean-Marie Gibbal, conversazione fortemente interessante, giacché Perros racconta se stesso, la sua esperienza teatrale, la sua vita parigina, la scelta di rifugiarsi in Bretagne, il suo amore per il mare, per le corse in motocicletta, ma soprattutto parla della sua scrittura, di come essa non abbia l’intento di aggiungere nulla alla conoscenza, bensì quello di ricondurre a qualcosa di più semplice, di più essenziale, da vivere insieme agli altri. Poco dopo, in seguito ad una diagnosi di cancro alla gola, Georges Perros subisce un intervento di laringectomia; segue una cura chemioterapica presso l’ospedale di Parigi, ma l’evento per lui più sconvolgente consiste nella perdita dell’uso della parola. Si rifiuta di fare una rieducazione logoterapica e torna a Douarnenez dove inizia a scrivere L’ardoise magique, dedicato a coloro che hanno subito il suo stesso intervento. Nello stesso anno pubblica Échancrures presso le edizioni Calligrammes. Nel 1977 la malattia si aggrava: durante il mese di dicembre subisce un secondo intervento. Il 24 gennaio del 1978 muore presso l’ospedale di Laënnec, a Parigi. Adesso riposa nel cimitero di Douarnenez, che domina il mare. Qualche mese dopo la sua morte, le edizioni Gallimard pubblicheranno Papiers collés III.

lor: #cccccc; font-size: x-small;”>a) Luoghi

Dalla biografia, dalle sue opere e la sua corrispondenza si evince l’originale personalità di Perros. Un uomo che per vivere si è allontanato dalla società restando al margine della vita, facendo della sua esistenza la scrittura, ma non una scrittura a cui siamo abituati a pensare: Perros non voleva dare informazioni, ma semplicemente condividere i suoi pensieri, le sue brevi considerazioni, infatti la sua scrittura è un insieme di “note”, di pensieri “incisi” sulla carta. Per una corretta analisi della sua scrittura, è importante soffermarsi sul suo modo di vivere: “J’écris toujours dans la marge, le texte n’est pas là … le texte n’est pas là. Alors le texte, eh bien, je dis c’est la mer, je dis c’est la terre, je dis … mais, j’écris toujours pour combler cette marge, non pas du tout pour entrer ni sur mer, ni sur terre, c’est pour combler cette marge“. Ha scelto di scrivere sul margine di un foglio e ha scelto di vivere al margine della società. Ha fatto della sua vita la scrittura, la sua e quella degli altri. * * * Perros nasce a Parigi, ma durante l’infanzia e l’adolescenza, per motivi familiari, si trasferisce spesso. A vent’anni ritorna a Parigi e vi resta dieci anni, ma vivere nella capitale gli crea un profondo tormento: viaggia molto, soprattutto in Bretagna, dove, a Douarnenez, scopre la sua residenza naturale; sarà lì che deciderà di trascorrere il resto della sua vita. Vivrà in Bretagna, ma il suo pellegrinare non si conclude: continuerà a cambiare spesso casa, sempre in continua ricerca di un qualcosa, di un “luogo”… “Je suis très impatient tout le temps… je suis impatient. Par exemple, en ce moment je suis là, mais je voudrais être … où ? ailleurs“. Le sue dimore avevano comunque le stesse caratteristiche, come racconta Jean Roudaut: davano tutte sul mare, erano tutte case fatiscenti, spoglie e decadenti. Per raggiungerlo, a volte, bisognava percorrere vie che diventavano sentieri, altre volte andare su per scalinate che ricordavano i borghi medievali e altre volte ancora andare al limite del villaggio. Perros non si vantava dei luoghi, ci viveva con indifferenza, come se fosse stato messo lì e poi spostato dalla marea delle circostanze. Non si installava mai veramente nelle stanze in cui viveva, né manifestava mai il desiderio di volersi fermare veramente a lungo: non sistemava mai i suoi libri, non si preoccupava della montagna di polvere, né tanto meno di mettere in ordine le pile di quotidiani che a volte fungevano da sedia. Si era sicuri però di trovare, sopra una sedia, la radiolina per ascoltare soltanto qualche concerto o opera di Bach e Monteverdi. Perros usava tenere sempre sopra le ginocchia un taccuino: in ogni momento avrebbe potuto scrivere qualche “nota”. Fra i libri si trovavano dei disegni, delle cartoline; su di un tavolino le penne stilografiche, le pipe, delle conchiglie e delle pietre. “La chambre, dans la lumière grise, est un lieu […]de “passage”. Il est difficile d’y demeurer; le visiteur tend la main vers un livre, caresse un galet, ou joue avec les poinçons et les repoussoirs pour se convaincre qu’il est toujours là. Car la pièce est un lieu d’incertitude. Ce n’est pas au bout du labyrinthe des rues, une pièce royale et protégée, mais une image, en un miroir prodigieusement concave, du monde, sans cesse se défaisant, et de l’homme malade d’une maladie essentielle, qui est son être même“. A volte lascia la casa per viaggiare, va a Tunisi, a Venezia, a Milano, a Quimper, a Bordeaux, a Parigi, a Brest. In realtà è uno straniero, un uomo senza terra, senza proprietà, passeggero, un uomo che non vuole mettere radici. Una pipa, un cane, una donna amata e dei figli vezzeggiati, nient’altro che si possa possedere materialmente. Non si vanta però di non possedere nulla. Spoglio, senza passato e senza rancore, continuamente in marcia, libero.

b) Metodo di lavoro

L’immagine che si trae dai suoi scritti è quella di un uomo nella continua e incessante ricerca degli altri, che osserva e cerca nei comportamenti di ognuno, la parte di poesia presente in ciascuno, attento, durante qualsiasi tipo di lettura, alla “voce”, la stessa che sfugge all’autore. Perros afferma che comunque non tutti la possiedono, come non tutti i lettori sono in grado di udirla. Questa “passione” nel fissare lo sguardo, la voce, la parola scaturita da un incontro, spinge Perros non solo ad utilizzare la penna, per redigere le sue note, ma anche matita e carboncini, per fissare attraverso una forma, un disegno, l’esperienza intima di quell’incontro. Nascono così una serie di ritratti realizzati con gessetti, carboncini, forme su carta, o incisioni su rame. Il suo interesse non è quello di rappresentare i volti come nature morte bensì di proporre dei volti con chiare “citazioni” o “allusioni”. Perros non considera la scrittura, e particolarmente quella poetica, come un’espressione di idee o di pensieri riducibili a formule, piuttosto uno stile, un modo di essere, irriducibile. Da ciò nasce il suo bisogno di osservare i volti di coloro che “pensano”, “car les regarder, c’est se regarder les regardant”, di incontrarli e quindi di fissarli sulla carta per continuare a comunicare con loro. Si può affermare infatti, che la lettera è la forma privilegiata del testo di Perros, e i suoi libri sono una forma particolare di epistolario; ciò che non si riesce a dire, secondo Perros, nell’intimità, lo si può proclamare al mondo grazie alle lettere; una raccolta di lettere può diventare così la via indiretta di una parola “particolare”. Georges Perros scrive fra due sentieri, l’andare e il tornare più volte, al margine di ciò che non è detto. I pensieri annotati e i fogli incollati formano un libro, che non è un assemblaggio di massime o di frammenti, ma costituisce una sottile cornice appena appoggiata sul bianco della pagina, un quadro per una parola assente. L’autore, in qualsiasi momento sa perdere il filo. La sua caratteristica stilistica è un’arte della rottura e del taglio. Si tratta di non lasciarsi condurre dal discorso, di non disturbare il silenzio, ma di farlo percepire. Questo è il ruolo di Perros: lasciare intendere ciò che trama dietro le nostre parole e nel nostro profondo. Un testo, per lui, non si migliora correggendolo o perseguitandolo: esso è vero o falso, giusto o sbagliato. Tutto sta nel tono. È inutile continuare se la voce non è presente fin dall’inizio. Il tono di Georges Perros mostra una profonda familiarità con se stesso e una incuranza delle circostanze esteriori: tutto… ma poco importa. “Je ne dis pas qu’il pleut s’il pleut. Je dis qu’il pleut quand j’ai de la pluie plein la peau, quand je plie sous un orage inexistant“. Il quotidiano non è quello dei gesti, ma il mondo della paura, dell’interminabile grigio delle nuvole. Per Perros, è necessario che il linguaggio abbia viaggiato attraverso il labirinto del nostro corpo, disceso i vulcani fino agli antipodi del nostro essere, che conosca le malattie e le eruzioni. Alla fine sarà un po’ sofferto, bruciato, ma sicuramente febbrile. Può portarci alla memoria ricordi ormai dimenticati. Così è impossibile instaurare un sistema di vita, costruire un codice morale teorico, qualificare attraverso un racconto continuo una situazione. Il pensiero si sviluppa contro l’esistenza, in quanto ne è dipendente. Lo scrittore si mantiene sempre distante dalla sua parola. Dal momento in cui essa tende a svilupparsi nel discorso, egli la frantuma. La frase resta nuda, straziante ed urlante. “L’esprit ne souffre pas la vie, qui est sa grande ennemie, son remords. Et son principe“. La letteratura è riabilitata da alcune costanti e da alcuni discreti omaggi: “Est écrivain tout individu qui n’ose pas vivre franchement. Tout écrivain valable est en mauvaise santé (rien à voir avec la santé physique)“. L’uomo si risveglia solamente quando si scopre dispiaciuto d’essere nato, e disperato perché incapace d’accettare i suoi limiti. La salute è quella del sonno, della soddisfazione. La letteratura aiuta essenzialmente a vivere male: “Écrire, ce n’est pas guérison; c’est exagération du mal“. Secondo Roudaut, Perros non si fa “complice” delle parole, anzi le costringe, le stringe, fino a quando non producano qualche chiarore; poi le abbandona, senza alcuna tenerezza. Il suo sguardo ombroso sulla vita lo induce a diffidare delle illusioni liriche: sta attento alla frase, la spia, evitando che questa scivoli nell’astratto, e lascia che le parole maturino, scintillino, producano immagini. Egli esige dal linguaggio, ciò che esige dall’esistenza; rifiuta l’abbandono, la superficialità. Si spiega così sia il suo gusto per i personaggi “pericolosi”: Kleist, Baudelaire e Valéry, autori che stima oltremodo, ma nei confronti dei quali nutre una certa diffidenza per la cura, secondo Perros, eccessiva dell’aspetto formale.

c) “professeur d’ignorance”

Noi non vediamo ciò che ci è vicino. Il mondo quotidiano ci sfugge. Le nostre abitudini rimangono sconosciute. Noi non sentiamo la nostra voce. Viviamo con negligenza la nostra vita fino a quando uno sconosciuto non viene a disturbare il nostro tepore. Ci risparmia un viaggio. Veste come noi, impiega le nostre parole, vive fra noi, ma tuttavia grazie alla sua presenza la nostra esistenza non è più la stessa. Ciò che per noi era trascurabile diventa essenziale. Colui che ci apre gli occhi non insorge contro la mediocrità della realtà umana, contro l’insignificanza della nostra condizione: egli constata ed afferma. Egli non si isola, partecipa. Non sfugge le cariche comuni nei sogni o nell’eloquenza, ma spinge fino al limite la prova di lucidità. Smascherandosi ci smaschera. Noi teniamo talmente tanto alle nostre banalità che non gli perdoniamo facilmente l’averci “risvegliato”: come sorreggere una parola “giusta” quando ci si sforza di parlare una lingua nobile, che è fuga e dissimulazione? Perros non crede in una letteratura pazientemente costruita. Scopre ogni mattina il vocabolario usuale, come un bambino che fa l’esperienza degli oggetti, con diffidenza e perseveranza. Vuole parlare più da vicino delle sue radici. Nessuna preoccupazione del bello, del successo, ma della rottura e dello strappo. Quando acquisisce le parole, le getta in mare, perde il nord. Egli, nei suoi scritti, opera con le nostre parole, la loro diversità, la loro familiarità, la loro banalità, le nostre espressioni umili e tenere, ma trasformate e rese udibili. Si tratta del nostro mondo e dei suo paesaggi, noi stessi con i nostri tic, ma visti per la prima volta da uno sguardo semplice e acuto. Scrivendo, Perros non ha lo scopo d’insegnare, di fare critica letteraria o di spiegare i testi, né di dipingere, ma gravando i testi e scrutando i volti, il suo intento è quello di raggiungere ciò che ci rode e di restituire alla morte un po’ della sua banalità. Scrivere è lavorare per separarsi, lavorare per la morte. Perros dedica tutto il suo tempo alla disperazione; nessuna attività lo distrae dal suo faccia a faccia, non tanto e non solo con sé stesso, ma con la nostra condizione di vita. Voleva rendere la morte più discreta e meno scandalosa. In Faut aimer la vie, Roudaut spiega come le note di Perros ruotino intorno a tre interessi: “autre-écrit” (ogni testo è una meditazione sul linguaggio, non un’analisi della sua materialità, ma l’evocazione di un “retro” testo implicito e pulsante), “autre-féminin” (lontano dal mettere fine alla solitudine, la coppia ne è sensibile), “autre-mort”. Tre forme essenziali. Per evitarle, bisognerebbe non scrivere, non amare, non sognare. L’esercizio della letteratura, l’incontro con le donne, la fede in Dio mostrano l’aspetto negativo della realtà dell’uomo. Egli, infatti, è un individuo in tormento, Perros lo afferma senza nessun dubbio, tanto meno con orgoglio, ma come una evidenza, una verità quotidiana di cui si stupisce con ironia e rassegnazione, non c’è niente da trattenere dalla letteratura né dalla vita. Intenzionalmente, mal incollati, i suoi fogli volano al vento.

 

1. 2 La parola di Perros tra scrittura e lettura

 

Uno dei tratti che più caratterizzano il pensiero di Perros è la sua avversione verso gli accademici e verso i loro discorsi “cultivés et heureux de l’être“. In tutto il percorso di Papiers collés, un tono alquanto sarcastico che rende evidente questa presa di coscienza. Sono frequenti i sillogismi del tipo: “ça pense donc ça suit”. Ha sempre sofferto dell’eccesso di distanza o al contrario della troppa vicinanza per poter percepire da vicino ed allo stesso tempo in modo distaccato lo sguardo incessante del lettore. Per celare ed allo stesso tempo svelare le sensazioni troppo coinvolgenti o passionali che questa relazione gli suscitava, si è pronunciato spesso sul testo, con dei laconismi, rotture costanti, l’uso di una parola frastagliata, fino ad arrivare all’uso dell’ellissi. Questa etica e questa estetica da breve incontro, della folgorazione senza sviluppo, è stata una delle sue strategie per permettersi di continuare a dire, senza in realtà dire, nascondendosi dietro una maschera. L’accademico preferisce in generale ostentare visibilmente protezione e veli: non parla se non è debitamente protetto da testi o commentari altrui e amplificazioni retoriche. Sebbene le tecniche siano diverse, anch’essi, come Perros cercano di mettere ordine nel rapporto tra passione e paura con questo gioco costante tra il celare e lo svelare. In Perros lettore, scrittore nel margine del testo di coloro che ha “e-letto”, la sua passione predominante sembrerebbe quella della fuga e del nascondino: “je crois bien que j’ai tout fait – sans le vouloir – pour m’éviter“; “envie de me cacher […] je me dépêche de rentrer, de me cacher, d’être seul“; “il y a en moi un type qui a très vite eu envie de se cacher. Ou plutôt: de ne pas être dans le champ. Invisible. J’y suis presque parvenu, ce n’est pas facile“; “j’ai besoin des autres et de leur chaleur. Mais à distance. À distance“. Nelle sue opere troviamo spesso espressioni similari: sempre la stessa fuga dallo sguardo e dal contatto dell’altro. La sua paura e la sua passione di nascondersi hanno guidato la sua vita, lo hanno condotto al teatro, “un comédien, c’est un homme qui se cache, qui a peur“. Gli stessi sentimenti lo hanno spinto ad abbandonare Parigi e lasciare la commedia teatrale, per condurlo in Bretagna, dove ha vissuto una vita di reclusione, in una casa dalle finestre chiuse. Perros ha tutti gli atteggiamenti di un uomo fobico, mosso da una grande paura e allo stesso tempo da un intenso desiderio dell’altro: unico rifugio la lettura, il mezzo per relazionarsi che più lo soddisfa. Cerca nel libro la presenza e l’assenza del corpo che lo rassicurano, mantenendosi così fisicamente lontano dall’altro, che tanto lo spaventa. L’incontro con la scrittura e i testi di altri gli offrono la possibilità di colmare il suo desiderio di incontro senza doversi impegnare a costruire un rapporto troppo “proche”. Non si tratta quindi di relazioni che richiedono un gioco di costanza fedele, piuttosto di momenti vacillanti, che comunque comportano una messa a nudo della coscienza. Leggere sarà allora cercare di incontrare l’evidenza segreta che scivola in ogni frase, che gli dà forma e allo stesso tempo sembra sfuggire di mano. “Vous chercheriez en vain les mots: solitude, destin, angoisse, désespoir, absurde… inutilisable. Toute approche du feu central étant corrigée par une autre, un mot trop chargé vite délesté entre parenthèses. On cerne la bête. On ne la tue pas. On rectifie le tir à mesure qu’elle nous échappe. À quoi bon ramasser un cadavre !” C. Burgelin paragona Perros al cacciatore o al pescatore, infatti per pescare o per cacciare occorre preparare gli attrezzi adeguati: amo, lenza o fucile, e studiare il modo per colpire la preda; nella scrittura, invece, bisogna liquidare la retorica, ogni schema precostituito, scardinare ogni tipologia di struttura: eliminare ciò che ostacola questa cattura furtiva in una caccia senza selvaggina. Niente spiegazioni. Zigzagare se è il caso. Il paragrafo spesso iniziato con un’idea si conclude con altro contenuto. Perros, protetto e nascosto nel suo rifugio, tira fuori la parte selvaggia, indomabile, quel che del paragrafo è impossibile catturare in un testo, in cui posa le sue invisibili reti o i suoi “mots furets”. Ma ciò che sfugge e si nasconde corrisponde a ciò che si dovrebbe catturare. “Un homme qui parle, ou qui écrit, nous échappe toujours“. Tuttavia in questa fuga, si vede che Perros attribuisce agli altri la sua stessa struttura fobica : bisogna incontrare l’autore. Questo spirito di fuga, è il punto centrale, il sistema nervoso non tanto dell’opera quanto dell’autore, infatti Perros non è un rigoroso esaminatore di opere né di strutture, piuttosto un appassionato dell’esperienza interiore dell’autore e del suo rapporto con la scrittura. “Écrire, c’est être certain d’une chose indicible, qui fait corps avec notre fragilité essentielle“. È questa crepa, questa linea invisibile di rottura tra il verbale e il corporale che egli cerca di circoscrivere. “D’où viennent tous nos maux, toutes nos félicités, sinon de cette chose que nous avons à dire et ne disons jamais ?” Per Perros, si tratta di nominare l’innominabile, ciò che è impossibile enunciare, che ha una voce e che, normalmente, sfugge all’autore come al suo lettore. È questo luogo incandescente nascosto o questo buco aperto, sul quale forse vi è una voragine, che danno alla scrittura la potenza o la musica o l’artiglio o il ritmo. “J’écris dans les trous“. Ciò che attende dalla lettura, forse è proprio quel momento in cui si lascia la presa e si dà spazio alla musica, alla potenza, alla “voce”, il momento asociale, quello dell’uomo vero, quindi, per Perros, quello dell’uomo solo. “C’est dans la solitude (définitive) qu’un homme pense le vrai de sa pensée. Le nu de sa pensée qui disqualifie tout le reste “. ” Il n’y a qu’un moment qui m’intéresse chez l’homme, quoi qu’il fasse ou soit, c’est celui où il se retrouve seul, soit sur un banc de square, soit dans les chiottes, soit sur un lit d’hôpital. Et ce qu’il fait de ce moment“. In letteratura come nella vita, è alla continua ricerca del passaggio di quei momenti di deserto, quegli stessi momenti che ci danno forza: “la perpétuelle solitude qui nous meut, qui fait notre énergie”; “sans la littérature, on ne saurait ce que pense un homme quand il est seul“. È evidente che una simile esperienza pone in essere una personalissima dialettica della distanza: restare distante, mantenere le distanze, per essere più vicini all’intimo, a ciò che non può ridursi, a ciò che non si può addomesticare. Infatti quel che più lo affascina negli uomini è la zona fra il silenzio e il segreto, così come in un testo:
Toute oeuvre d’art est […] conçue autour d’un silence, du silence qui sait, mais garde le secret pour permettre au mensonge qui l’appréhende, qui le tisse à l’envers, dont il est le support, de lui ôter toutes ses ceintures“.
Ma questo silenzio e questo segreto, devono restare tali in presenza di un essere umano per eccellenza come un’opera d’arte vera:
J’aime et j’en souffre, sentir un homme retenu, et incapable de se donner au maximum devant moi (ou tout autre). Qui n’est pas passionné, délirant devant moi“. Perros vuole incontrare l’uomo “a nudo”, spogliato da tutto, libero da eventuali costrizioni mentali e sociali, cioè l’uomo nella sua primordiale essenza.. L’uomo a nudo, è un uomo che ha un corpo – pesante, materiale, umorale, un uomo che cammina. Esiste una tale similitudine tra la scrittura e l’uomo che leggere i corpi vuol dire leggere i testi:
Pourquoi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, me laissent-ils à penser (oui) qu’ils ont fait ce que tout le monde est bien forcé de faire (même l’amour) alors que pas du tout ces messieurs Claudel, Perse … surtout s’ils se mêlent de faire état de leurs diverses passions, outrageusement lyricisées. Le langage, puisque aussi bien nous y voilà enlisés, s’il ne traverse pas toutes les couches des vingt-quatre heures qui nous sont allouées – non à louer – à quoi servirait-il ?
Leggere quindi permette di conoscere questo corpo in modo non solo materiale. I corpi legati dalla stessa miseria o goffaggine fisica possono incontrarsi al di là del loro corpo. Ed è questa verità del corpo, non squallida, ma eccessivamente banale ed inadeguata, che bisogna saper giudicare e nominare. Questo corpo abbandonato, lo si incontra soltanto in un linguaggio di solitudine, che non si trova nella mera scrittura ma oltre, nell’ascolto, quindi, della “voce”: “ce n’est jamais au langage des autres que j’ai fait appel. C’est à la solitude de leur langage, j’entends, leur langage d’avant et d’après l’écriture, celui qu’eux-mêmes ignoraient mais avaient sur le bout de la langue“. La lettura è, per Perros, sia un momento di separazione, sia, successivamente, un momento di riunione, che avviene ad un altro livello in quanto i due aspetti si sono mutuamente arricchiti. Perros, lettore profondo di Valéry, ama citare: “Penser, c’est perdre le fil“. Perros lettore, attento osservatore del filo testuale, utilizza l’arte di perdere il filo, di fare qualche buco nel ricamo del pensiero per ritrovarvi il filo segreto: “C’est de toute manière, quoi qu’on lise ou qu’on écrive, se retirer“. Si ritorna, così, sempre alla figura di un uomo nascosto, di un uomo in esilio, con cui Perros si vuole sempre più identificare. Esilio che può giungere all’annullamento di se stesso: “Je me suis de trop […]. Je ne travaille pas. Je suis travaillé“. Quando il “je de trop” è assente, come se fosse dissolto, si ha una sensazione di angoscia, ci si sente tormentati, usati dalle parole altrui. Durante la lettura si giunge a captare il corpo dell’autore ed allo stesso tempo si viene captati da questo; ciò farebbe supporre un ritiro, una sparizione del corpo del lettore. Si capisce perché Stendhal ha sedotto Perros, l’uomo delle maschere, dai svariati pseudonimi, continuamente in gioco con l’identità. Per Perros, egli incarna una specie di etica ideale, “cet homme extraordinairement contemporain de lui-même”, sempre“impatient de libérer les oiseaux de son discours”. Lo considera capace di cogliere qualsiasi situazione nel suo aspetto centrale “lui, Stendhal, le premier à isoler d’un langage aux rapports usés; le premier à dévoiler en franche et brute luminosité ce que le phénomène de vivre écrase ou fausse“. Questa lettura realizza ciò che meglio appaga Perros, cioè il meraviglioso paradosso d’una traccia evanescente “Stendhal, lecture faite de l’œuvre, lecture oubliée, mais persistant en sa trace légère, turbulente comme sillage de bateau sur la mer“. Questo suo interesse per Stendhal, per uno scrittore che parla da vicino, mette in luce in Perros il desiderio opposto alla solitudine. Egli, infatti, che ha sempre temuto la vicinanza, qui invece celebra quel “tatto-contatto” in cui tutte le distanze dall’altro e dal tempo vengono abolite. “Je ne supporte plus – de loin ou de près – que les hommes qui ont le sens du “toucher”, qui savent faire quelque chose de leurs dix doigts – les musiciens de l’espace“. Stendhal, Barthes e qualcun’altro sono i musicisti di cui parla. Parlare da vicino suppone avere una totale libertà con il linguaggio. “Critique. Parler de Baudelaire, etc., comme il se parlait à lui-même“. Per Burgelin è appassionante vedere, come Perros per diventare un uomo dal ” tocco ” delicato, sia indotto a suonare in staccato la musica della lingua. Fino a giungere, a volte, molto lontano con dei minimalismi e con delle ellissi, come per esempio in alcune “note” su Kleist: “Kleist. Galop de cheval. Poussière (grecque). Sperme (odeur)“. Egli stesso ci fornisce la sua chiara visione del lettore : “Les meilleurs lecteurs sont ceux qui ont renoncé à toute ambition d’écrire“, infatti Perros non si definisce uno scrittore, non ha quella ambizione. Egli scrive semplicemente delle “note” al margine del foglio. “Si j’écris c’est dans la marge, le texte est ailleurs“, comunque anche se scrive nella part marginale del foglio resta sempre attento a: “empêcher les mots de faire des petits dont ils seront fiers“. Bisogna ritornare al soliloquio, quello vero, che accoglie la necessaria incoerenza del discorso, come in questo seguito di note formalmente dislocate, ma che si pigiano, concatenate da una singolare urgenza : “Parole sans référence. Brute. Ignorante. Source. Traversée de couches géologiques. Ce qu’on demande au trajet. L’écriture poisse. Greffe. Distance. Changer. Leiris taureau. La distance, langage bloqué. Mon voisin. Rester à bonne distance du lieu de métamorphose. Sentir qu’on écrit faux…“. Tutto sta nel trovare il ritmo giusto, quel ritmo da cui proviene ogni musicalità: “[le rythme] d’où nous viennent ces rythmes, ces cadrages respiratoires qui nous forcent à obéir à leur exigence musicale, et nous font croire que tout le monde parle non pas tant en vers que soumis à une mystérieuse métrique qui les caractérise plus et mieux que leurs paroles mêmes?” Nelle opere “forti”, bisogna sforzarsi di scoprire quella metrica tanto travagliata quanto segreta: “Toute oeuvre de haute race voile l’évidence d’un poème. Sans lequel, rien. Ni Discours de la Méthode, ni Chartreuse de Parme ni Guerre et Paix. Tenter d’isoler ce poème en éliminant tout ce qui l’empêche”. Dietro la retorica si cela il ritmo, la respirazione stessa del corpo. Esiste in Perros lettore la speranza di trovare una respirazione, nel senso stretto del termine, nel ritmo della parola scritta da altri. Vivere qualcosa, una ebbrezza o una eccitazione attraverso questo ritmo di qualcun altro. La scrittura di Julien Gracq gli offre questo “giubilo” o questa “scottatura”: “Il y a dans la prose de Gracq comme un cliquetis d’armes, sa phrase est chargée – charge émotive – et fait soudain craquer le texte entier, comme le dégel un étang. Il y a emportement, l’alcool métaphorique emporte le linéaire, l’enivre. On pourrait donc ici parler d’érotisme, au sens plein de ce terme extraordinairement galvaudé. Un fil électrique parcourt, fait vibrer, résonner, le cœur des mots, allumés ici et là, et le regard s’en trouve comme enchanté, quasiment “féminisé”; l’oreille alertée par une rumeur de fête lointaine, à figuration magique“. La gioia del lettore – ed egli non smette mai di ricordare che leggere è un piacere – è quella gioia legata ad un respiro felice, è quella che secondo Perros proporrebbe Jean Grenier: “œuvre chantante, notes timbrées à partir d’un neutre légèrement mouillé, parole haletante, suspendue, anxieuse d’en trop dire, de trop se livrer, mais dans le même temps, soucieuse d’atteindre la zone du “juste assez”, suggérant plus que proférant, essentiellement honnête, craignant de trahir sa fêlure, et ne se laissant faire ou défaire, ne s’abandonnant qu’au contact, si j’ose dire, d’un émerveillement d’ordre naturel, ou surnaturel, c’est ici la même chose“. Respirare come gli altri, respirare nell’altro. Forse è qui la speranza di ogni vera lettura, cioè quella inspirante, quella che accetta d’essere investita dal ritmo altrui: “Un simple petit Corot, un intime Vermeer (…) respirent au-delà de la soufflerie humaine, pulmonaire“. Per sapere respirare così divinamente, è opportuno sviluppare le proprie capacità recettive: “Jean Grenier se comparait volontiers à une éponge“. Perros sembrava affascinato dall’idea di una specie di spugna nascosta in ognuno di noi, la spugna polmonare. Stupefacenti sono le immagini che gli ispirano Barthes e la sua scrittura. “L’être, non tant pacifié, réconcilié – avec quoi, avec qui? – qu’équivalent à tout ce qui peut lui arriver, dans cette imbibation propre à l’éponge, dans cette étrange humidité ou moisissure, qui est comme le chant secret du mystère, qui suppure. Moitie“. “Moi” e “toi”, io e tu rappacificati e riconciliati; l’uno e l’altro, metà. Con Barthes, “on respire en mesure, à hauteur du corps“. Pinget è un autore dal respiro largo: “[il] respire bien. La respiration, tout est là. (…) Et on devient sensible à la respiration des autres. (…) Au lieu d’écouter ce qu’ils racontent, on regarde leurs mots, on les bat en mesure. Et on regarde aussi les siens, pourquoi pas“. L’opera di Joubert “respire légèrement”. Jules Renard, gli offre il paradosso di una scrittura che trova bene o male, il suo soffio, ma che allo stesso è capace di tirare un canto da lasciare senza respiro: “Toute son œuvre respire à peine, toujours à deux doigts du figement, de la paralysie. Mais c’est bien dans cet infirme jeu entre la chair de l’être et l’os du cadavre qu’elle trouve son chant tragique, et du coup, échappe à son homme“. Vista l’assenza di pesante materialità, grazie a questa leggerezza la frase respira e, con lei, il suo lettore. Il testo dell’altro dona letteralmente vita. Perros, in rapporto a questa capacità di “respiro”, considera in ambito teatrale come autori maturi Gérard Philippe e da Jean Vilar, nella scrittura narrativa Stendhal e nella scrittura poetica Mallarmé. Da una lettura bisogna essere “organiquement touché” , così solo possiamo congiungerci al corpo dell’altro-autore. La frase a questo punto diventa tramite tra il lettore e l’autore. Essa ci permette di assorbire le parole, le frasi, il corpo dell’autore. Per Perros bisogna poter essere direttamente inzuppati di parole degli altri “j’aime boire”, essere una spugna che assorbe. Riempirsi dell’altro, colmare il vuoto. Perros scrittore – lettore, comunque resta un uomo ricco di contraddizioni, infatti, si lascia colmare, come una spugna, dei tanti autori da lui letti e, allo stesso tempo, vive in una sorta di fuga perenne dalla “presenza” degli altri. “J’aime le zinc d’un bistrot, c’est une manière d’approcher les hommes à distance, de les entendre, de les voir, sans risquer d’être pris pour autre chose qu’une forme d’homme en transit“. Il retroscena è il suo luogo naturale : “Je suis un homme essentiellement “coulisseux”. Je déteste être sur scène, j’ai horreur d’être dans la salle. Mais je me trouve très bien à deux doigts de l’un et de l’autre“. Contemporaneamente distante e vicino, presente e assente. Si capisce così la necessità, per questo “contrebandier de la littérature”, di utilizzare la “nota”, la postilla. Conciso per suggerire un incontro, insieme inconsistente e incandescente. Da questa assenza di pesante materialità, da questa leggerezza, la frase respira e con lei il suo lettore. Il testo dell’altro dona letteralmente vita.

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Nota biograficaultima modifica: 2009-08-18T11:35:00+02:00da weefvvgbggf
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