Dustin Hoffman operato per un tumore, sta bene e tornerà a lavorare presto

Milioni di fan in giro per il mondo hanno tirato un grosso sospiro di sollievo. Dustin Hoffman sta bene. Il popolare e geniale attore americano è stato operato per un tumore ed ora, secondo quanto affermato dal suo portavoce, sta bene ed è in ottime condizioni. Dustin Hoffman compirà settantasei anni domani essendo nato l’otto agosto del 1937.

Al momento non si conosco i dettagli che riguardano il tipo e la natura del tumore che ha colpito Dustin Hoffman. E’ stato reso noto soltanto che era necessario intervenire chirurgicamente per rimuoverlo. Le solite voci dei ben informati riferiscono che il tumore è stato preso nella sua fase iniziale e che l’intervento è perfettamente riuscito.

Dustin Hoffman sarà sottoposto, ora, ad una terapia tesa a minimizzare i rischi di una ricaduta. In ogni caso l’attore ha già fatto sapere di essere intenzionato a continuare a lavorare. Proprio quest’anno ha fatto il suo esordio alla regia con “Quartet” ed ha un film in rampa di lancio che lo vede protagonista insieme a Scarlett Johansson e Robert Downey Jr. Si tratta di “Chef”. Molto bella anche la serie tv “Luck” ambientata nel mondo delle corse di cavalli.

Dustin Hoffman ha vinto due premi Oscar, nel 1979 per “Kramer contro Kramer” e nel 1988 con “Rain Man” dove, in coppia con Tom Cruise, interpretava un uomo afflitto da autismo. Dustin Hoffman ha anche cinque nomination agli Oscar. La sua carriera è iniziata nel 1967 con “Il Laureato” anche se in realtà in precedenza aveva accumulato una serie di ruoli da caratterista che sono passati inosservati.

Altri due grandi attori della stessa generazione sono stati colpiti da un tumore e ne sono usciti bene. Si tratta di Michael Douglas che ha sconfitto un tumore alla gola e di Robert De Niro. A questo punto non resta che attendere l’uscita di “Chef” per correre al cinema ad ammirare uno dei più grandi attori della storia del cinema.

Levon Helm, un ricordo

Levon Helm, un ricordo 20 apr 2012 – Levon Helm, morto ieri sera per un tumore alla gola che gli era stato diagnosticato a fine anni ’90, rimarrà per tutti la voce indimenticabile di “The weight”, di “The night they drove old dixie down”, di “Up on cripple creek”, di “Rag Mama Rag” e di tanti altri capolavori della Band, il gruppo che in piena epoca di flower power, psichedelia e divismo rock osò andare controcorrente alla riscoperta delle radici e dei valori della tradizione propugnando la predominanza del collettivo sui singoli (per questo si arrabbiava tanto quanto qualcuno ne attribuiva la leadership a Robbie Robertson, cui contestava la paternità di gran parte del repertorio).  
Era l’unico statunitense, anzi sudista (nato in Arkansas il 26 maggio del 1940) in unacongrega di “nordisti” canadesi. Il primo a darsi alla folle vita del musicista itinerante, seguendo il rocker conterraneo  Ronnie Hawkins sulla via di Toronto e vestendo i panni del bandleader degli Hawks, il bozzolo da cui nacque la Band. Il working man del gruppo (disilluso dalla iniziale mancanza di successo, andò a lavorare sulle piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico mentre gli altri accompagnavano Bob Dylan nel leggendario tour elettrico che riscrisse la storia del folk e del rock). L’alter ego spiccio e concreto di Robertson, l’intellettuale con aspirazioni artistiche. La voce più calda e più profonda, più country e più rock & roll nello straordinario ordito canoro che impreziosiva le armonie della Band, tra il falsetto pungente di Richard Manuel  e l’appassionato timbro tenorile  di Rick Danko (“The weight”  resta l’esempio più mirabile della loro vocalità condivisa). Morti prima di lui, tutti e due: Manuel suicida nel marzo del 1986, Danko per un infarto causato dall’abuso di droghe nel dicembre del 1999. Sopraffatti, entrambi, dai demoni interiori e dalla crudele macchina del rock’n’roll (quando il rock’n’roll non era davvero roba per cuori teneri). Levon, molto più tough , amava la vita on the road e amava viaggiare. Aveva resistito, continuando a sventolare la bandiera della Band anche dopo il “tradimento” di Robertson. Ed era uno che non le mandava a dire: “La gente mi chiede sempre di The Last Waltz”, aveva scritto nella prefazione della sua biografia uscita nel 2000, “This wheel’s on fire: Levon Helm and the story of the Band”. “Quel che penso di Last Waltz è Rick Danko che muore a cinquantasei anni. E’ stato il più grande, fottuto imbroglio mai capitato alla Band. Senza alcun dubbio” (Helm sosteneva che lui, Danko, Manuel e Garth Hudson – tutti loro, meno Robertson – non avevano mai visto un solo dollaro, di tutti quei soldi generati dal film e dagli album, dagli home video e dai dvd).
Come i suoi compagni di ventura, era un multistrumentista abile alla chitarra, al mandolino e – soprattutto – alla batteria (uno dei pochissimi, poi, a saper cantare e percuotere le percussioni nello stesso tempo): con quel backbeat , quel ritmo strascicato e quella particolare accordatura “molle” che faceva suonare i suoi tamburi come uno strumento melodico, consentendogli nei brani più lenti di “tenere il tempo sospeso come se restasse a mezz’aria” (nelle parole del critico Rob Bowman). Un tocco inconfondibile nell’economia di un combo musicale che nel ’68, complice Dylan e gli esperimenti dei “Basement tapes”, aveva inventato l’ “Americana” con vent’anni di anticipo, reimmaginando l’epopea e la mitologia della frontiera, dei medicine show e della guerra di secessione attraverso un mix fantastico e avventuroso di gospel, country, soul, blues e ragtime. 
Aveva anche la “faccia” giusta, Levon, e per questo venne corteggiato anche dal cinema: resta memorabile, e struggente, la sua apparizione nei panni di un vecchio cieco disperato ne “Le tre sepolture” di Tommy Lee Jones (2005). E non voleva saperne di mollare: anche dopo la malattia, e malgrado una voce ridotta quasi a un soffio, aveva continuato a suonare e cantare, vincendo un Grammy nel 2007 con l’album “Dirt farmer” e continuando a organizzare un festival, il Midnight Ramble, presso la sua Farm a Woodstock, vicino a quella “Big Pink” dove la storia della Band era cominciata. E che ora si è conclusa con una riconciliazione. La settimana prima che morisse, Robbie Robertson, il vecchio amico/nemico con cui non comunicava da decenni se non tramite avvocati, è andato a trovarlo in ospedale: “Me ne sono stato con lui per un po’, a pensare ai momenti bellissimi e incredibili che abbiamo vissuto insieme. Levon è una delle persone più straordinariamente di talento che abbia mai conosciuto e qualcosa di molto simile a un fratello maggiore per me”, ha raccontato poi. “Sono grato di averlo potuto vedere un’ultima volta, mi mancherà e gli vorrò bene per sempre”. Il cerchio, alla fine, si è chiuso. (am)     

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