La Fiction che cambia la vita
Da “Il Messaggero” di mercoledì 7 gennaio 2015
di Carla Massi
L’effetto “Braccialetti rossi” si vede nelle corsie degli ospedali, negli ambulatori, nelle scuole, nelle case dei bambini e dei ragazzi malati. La fiction che RaiUno sta mandando in replica la domenica sera (già pronta una seconda serie) non ha terremotato solo l’auditel. È riuscita ad abbattere un tabù: quello che avvolge il tumore nei più piccoli. Fino a portare le immagini degli adolescenti sulla sedia a rotelle e senza capelli in prima serata nelle domeniche in famiglia.
Potevano essere un azzardo le storie dolorose di Leo (senza una gamba amputata per un cancro), Vale (stessa malattia di Leo), Cris (anoressica), Davide (cardiopatico), Tony (vittima di un incidente) e Rocco (in coma) e invece si sono trasformate, nella realtà, in un’autentica rivoluzione. La regia di Giacomo Campiotti, dunque, sovrapposta a quello che ogni giorno accade nei nostri ospedali pediatrici dove a un bambino o a un adolescente viene fatta la diagnosi di tumore o scoperto un danno al cuore.
LA NORMALITÀ
«La rivoluzione – spiega Annalisa Serra oncoematologa responsabile del Day hospital del Bambino Gesù a Roma – sta nel fatto che i piccoli pazienti si vergognano di meno ad andare a scuola senza capelli. Sta nell’aver fatto entrare questo argomento nella normalità. Sta nel far sentire i più piccoli dei supereroi che si riconoscono nella fiction. Alcuni mi hanno chiesto: “Perché nella televisione i ragazzi hanno le sopracciglia dopo la cura e noi no?”. Il riconoscimento dei bambini nella fiction dà carica ed è un grande aiuto sia per noi e che per le famiglie».
DALLA SPAGNA
Si parla di rispecchiamento nelle immagini e nelle situazioni, nelle paure e nei sorrisi. Così appassionatamente descritti nel testo all’origine di tutto: l’autobiografia di Albert Espinosa, nato a Barcellona nel 1973 e diventato uno dei più noti scrittori, registi, autori di teatro e tv spagnoli, che narra la sua esperienza di malattia. Nessun vittimismo. Solo quei dieci anni, dai 14 ai 24, durante i quali Espinosa ha lottato contro un tumore, l’osteosarcoma alla gamba. Dal quel libro, la fiction italiana (oltre 5 milioni di spettatori) e i diritti per gli Stati uniti acquistati da Steven Spielberg.
Camilla, romana, oggi ha 17 anni. Quando ne aveva 12 le è piovuta addosso una diagnosi di leucemia mieloide acuta. «In otto mesi di terapie al Bambino Gesù ce l’ho fatta – racconta – e ora vado ad aiutare gli altri ricoverati. Piccoli e adolescenti. Vedere quelle scene alla televisione, anche se romanzate, è stata una grande cosa. Ci siamo sentiti finalmente meno soli. Le cose vanno detto come sono. Che si perdono i capelli, che si sente dolore ma anche che tutto può passare e che il gruppo ti aiuta».
Tanto che nell’ospedale pediatrico romano è nato il team dei “Braccialetti bianchi”. «Quelle puntate, seppur un po’ edulcorate – aggiunge Federica, madre di Camilla, oggi attivista di Abe, Associazione bambini emato-oncologici (www.abeonlus.org) – dimostrano che l’unione è forza e che non è più tempo di vergogna».
IL MODELLO
La Favo, la Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia,ha dato un premio a “Braccialetti Rossi”: «Coraggiosa, commovente e rivoluzionaria fiction che racconta il cancro come esperienza di vita», spiega Elisabetta Iannelli vicepresidente dell’associazione. «Molti ragazzi quando entrano in corsia non hanno nessuna voglia di parlare poi, piano piano, si rendono conto e imparano a capirsi ed aiutarsi. Le storie sono dei modelli che, per molti aspetti, hanno trasformato la vita del bambino e del giovane malato»
Ora il film si è fatto modello. Con il ragazzo antipatico “forgiato” dall’amicizia, il piccolo morto di cuore e la giovane Cris anoressica e senza sorriso. Ma anche con l’immagine di tutti sulla sedia a rotelle a guardare lontano.
«I pazienti tra i 15 e i 19 anni – fa sapere Andrea Ferrari, oncologo pediatra dell’Istituto tumori di Milano e promotore del “Progetto giovani” nell’ospedale – pur soffrendo degli stessi tumori tipici dell’infanzia, si trovano in una sorta di “terra di nessuno” venendo spesso curati nei reparti per adulti. Una situazione che aumenta il loro disagio e li spinge a restare a letto depressi. Anche con i bambini molto piccoli hanno difficoltà a convivere. Per questo abbiamo creato degli ambienti dove i ragazzi possono incontrarsi. Fare palestra, studiare, cantare».