Se continua ad avvelenarsi poi non chieda compassione

di Tony Damascelli

michael-douglas-fumaCapisco Michael Douglas: uno ha al proprio fianco Catherine Zeta-Jones e dunque abbisogna di affogare la sofferenza in una bottiglia di whiskey, con ghiaccio viste le pessime abitudini yankee. E il fegato va in pappa. Capisco Michael Douglas, non tutti i film da lui interpretati sono andati come dovevasi, dunque lo stress da prestazione e da botteghino ha avuto conseguenze serie sulla sua esistenza. E il cervello è stressato. Ora, a parte le battute e la chiara provocazione dal momento che una vita così se la sognano anche ad Hollywood, mister D. dovrebbe spiegarmi perché mai uno come lui, titolare della Michael Douglas Foundation, roba bella che si occupa della sensibilizzazione dell’opinione pubblica al disarmo nucleare, ai diritti civili e, attenti, alla salvaguardia dell’ecosistema, abbia dovuto in questi anni, sono sessantasei in tutto ma diciamo almeno cinquanta, distruggersi, oltre al fegato e al cervello già detti, anche polmoni e pelle e laringe inspirando, respirando, assorbendo tabacco di ogni genere e forma, fumo in quantità industriali, per arrugginire la voce già fascinosa, fila di bionde di ogni tipo, nel senso di sigarette per poi scoprire, improvvisamente, quel segnale bastardo, l’avviso della malattia e dunque, secondo nuova comunicazione spettacolare, l’annuncio in pubblico, era il David Letterman show. Qui parafrasando Martin Luther King: «I have a cancer», Douglas fece lo scoop. Hai fatto il furbo, mister Mike, ci hai fatto impietosire quella sera lì, ho pensato, ma guarda che razza di uomo, gran figlio di Kirk, suo padre, attore magnifico e adesso anche teatrante superbo, la gente in piedi ad applaudire, con una lacrima sul viso, pure lui con gli occhi lucidi, segnale di commozione ma anche di logorio e fatica. Mesi di preoccupazione, anche un’apparizione patetica in una premiazione televisiva mentre i giornali preparavano il coccodrillo di serie. Poi arrivano quelli dello Star e ci ammollano l’istantanea dal panfilo in acque liguri, la quale fotografia si presta a varie interpretazioni: sta ciucciando una caramella? Si è fatto una canna per alleviare il dolore? Sta fumando e basta? Sapevo che la sua «attrazione fatale» fosse un’altra, però deve essere un vizio di famiglia, altro titolo di repertorio: sua moglie, infatti, la Catherine di cui sopra, pippa che è un piacere, se ne frega del fumo passivo che potrebbe nuocere al consorte. Ma allora si facciano gli affari e le malattie loro, vivano pure come desiderano e la finiscano di cercare carezze e compassione. Comunque continui pure a navigare nei mari italiani ma se non è caramella e se non è cannabis, caro mister Douglas stavolta hai sbagliato film.

 

Roba da gatti: Bigazzi torna in tv

Dopo l’allontanamento dalla “Prova del cuoco” per aver parlato di come cucinare i gatti, Bigazzi ritorna sul satellite. E parlerà di salame di Felino

A volte ritornano. L’esperto di gastronomia BeppeBigazzi, da anni collaboratore de La prova del cuoco, l’aveva fatta grossa quando a febbraio aveva parlato nella (seguitissima) trasmissione di Rai uno dell’antica usanza di cucinare carne di gatto nelle campagne toscane, spiegando con dovizia di particolari come gustare al meglio “lecarnine bianche” dei felini. Immediate le proteste e radiazione di Bigazzi dal programma. Lui non si è mai pentito del gesto.

Ora, in autunno, Bigazzi torna in video, seppur su Alice Tv, un canale tematico di Sky, con un programma a tema culinario dal titolo “Bischeri e Bischerate“, tanto per rimarcare l’origine toscana del conduttore.

L’ironia sembra la dose del programma, perché durante le prime puntate Bigazzi parlerà, guardacaso, delle lingue di gatto e del salame di Felino: occorrerà spiegare bene cosa sia, perché non tutti gli italiani sanno che Felino è la cittadina in provincia di Parma dove questo salame prelibato è prodotto. Che succederà?

Texas ’46

 

Un film che narra un aspetto poco conosciuto della nostra storia recente

SCHEDA DEL FILM

  • Texas ’46 (2002)
    Un film di Giorgio Serafini
  • Genere Drammatico
  • Produzione Italia
  • Durata 96 minuti circa

Trama Texas ’46

L’8 settembre del 1943 l’esercito italiano, nel quadro dell’armistizio, si smembrò. Gran parte dei militari tornarono disordinatamente a casa, alcuni …

Dopo l’8-9-1943 una parte dei cinquantamila militari italiani prigionieri di guerra degli USA si rifiutarono di rinnegare l’alleanza fascista con la Germania e di aderire al governo Badoglio. Furono rinchiusi in due campi, a Hereford (Texas) e nelle Hawaii. Scritto e diretto da G. Serafini dopo aver intervistato decine di sopravvissuti, racconta la storia di Manin (L. Zingaretti), ufficiale friulano che nel 1944, riacciuffato dopo un’evasione, si ritrova nel campo texano ormai evacuato e isolato, con un frustrato colonnello USA (R. Scheider). Tra i due ex nemici nasce una solidarietà virile che si trasforma in amicizia. Come gli altri, Manin fu rimpatriato soltanto nel 1946. Tolto il britannico Another Time, Another Place (1983), ambientato in Scozia, non erano mai stati fatti film sui prigionieri italiani negli USA e in India, ma nemmeno su quelli internati in Germania per motivi opposti. È un sintomo dei tempi che si sia cominciato da quelli che fecero la scelta di Manin. Girato in Bulgaria e in inglese, ha un passo e una scrittura televisivamente corretti, dialoghi inclini alla retorica dell’onore, del dovere e della fedeltà alla patria, due efficaci protagonisti.

Mago Cagliostro. Striscia la Notizia a Marta

 

Sembra che lo abbiano atteso a Marta per due giorni prima di poterlo intervistare. Già nei giorni scorsi gli inviati di Striscia la Notizia avevano smascherato il “mago sciamano”, che promette la guarigione da gravissime malattie come il cancro grazie ai suoi poteri magici e dietro lauto pagamento, grazie ad una complice fintasi sua cliente. Le telecamere nascoste avevano filmato Cagliostro, al secolo Enrico Guerrera, chiedere per la guarigione da un tumore la cifra di 100Mila euro. Presto sul piccolo schermo vedremo le riprese effettuate oggi a Marta.

 

UN MEDICO, UN UOMO

 


UN MEDICO, UN UOMO

(THE DOCTOR)

1992

regia di Randa Haines


Jack McKee (interpretato da William Hurt) fa il chirurgo in un ospedale di San Francisco. E’ molto abile ma, come non si stanca di ripetere ai suoi tirocinanti, ritiene che il suo compito sia “…entrare, aggiustare, andarsene…”, senza perdere tempo a chiacchierare con i pazienti. E’, insomma, il prototipo dei tanti medici ospedalieri americani per i quali – come dice con cognizione di causa avendo a lungo lavorato negli Stati Uniti – Ignazio Marino “il contatto umano col paziente quasi scompare”.

Il dottor Jack McKee è il protagonista di Un medico un uomo (sciocco titolo italiano del film The Doctor), regia della regista statunitense Randa Haines, tratto dal libro autobiografico A Taste of my own Medicine del dottor Ed Rosenbaum. Infastidito da un ricorrente raschiare alla gola, egli si reca dalla dottoressa Abbott, una collega otorinolaringoiatra, per una vista. “Lei ha un tumore alla laringe – ella gli dice alquanto bruscamente – occorre una biopsia”. Il giorno dopo, McKee va in ospedale per farla, gli tocca aspettare a lungo (e pensa, irritato: “Cosa ci faccio qui, io, ad attendere come un comune mortale?”), rifiuta la carrozzella per recarsi in corsia (ma l’infermiere insiste: “Lei ora è un paziente e se cade in ospedale siamo noi i responsabili”), scopre con notevole contrarietà che non gli hanno assegnato una camera singola (“Io non divido la stanza con nessuno” sbraita inutilmente). Il suo compagno di stanza è un poliziotto che gli parla delle sue molte esperienze ospedaliere, dicendo male dei medici e provocando in lui una reazione contraddittoria: da una parte sarebbe spinto a difendere la categoria cui lui stesso appartiene, dall’altra si rende conto che – nella sua nuova condizione di malato – sta subendo gli stessi disagi che l’altro gli racconta (finisce anche col prendersi un clistere destinato, invece, al poliziotto). Comincia a vedere l’ospedale, insomma, con gli occhi del paziente. “Il tumore è maligno” gli annuncia, con la solita durezza, la dottoressa Abbott. Viene decisa la radioterapia, per la quale McKee viene inviato da un altro collega, il dottor Reed. Nuove attese, nuovi moduli da riempire, nuove irritazioni. Egli non sa e non vuole fare il malato (“Sono un dottore anch’io” dice a un certo punto, sentendosi però risponder “Non qui”). Conosce, incontrandola nella sala d’attesa di Reed, una ragazza di nome June: ha un tumore al cervello e fa anch’ella la radioterapia, ha perso i capelli, gli appare stranamente serena seppur cosciente della gravità del suo stato. Tra i due inizia un rapporto profondo, che aiuta lui a comprendere cosa significhi essere malato, nelle mani di medici che con i malati non riescono a dialogare. La malattia e June lo aiutano a cambiare radicalmente il suo stile professionale: se ne accorge un suo assistente quando, avendo usato l’espressione “il terminale della 17” per indicare un paziente in fin di vita, si sente rispondere con durezza “Un malato non è un computer, quel signore che sta morendo nella stanza 17 ha un nome e un cognome e se usi ancora la parola ‘terminale’ per indicare un malato potrai subito dopo chiamare così la tua carriera qua dentro”. Nel frattempo, la radioterapia non dà i risultati sperati così che viene deciso l’intervento chirurgico. Egli cerca di interloquire con la dottoressa Abbott circa i tempi dell’operazione ma si sente rispondere “Il medico sono io e lei è mio paziente, quindi sono io che decido”. Allora si arrabbia ma l’altra sa soltanto commentare “Posso capire come si sente”, al che egli replica, urlando, che il problema consiste proprio nel fatto che lei non ha la più pallida idea di come i malati si sentano e le annuncia che, comunque, da quel momento ha un paziente di meno. Si rivolge così, per l’intervento, a un collega del suo ospedale, che aveva sempre irriso, in passato, per la sua cordialità con i malati. Tutto si risolve e Jack torna al lavoro però è diventato un altro medico. Per esempio, un giorno, dopo aver ordinato ai suoi tirocinanti di togliersi il camice e di indossare la camicia da notte tipica dei pazienti, li informa che, oltre ai nomi delle malattie, d’ora in poi dovranno imparare anche quelli dei malati, perché il loro essere malati li rende impauriti, imbarazzati, vulnerabili” e perciò bisognosi di attenzione, di aiuto, di ascolto. E affinché tale attenzione, aiuto, ascolto possa svilupparsi nei tirocinanti, e dunque futuri medici, egli li informa che “…nelle prossime 72 ore a ciascuno di voi sarà assegnata una malattia, dormirete nei letti dell’ospedale e subirete gli esami clinici di esso…Non sarete più dottori ma pazienti. Buona fortuna, domani verrò a visitarvi”. Dopo di che se ne va, passando dalla portineria ove gli viene consegnata una lettera. E’ di June, nel frattempo morta: “Caro Jack, voglio narrarti una storia. C’era una volta un contadino che aveva un campo e cercava di tenerne lontani gli uccelli. Ci riuscì ma alla fine si sentì solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri e si mise in mezzo al campo a braccia spalancate, per richiamarli. Essi, però, pensarono si trattasse di un nuovo spaventapasseri e restarono lontani. Allora egli comprese che era il caso di abbassare le braccia e gli uccelli tornarono. Ecco, anche tu devi fare così: impara ad abbassare le braccia”. E il dottor Jack imparò.

Il film è ben narrato e ben recitatao. Non sarà un capolavoro ma merita di essere visto da tutti gli studenti di medicina delle università italiane, per aiutarli a capire la bellezza del fare il medico con le braccia abbassate.