20 maggio 1996 – A Cannitello, una contrada di Santa Margherita Belice (Agrigento), viene arrestato Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci

Giovanni Brusca

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« Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.  »
(Giovanni Brusca, dichiarazione tratta dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Mondadori)
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Foto che ritrae Giovanni Brusca

Giovanni Brusca detto “lo scannacristiani” per la ferocia del suo agire criminale, oppure in lingua siciliana “u verru”, il porco (San Giuseppe Jato20 maggio 1957) è un criminale italiano. È stato un membro di Cosa nostra e attuale collaboratore di giustizia, condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello tristemente celebre del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell’acido, quello del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Antonio MontinaroRocco DicilloVito Schifani. Brusca ricoprì un ruolo fondamentale nella strage di Capaci in quanto fu l’uomo che spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada.

Figlio del famoso boss Bernardo Brusca (19182000) entrò nella cosca del padre fin da giovanissimo per diventarne ben presto il reggente. Dopo l’arresto del padre avvenuto nel 1984 divenne capo del suo mandamento, quello di San Giuseppe Jato, fiancheggiatore dei corleonesi capeggiati da Totò Riina.Biografia

In accordo con Bernardo Provenzano prese il comando dei corleonesi dopo l’arresto di Salvatore RiinaLeoluca Bagarella. Fu arrestato il 20 maggio 1996 ad Agrigento, nel quartiere (o contrada) Cannatello, mentre guardava il film sulla strage di Capaci. Tentò inizialmente di depistare gli inquirenti, per poi “pentirsi” e confessare numerosi omicidi, rilasciando dichiarazioni rilevanti e significative.

Condanne

Strage di Capaci

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Giovanni Falcone aveva iniziato la lotta alla mafia già a fine anni ’60. Fu lui insieme ai suoi più stretti collaboratori come Paolo Borsellino, a iniziare l’istruttoria del più grande processo alla mafia svoltosi a Palermo, dove vennero convocati oltre 400 imputati. Giovanni Falcone era divenuto così pericoloso per le cosche dopo l’omicidio di Ignazio Lo Presti costruttore “amico degli amici”, quando ci fu una grossa rivelazione fatta dalla moglie, cioè che “ziu” Lo Presti era in stretto contatto con “il boss dei due mondi” Tommaso Buscetta. Era quest’ultimo, dal Brasile, a dirigere gli affari del traffico della droga e gli interessi delle famiglie. Quando Falcone seppe dell’arresto di Buscetta volle andare subito a interrogarlo.

Grazie a questi si fece luce su tanti omicidi sia politici che “tradizionali” come quelli dei pentiti durante la guerra di mafia sia di quelli dei collaboratori di Falcone come Rocco ChinniciGiuseppe MontanaNinni Cassarà. Totò Riina, scottato dalla condanna in primo grado all’ergastolo si mise in agitazione perché il giudice stava andando troppo oltre: nessuno aveva pensato all’eventualità che lo strumento dei “pentiti”, rivelatosi essenziale contro il terrorismo, potesse risultare praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore ContornoNino CalderoneFrancesco Marino Mannoia. A Giovanni Falcone fu riservata prima la tagliente ironia del Palazzo di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” ad ostacolare il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia. Dopo quest’azione di delegittimazione, il 23 maggio 1992 al suo ritorno da Roma, dove era stato nominato procuratore nazionale antimafia, durante il tragitto verso casa il giudice Giovanni Falcone, che già nel 1989 era scampato ad un attentato, trovò la morte.

Per commettere il delitto furono assoldati ben cinque uomini, tra cui Giovanni Brusca che fu la persona che fisicamente azionò il telecomando, i quali riempirono di tritolo un tunnel che avevano scavato sotto l’autostrada nei pressi di Capaci (per assicurarsi la buona riuscita del delitto, ne misero circa 500 kg). Fu una strage (“l’attentatuni“) nella quale persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta (Antonio Montinari, Vito Schifani e Rocco Di Cillo). Questo atto segnò la fine di un uomo (e l’inizio di un mito) che si è distinto nella lotta dello Stato contro la mafia.

Strage di via d’Amelio

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Strage di via d’Amelio.

Brusca dichiarò di non aver partecipato fisicamente alla Strage di via d’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta, bensì di essere uno dei mandanti perché a conoscenza di tutti i progetti di morte di Cosa Nostra per l’anno 1992.

Omicidio di Giuseppe Di Matteo

Giovanni Brusca decise di affrontare la situazione del pentimento di Santino Di Matteo, detto “Mezzanasca”, rapendo l’allora tredicenne figlio di questi, Giuseppe. Con la collaborazione di altri uomini d’onore e pregiudicati a lui sottoposti, sequestrò il ragazzino nei pressi di un maneggio che era solito frequentare e per i due anni successivi lo spostò continuamente in vari nascondigli. I tentativi di Cosa Nostra di convincere il padre a ritrattare le sue confessioni fallirono e portarono Brusca a eliminare il piccolo Di Matteo, facendolo prima strangolare e successivamente sciogliere nell’acido.

Polemiche sul suo regime di detenzione

Il regime leggero di detenzione applicato al pluriomicida ha suscitato diverse polemiche da parte dell’opinione pubblica. A Giovanni Brusca, infatti, grazie ad una decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, dal 2004 sono concessi periodicamente alcuni giorni di libertà per visitare la propria famiglia.

In particolare, “…Il tribunale di sorveglianza di Roma ha concesso all’ ex boss Giovanni Brusca la possibilità di ottenere permessi premio per uscire dal carcere ogni 45 giorni o al massimo ogni due mesi. L’ autorizzazione, motivata con la buona condotta del detenuto, è stata accordata la scorsa primavera, ma la notizia è trapelata soltanto ora. Brusca, in cella dal giorno del suo arresto, avvenuto il 20 maggio del 1996, ha trascorso fino ad ora i permessi concessigli dal tribunale romano con la sua famiglia che vive in una località protetta, come rivela oggi il Giornale di Sicilia. Scortato, in stato di detenzione domiciliare, l’ ex capomafia di San Giuseppe Jato ha lasciato la cella per alcuni giorni. Prima della decisione dei giudici della Capitale il killer che ha premuto il telecomando a Capaci era uscito dal carcere soltanto in seguito ad un’autorizzazione straordinaria per motivi familiari.

Nel 2004 perde il diritto alle uscite dal carcere concesse in premio a causa dell’uso di un telefono cellulare in aperta violazione alle norme sui benefici carcerari.

Altri progetti

 

Predecessore:
Bernardo Brusca
Capo di San Giuseppe Jato
Giovanni Brusca
1984 – 1996
Successore:
Gregorio Agrigento