Graziella, uccisa a 17 anni e senza giustizia dopo 21 anni

Una storia di ordinaria ingiustizia

di Michela Gargiulo

Graziella CampagnaGraziella Campagna aveva diciassette anni quando fu ammazzata a Forte Campone, una collina sopra Messina. Era nata il 3 luglio del 1968 e faceva la stiratrice nella lavanderia la “Regina”, a Villafranca Tirrena. Guadagnava 150mila lire al mese, al nero, e così aiutava la famiglia: padre, madre e 7 fra fratelli e sorelle. La sera del 12 dicembre del 1985, intorno alle 20, mentre aspettava l’autobus che l’avrebbe riportata a casa, a Saponara, fu caricata sopra un’auto e portata a Forte Campone. Un viaggio di pochi chilometri sotto la pioggia, lungo una strada sterrata e piena di buche ma lontana dalle luci del paese. Su quel prato, con i suoi stivaletti piantati nel fango le spararono, frontalmente, a una distanza inferiore a due metri, cinque colpi di fucile a canne mozza. I pallettoni colpirono il braccio con il quale tentò di ripararsi, il viso, lo stomaco, la spalla. Quando era già a terra la finirono con un ultimo colpo alle testa, e il proiettile uscì dal cranio e si piantò nel fango.
Graziella aveva indosso un giubbotto rosso, una maglia a righe, un paio di pantaloni neri e gli stivaletti. Aveva con sé una borsetta che non è più stata ritrovata. Fu un’esecuzione e nessuno sa perché quel delitto fu tanto bestiale, quali furono le domande alle quali la sottoposero, quanto durò quell’agonia.
Il cadavere di Graziella fu ritrovato due giorni dopo. Un giovane medico con la famiglia scoprì il corpo durante una passeggiata. Erano le quattro del pomeriggio quando, insieme con la polizia arrivò Piero Campagna, il fratello carabiniere che fece il riconoscimento. Graziella era distesa su un fianco con le braccia raccolte al petto. Il suo orologio giallo era fermo alle 9 e 12, l’ora della morte.
Il medico legale accertò che Graziella Campagna non era stata violentata né picchiata, non aveva bevuto né ingerito nessun tipo di sostanza: era lucida e cosciente.

Il processo
Dopo 19 anni da quel delitto la Corte di Assise di Messina ha condannato all’ergastolo, per l’omicidio di Graziella, due ex latitanti: Gerlando Alberti jr., nipote di Gerlando Alberti Sr., detto “U paccarè”, boss della mafia siciliana, e Giovanni Sutera, già accusato di omicidio e tentata rapina. Insieme a loro, con l’accusa di favoreggiamento, sono state condannate a due anni la titolare della lavanderia e la collega di lavoro di Graziella Campagna: Franca Federico e Agata Cannistrà. Resta una domanda: perché uccidere una ragazzina di 17 anni, perché farlo in quel modo. Graziella Campagna, qualche giorno prima della sua esecuzione, aveva tirato fuori un’agendina dalla camicia sporca che Gerlando Alberti jr. le aveva consegnato in lavanderia. Per lei, quell’uomo che frequentava spesso la lavanderia era un ingegnere e si chiamava Eugenio Cannata. Con lui c’era sempre il cugino, Gianni Lombardo, geometra, in realtà Giovanni Sutera. Due latitanti che ormai da mesi frequentavano indisturbati quella zona della provincia messinese, godendo di amicizie e protezioni. La provincia “babba” garantiva tranquillità alla loro latitanza e alla loro nuova identità. Graziella tutto questo non lo poteva sapere. Per lei, per i suoi 17 anni, quella era sono una camicia da lavare e da controllare prima di essere messa in lavatrice. Dentro l’agendina, tra le mani di Graziella passarono i segreti che nessuno doveva sapere.
Nomi e storie di complici e protettori. Quando Gerlando Alberti si accorse di averla dimenticata, qualche giorno dopo, spedì di corsa Sutera a recuperarla. Il “cugino” latitante tornò soltanto con un portadocumenti rosso e una foto di Giovanni XXIII. In quel momento fu deciso il destino di Graziella: non lo sapeva la ragazzina, ma aveva visto ciò che non doveva vedere.

Ingiustizia è fatta
Se mancava un solo particolare per definire la storia della stiratrice di Saponara uno straordinario esempio di mancata giustizia, ora abbiamo anche quello: grazie all’indulto, il quattro di novembre Gerlando Alberti jr. uscirà dal carcere dal carcere di Parma, dove scontava altre condanne, ma non l’ergastolo per l’omicidio di Graziella. L’ordinanza di custodia cautelare che avrebbe dovuto lasciare in carcere Sutera e Alberti almeno fino al processo d’appello era già stata annullata il 23 settembre per decorrenza dei termini. I giudici, dopo quasi due anni dal verdetto e ventuno dall’uccisione di Graziella, non avevano ancora depositato le motivazioni della sentenza. Però l’ex latitante palermitano, già condannato per traffico di stupefacenti, nel carcere di Parma ci sarebbe dovuto rimanere almeno per altri tre anni a scontare un cumulo di condanne per reati minori. Ma a fargli lo sconto ci ha pensato l’indulto. Ora le motivazioni della sentenza sono state depositate, esattamente il 6 di ottobre, e a Messina sono anche arrivati gli ispettori del Ministro della Giustizia Clemente Mastella. Troppo tardi.

In breve, per completare il quadro, la cronaca e le date: la ragazza venne uccisa la notte del 12 dicembre del 1985. Quattro anni dopo, il 1 marzo dell’89, il giudice istruttore dispose il rinvio a giudizio per l’omicidio di Graziella Campagna nei confronti dei due latitanti Gerlandi Alberti jr e Giovanni Sutera. Nove giorni dopo la Corte d’Assise di Messina dichiarò la nullità degli atti compresa l’ordinanza di rinvio a giudizio. La causa? La mancata notifica agli imputati della comunicazione giudiziaria. Gli atti ritornarono agli uffici della Procura e, a conclusione della nuova fase istruttoria, la Pubblica accusa questa volta avanzò la richiesta di proscioglimento. Il giudice istruttore la accolse il 28 marzo del ’90 con l’ordinanza che dichiarò il non doversi procedere nei confronti di Sutera e Alberti per non aver commesso il fatto.
Sei anni dopo, nel febbraio del ’96, il programma “Chi l’ha visto” rilanciò il caso Campagna con la lettera di una professoressa che chiedeva la riapertura delle indagini. Quella lettera ottenne l’effetto sperato.

Dalle carceri italiane arrivarono le testimonianze dei collaboratori di giustizia che accusarono, di nuovo, dell’omicidio Campagna gli ex latitanti Alberti e Sutera.
La Procura di Messina riaprì così il caso. Al termine delle indagini, nel ’98, chiese sei rinvii a giudizio accusando di omicidio Gerlandi e Sutera e di favoreggiamento Franca Federico, titolare della lavanderia dove lavorava Graziella, suo marito, Francesco Romano, la cognata Agata Cannistrà e il fratello Giuseppe Federico.
La prima udienza è datata 10 dicembre ’98.
Il resto è storia recente.

La sentenza di condanna all’ergastolo per i due ex latitanti arriva sei anni dopo l’inizio del processo, l’11 dicembre 2004. Per favoreggiamento saranno condannate a due anni anche le due donne che lavoravano con Graziella, gli uomini saranno prosciolti.
Per l’omicidio Campagna, dopo 21 anni, non ha ancora pagato nessuno. Per l’avvocato, per i genitori, per le associazioni antimafia che in questi anni non hanno mai cessato di chiedere giustizia per Graziella resta una sola speranza: tempi veloci per l’appello.

 

 

PER MAGGIORI APPROFONDIMENTI:
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20 maggio 1996 – A Cannitello, una contrada di Santa Margherita Belice (Agrigento), viene arrestato Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci

Giovanni Brusca

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« Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.  »
(Giovanni Brusca, dichiarazione tratta dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Mondadori)
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Foto che ritrae Giovanni Brusca

Giovanni Brusca detto “lo scannacristiani” per la ferocia del suo agire criminale, oppure in lingua siciliana “u verru”, il porco (San Giuseppe Jato20 maggio 1957) è un criminale italiano. È stato un membro di Cosa nostra e attuale collaboratore di giustizia, condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello tristemente celebre del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell’acido, quello del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Antonio MontinaroRocco DicilloVito Schifani. Brusca ricoprì un ruolo fondamentale nella strage di Capaci in quanto fu l’uomo che spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada.

Figlio del famoso boss Bernardo Brusca (19182000) entrò nella cosca del padre fin da giovanissimo per diventarne ben presto il reggente. Dopo l’arresto del padre avvenuto nel 1984 divenne capo del suo mandamento, quello di San Giuseppe Jato, fiancheggiatore dei corleonesi capeggiati da Totò Riina.Biografia

In accordo con Bernardo Provenzano prese il comando dei corleonesi dopo l’arresto di Salvatore RiinaLeoluca Bagarella. Fu arrestato il 20 maggio 1996 ad Agrigento, nel quartiere (o contrada) Cannatello, mentre guardava il film sulla strage di Capaci. Tentò inizialmente di depistare gli inquirenti, per poi “pentirsi” e confessare numerosi omicidi, rilasciando dichiarazioni rilevanti e significative.

Condanne

Strage di Capaci

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Strage di Capaci.

Giovanni Falcone aveva iniziato la lotta alla mafia già a fine anni ’60. Fu lui insieme ai suoi più stretti collaboratori come Paolo Borsellino, a iniziare l’istruttoria del più grande processo alla mafia svoltosi a Palermo, dove vennero convocati oltre 400 imputati. Giovanni Falcone era divenuto così pericoloso per le cosche dopo l’omicidio di Ignazio Lo Presti costruttore “amico degli amici”, quando ci fu una grossa rivelazione fatta dalla moglie, cioè che “ziu” Lo Presti era in stretto contatto con “il boss dei due mondi” Tommaso Buscetta. Era quest’ultimo, dal Brasile, a dirigere gli affari del traffico della droga e gli interessi delle famiglie. Quando Falcone seppe dell’arresto di Buscetta volle andare subito a interrogarlo.

Grazie a questi si fece luce su tanti omicidi sia politici che “tradizionali” come quelli dei pentiti durante la guerra di mafia sia di quelli dei collaboratori di Falcone come Rocco ChinniciGiuseppe MontanaNinni Cassarà. Totò Riina, scottato dalla condanna in primo grado all’ergastolo si mise in agitazione perché il giudice stava andando troppo oltre: nessuno aveva pensato all’eventualità che lo strumento dei “pentiti”, rivelatosi essenziale contro il terrorismo, potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore ContornoNino CalderoneFrancesco Marino Mannoia. A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” ad ostacolare il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Dopo quest’azione di delegittimazione, il 23 maggio 1992 al suo ritorno da Roma, dove era stato nominato procuratore nazionale antimafia, durante il tragitto verso casa il giudice Giovanni Falcone, che già nel 1989 era scampato ad un attentato, trovò la morte.

Per commettere il delitto furono assoldati ben cinque uomini, tra cui Giovanni Brusca che fu la persona che fisicamente azionò il telecomando, i quali riempirono di tritolo un tunnel che avevano scavato sotto l’autostrada nei pressi di Capaci (per assicurarsi la buona riuscita del delitto, ne misero circa 500 kg). Fu una strage (“l’attentatuni“) nella quale persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta (Antonio Montinari, Vito Schifani e Rocco Di Cillo). Questo atto segnò la fine di un uomo (e l’inizio di un mito) che si è distinto nella lotta dello Stato contro la mafia.

Strage di via d’Amelio

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Strage di via d’Amelio.

Brusca dichiarò di non aver partecipato fisicamente alla Strage di via d’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta, bensì di essere uno dei mandanti perché a conoscenza di tutti i progetti di morte di Cosa Nostra per l’anno 1992.

Omicidio di Giuseppe Di Matteo

Giovanni Brusca decise di affrontare la situazione del pentimento di Santino Di Matteo, detto “Mezzanasca”, rapendo l’allora tredicenne figlio di questi, Giuseppe. Con la collaborazione di altri uomini d’onore e pregiudicati a lui sottoposti, sequestrò il ragazzino nei pressi di un maneggio che era solito frequentare e per i due anni successivi lo spostò continuamente in vari nascondigli. I tentativi di Cosa Nostra di convincere il padre a ritrattare le sue confessioni fallirono e portarono Brusca a eliminare il piccolo Di Matteo, facendolo prima strangolare e successivamente sciogliere nell’acido.

Polemiche sul suo regime di detenzione

Il regime leggero di detenzione applicato al pluriomicida ha suscitato diverse polemiche da parte dell’opinione pubblica. A Giovanni Brusca, infatti, grazie ad una decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, dal 2004 sono concessi periodicamente alcuni giorni di libertà per visitare la propria famiglia.

In particolare, “…Il tribunale di sorveglianza di Roma ha concesso all’ ex boss Giovanni Brusca la possibilità di ottenere permessi premio per uscire dal carcere ogni 45 giorni o al massimo ogni due mesi. L’ autorizzazione, motivata con la buona condotta del detenuto, è stata accordata la scorsa primavera, ma la notizia è trapelata soltanto ora. Brusca, in cella dal giorno del suo arresto, avvenuto il 20 maggio del 1996, ha trascorso fino ad ora i permessi concessigli dal tribunale romano con la sua famiglia che vive in una località protetta, come rivela oggi il Giornale di Sicilia. Scortato, in stato di detenzione domiciliare, l’ ex capomafia di San Giuseppe Jato ha lasciato la cella per alcuni giorni. Prima della decisione dei giudici della Capitale il killer che ha premuto il telecomando a Capaci era uscito dal carcere soltanto in seguito ad un’autorizzazione straordinaria per motivi familiari.

Nel 2004 perde il diritto alle uscite dal carcere concesse in premio a causa dell’uso di un telefono cellulare in aperta violazione alle norme sui benefici carcerari.

Altri progetti

 

Predecessore:
Bernardo Brusca
Capo di San Giuseppe Jato
Giovanni Brusca
1984 – 1996
Successore:
Gregorio Agrigento

15 Gennaio 1993 – Viene catturato e arrestato Salvatore Riina.

Salvatore Riina

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.


Salvatore Riina
, meglio conosciuto come Totò Riina, (Corleone16 novembre 1930), è un criminale italiano, componente dei vertici di Cosa Nostra, detenuto dal 1993. Veniva chiamato anche Totò u Cùrtu, per via della sua bassa statura (158 cm).

Gli inizi dell’attività criminale Biografia

Nel 1943 Riina perse il padre Giovanni ed il fratello Francesco di 7 anni mentre insieme a lui ed al fratello Gaetano stavano cercando di togliere la polvere da sparo da una bomba americana inesplosa rinvenuta tra le terre che curavano per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito e Totò rimase illeso.[1] Dopo la morte del padre per l’esplosione, essendo il maggiore dei figli maschi, a 13 anni divenne il capo famiglia. In questi anni conobbe il criminale Luciano Liggio che lo iniziò al furto dei covoni di grano e alla pratica del pizzo ai contadini.

Già diciannovenne fu condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente all’Ucciardone per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo.

Venne scarcerato il 13 settembre 1956 a causa delle poche accuse contro di lui e ritornò nel suo vecchio paese Corleone per assumere un ruolo di rilievo al servizio di Luciano Liggio. In questo periodo conobbe e cominciò a frequentare Antonietta Bagarella, sorella di Calogero eLeoluca Bagarella, che molto presto diverrà sua fidanzata. Insieme a Liggio cominciò ad occuparsi della macellazione clandestina. Con loro c’era Bernardo Provenzano, detto “Binnu u’ tratturi”. Liggio e i suoi fedelissimi inizialmente furono al servizio del dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone. Successivamente assetati di potere decisero di eliminare Navarra per ottenere il predominio nel paese.

Tra gli uomini di Liggio figurava anche lo zio di Salvatore, Giacomo Riina, arrestato nel 1942 insieme allo stesso Liggio per contrabbando disigarette.

Michele Navarra fu assassinato dai sicari di Liggio (2 agosto 1958) che assunse la guida del clan corleonese. Riina, insieme agli amici d’infanzia Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella, iniziò ad assassinare coloro che erano stati fedeli a Navarra (i cosiddetti “navarriani”).

Intorno alla prima metà degli anni ’60, lui, Luciano Liggio e Bernardo Provenzano diedero inizio alla scalata criminale al potere di Palermo, dove contavano sull’appoggio dell’allora assessore Vito Ciancimino, pure lui di Corleone. Grazie a lui fecero un patto con Salvatore La Barbera per il controllo del mercato della carne e il traffico di sigarette. Liggio lasciò Riina e Provenzano a gestire gli affari a Palermo e si nascose a Corleone. Ma La Barbera venne rapito ed ucciso della famiglia mafiosa dei Greco di Ciaculli e da lì scoppiò la “prima guerra di mafia“. I componenti del clan La Barbera fuggirono dal capoluogo siciliano e così fece Riina. Ma fu arrestato nel 1963: una notte, mentre si trovava in una stazione di servizio a Palermo, una pattuglia di Polizia gli chiese di favorire la patente ed il libretto. Riina, che aveva una carta d’identità falsa (dalla quale risultava essere “Giovanni Grande” da Caltanissetta) ed una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare ma venne braccato facilmente dalle forze dell’ordine.

Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione al carcere dell’Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto nei due processi a suo carico, svoltisi a Catanzaro e a Bari (10 giugno 1969). Arrestato nuovamente il 17 giugno 1969 in un albergo di Bitonto mentre era in compagnia di Liggio, il 7 luglio 1969 la prima sezione del tribunale di Palermo lo condannò a quattro anni di confino a San Giovanni in Persiceto (provincia di Bologna). Ma Riina, con la scusa di ritornare per due giorni a Corleone per salutare i suoi parenti, si diede alla latitanza e non partì più per ilconfino.

L’ascesa ai vertici di Cosa nostra

Salvatore Riina fu tra gli esecutori della Strage di Viale Lazio, dove morirono Calogero Bagarella e il boss Michele Cavataio, obiettivo da eliminare (1969). A Palermo si fece nemici il boss Giuseppe Di CristinaGiuseppe CalderoneStefano BontateSalvatore Inzerillo che volevano impedire l’ascesa dei Corleonesi. Fu invece appoggiato dai capi mafiosi Michele GrecoPippo Calò. In questo periodo Riina prese il posto di Liggio, arrestato nel 1974, come “boss dei boss” e sotto il suo comando i Corleonesi accrebbero notevolmente il proprio potere finanziario, grazie al traffico di droga e alle gare d’appalto a Palermo.

Il 16 aprile dell’anno 1974 sposa Antonietta Bagarella (sorella del suo amico d’infanzia Calogero). Dopo il matrimonio hanno avuto quattro figli: Maria Concetta, Giovanni Francesco, Giuseppe Salvatore e Lucia.

Al suo servizio troviamo tre dei più feroci killer: Pino Greco detto “Scarpuzzedda”, esecutore di vari ed efferati delitti, Mario PrestifilippoLeoluca Bagarella cognato dello stesso Riina. Siccome Di CristinaCalderone lo stavano ostacolando, li fece assassinare barbaramente. Il bossBontate invitò Riina nella sua villa per ucciderlo. Ma quest’ultimo venne avvisato da Michele Greco e alla villa mandò due suoi uomini: il piano omicida di Bontate era fallito.

Riina allora fece uccidere Stefano BontadeSalvatore Inzerillo: queste due uccisioni scatenarono una sanguinosa seconda guerra di mafia nei primi anni ’80. Durante questa “guerra” fece uccidere i parenti del boss Tommaso Buscetta (che si salvò fuggendo in Brasile). In seguito Buscetta verrà estradato in Italia e comincerà a collaborare con il giudice Giovanni Falcone. Sconfitte le famiglie dei Bontate, degli Inzerillo, dei Di Cristina, dei Buscetta, dei Badalamenti e dei Calderone, Riina estese il suo potere su tutta Cosa Nostra e realizzò in questo periodo un’aggressiva campagna contro lo Stato, ordinando gli omicidi di tutti coloro che lo ostacolavano.

Le persone che Riina fece uccidere furono:

Il potente politico della DC Salvo Lima e l’esattore della famiglia di Salemi Ignazio Salvo avrebbero promesso a Riina che la sentenza delMaxiprocesso (che lo condannava all’ergastolo in contumacia) sarebbe stata modificata grazie alle loro conoscenze negli ambienti della politica e della magistratura romana. Ciò, tuttavia, non avvenne e il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Buscetta. Riina reagì facendo uccidere prima Lima e pochi mesi dopo Ignazio Salvo.

L’arresto

Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal Crimor (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo) sulle indicazioni del suo ex autista Baldassare Di Maggio. Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo, nella quale trascorse alcuni anni della sua latitanza insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli.

Il carcere

Fino al luglio del 1997 Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l’isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altre persone nell’ora di libertà. Nel 2003 gli è stata annullata tale revoca ed è stato assoggettato nuovamente al carcere duro.

Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, esprime per la prima volta la sua convinzione secondo cui la strage di via d’Amelio sarebbe da imputare allo Stato italiano e ai servizi segreti, ovvero si sarebbe trattato di una strage di Stato.[2]

Personalità

La personalità di Riina, anche grazie al suo carattere schivo e cupo, è rimasta enigmatica.

Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone lo descrisse[3] come una persona molto ignorante, ma dotata di grande intuito e intelligenza in qualsivoglia momento difficili da prevedere.

Calderone disse che la sua filosofia di vita è “Se qualcuno si ferisce un dito, a volte la miglior cosa è tagliare tutto il braccio”.

Figli

Riina ha quattro figli: Maria Concetta (nata il 7 dicembre 1974), Giovanni Francesco (nato il 21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (nato il 3 maggio 1977) e Lucia (nata il 11 aprile 1980).

Il primogenito maschio Giovanni Francesco Riina è stato condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nel 1995.

Giuseppe Salvatore Riina, terzogenito, è stato condannato per associazione mafiosa e recentemente scarcerato [4]

Filmografia

 

Predecessore:
Luciano Liggio
Capo dei Corleonesi
Salvatore Riina
1974 – 1993
Successore:
Bernardo Provenzano
Predecessore:
Gaetano Badalamenti
Commissione di Cosa Nostra
Michele GrecoSalvatore RiinaStefano Bontade
1978 – 1981
Successore:
Seconda guerra di mafia
Predecessore:
Seconda guerra di mafia
Capo dei capi di Cosa Nostra
Salvatore Riina
1982 – 1993
Successore:
Leoluca BagarellaBernardo Provenzano

Note

  1. ^ Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l’Italia e poi venne giù tutto, Feltrinelli, 1993, pag. 158.
  2. ^ Riina sul delitto Borsellino: “L’hanno ammazzato loro”
  3. ^ Stille, Excellent Cadavers, pp. 230-31.
  4. ^ http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/cronaca/mafia-2/libero-figlio-riina/libero-figlio-riina.html Scarcerazione di Giuseppe Salvatore Riina
  5. ^ http://www.corriere.it/Primo_Piano/Spettacoli/2007/05_Maggio/03/il_capo_dei_capi.shtml

Voci correlate

Collegamenti esterni