A come Amianto. Il teatro civile di Ulderico Pesce in scena all’Ambra alla Garbatella

Teatro

 

Un viaggio che attraversa l’Italia fino ad arrivare all’Eur di Roma cercando di fare luce sull’inquinamento da Amianto

A come Amianto. Il teatro civile di Ulderico Pesce in scena all'Ambra alla Garbatella

di Daria Bellucco
12/11/2011



Il 17 novembre avrà inizio presso il Tribunale di Roma il processo contro le società coinvolte nell’abbattimento del Velodromo dell’Eur con l’accusa di disastro colposo. Motivo di questa imputazione, le modalità con cui il 24 luglio del 2008 l’amministrazione comunale fece implodere mediante l’uso del tritolo il Velodromo al cui interno, secondo la successiva relazione Asl, erano presenti 130 chili di materiali in cemento amianto e altri 4.535 chili di materiali contenenti amianto.

La fibra di amianto, più piccola 1300 volte di un capello, si inala con facilità generando nove volte su dieci il mesotelioma pleurico, un cancro che corrode i polmoni fino a farli sparire.

L’esplosione della “pista ciclabile migliore del mondo”, realizzata per le Olimpiadi del ’60, ha generato una nube di polvere di fibre d’amianto che si è posata sulle teste degli abitanti della città, tra cui i bambini del nido del vicino viale Egeo. Tutti erano all’oscuro di ciò che stava accadendo. L’Eur spa, società proprietaria del Velodromo, pur consapevole della presenza di tubi contenti cemento-amianto non avvertì l’Asl dell’imminente esplosione.

La gravità di quanto accaduto e l’assurdo silenzio che copre la vicenda sono la causa della rabbia del teatro civile di Ulderico Pesce. A come Amianto è un viaggio attraverso i luoghi dell’Italia colpiti dalla polvere killer. Casale Monferrato (AL), dove l’Eternit fabbricava il famoso materiale con il medesimo nome, un miscuglio di cemento e amianto usato per la copertura delle case e per fabbricare tubature idriche; Monfalcone (GO), dove dal 1907 si fabbricavano navi isolate tramite amianto; Balangero (TO), dove si trova la più grande cava di amianto di tutta Europa; Biancavilla, una cittadina di 23mila abitanti circondata da rocce ricche di amianto e Sesto San Giovanni (MI), dove grandi fabbriche come la Breda hanno lavorato l’amianto sia dai primi anni del ‘900 senza alcuna cautela per gli operai e per i cittadini.

Lo spettacolo è costruito sulla storia d’amore tra Nico e Maria. Nico è un giornalista d’inchiesta che gira l’Italia alla ricerca di testimonianze sulle cause della lavorazione dell’amianto che lo portano a scoprire una catena di morte composta da 37.000 innocenti, molti dei quali richiedevano norme di sicurezza la cui negazione veniva giustificata dalla costante minaccia di chiusura della fabbrica in cui erano assunti.

Attraverso le testimonianze degli operai sopravvissuti e dei famigliari dei deceduti Ulderico Pesce  riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore unendo la drammaticità del reale all’ironia e l’umorismo che sempre caratterizza le sue opere.

Per l’autore/regista il teatro è uno strumento di denuncia attraverso il quale informare divertendo, nella speranze di generare una “reazione sociale”. Ed è stato grazie alle tremila firme raccolte sul suo sito (www.uldericopesce.it) che si è riusciti a trasformare l’imputazione del processo di Roma da “getto di cose pericolose” a “disastro colposo”.

L’amianto è stato messo al bando solo nel 1992 quando sin dal 1898 si era consapevoli del carattere cancerogeno del minerale. Ma il problema persiste perché esistono ancora intere aree da bonificare, un infinità di prodotti ancora in uso costruiti con il materiale killer e vi sono paesi come il Canada in cui è ancora consentito produrre derivati dall’amianto.

In Italia nessuno dei dirigenti delle fabbriche imputate – Breda e Falk in primis – hanno pagato per le vittime del loro guadagno e ciò che più indigna è la mancanza della dovuta attenzione da parte della stampa italiana.

Grazie anche ai video che documentano l’esplosione del Velodromo Ulderico spinge lo spettatore/cittadino ad esigere un suo diritto fondamentale e cioè il diritto all’informazione.

Lo spettacolo continua sabato 12/11 alle h 21.00 e domenica 13/11 alle h 17.00 al teatro Ambra alla Garbatella Piazza Giovanni da Triora, 15

Frankenstein

Frankenstein
titolo: Frankenstein
sottotitolo: Di come trasformare i vivi in morti e i morti in testimoni
genere: prosa (dialogo) con scenografie e coreografie
comparse: 15
durata: 70/80 minuti

Non è un bello spettacolo.

Ciò che voi sentirete è la voce
inascoltata di una generazione di operai bruciati
dall’amianto e
dalla barbarie dei loro padroni.

Quella voce è soffocata.
Quasi inascoltabile,
come nel migliore free jazz…
Eppure impetuosa, coinvolgente,
necessaria.

Nei reparti ‘Aste’ e ‘Forgia’ della Breda di Sesto San Giovanni più di settanta persone sono morte
per leucemia, mesotelioma della pleure e altre forme tumorali. Senza parlare del resto del Paese.
Più che una storia, un inganno: un posto di lavoro voluto a tutti i costi, agognato come un
paradiso, che si è rivelato un inferno. Occorre sapere il come e il perché.

Come nasce l’idea

Dalla necessità di tornare a raccontate la storia degli operai della Breda, in particolar modo di
coloro che lavoravano nei reparti ‘aste’ e ‘forgia’; di come si sono, con il passare degli anni, prima
ammalati e poi visti annientare a causa della continua esposizione a sostanze tossiche, in modo
particolare all’amianto. Sono morti più di settanta solo in quei reparti.
E’ uno spaccato di società che occorre spiegare e narrare, come nel caso di Porto Marghera o di
Bhopal.
Dal disincanto degli inizi fino alla emblematica verità: di lavoro si muore.

Silvestro Capelli

Ex operaio della Breda, laringectomizzato, operato più volte per un tumore da amianto. L’unico
sopravvissuto del suo reparto.
Ha iniziato a quattordici anni a lavorare in fabbrica, esattamente all’età in cui ha iniziato ad
ascoltare e apprezzare la musica jazz.
Ora, a distanza di anni, di quella musica non può più fare a meno, perché è diventata la colonna
sonora della sua esistenza.
Ad ogni autore, ad ogni brano, corrisponde un preciso accadimento, una scena ben impressa nelle
mente.
E’ in grado di raccontare quale autore di jazz stava ascoltando nel periodo della strage di piazza
fontana oppure molti anni dopo, durante il sequestro di Aldo Moro o durante dalla vittoria dell’Italia
ai mondiali di calcio.
Una memoria sonora vivente.
Silvestro Capelli è un omone grande con gli occhi propondi e le mani da lavoratore di fonderia.
Sguardo inequivocabile.
Espressione convincente.
Gli amici dicono di lui che rappresenta una forza della natura, una sorta di terremoto. Ed è così. A
sentirlo parlare – nonostante la sua voce ridotta ad un filo stridente, quasi soffocato – viene voglia
di alzarsi, di non stare a guardare. L’operaio Silvestro è impetuoso, coinvolgente, quasi necessario.

Il jazz di Miles Davis

Lui dice che si è appassionato a questo genere musicale perchè porta con sé più ‘stonature’, più
variazioni improvvise.
Un ciclo ritmico che muta timbro e tono per significare altro, per diventare altro… e nasce il free
jazz.
E la sordina di Miles Davis – a ben vedere – è la cifra per comprendere al meglio la sua voce. Lui
ama ripetere che la sordina gliela hanno messa i dirigenti della Breda: parla così, con un fiato
compresso e rantoloso, perchè qualcuno o gli tappava la bocca o gli mozzava la lingua.
Urla. Silvestro è in grado di urlare. Ma la voce non la può più alzare. Gli rimane una grande fisicità
plastica, piena di vibrazioni, di movimenti. Gli piace il ballo e… ovviamente ballare con le donne.
Poi se ti capita di chiedergli qualcosa sul suo genere musicale preferito, si ferma, scuote il capo,
accenna un sorriso, apre la bocca allargando le braccia e sommessamente dice: “è una storia lunga”
e così si racconta fino ad arrivare ad incupirsi: i giorni fatali della malattia, i compagni che
sgocciolano via come da un rubinetto che perde, il contropiede dei processi, degli inganni di tanti
che avrebbero dovuto, avrebbero potuto ma…, la classe operaia che davvero se ne va in paradiso,
la chiusura progressiva della fabbrica. “Devi sapere….” è la frase-tipo di Silvestro pronuncia
quando guarda fisso negli occhi le persone del pubblico.
Emozioni e certezze si fondano in questo oratorio-testimonianza.

Lo spettacolo-esperienza

La struttura scenica dell’unico atto è piuttosto complessa perchè accanto a Silvestro Capelli, un
gruppo di venti attori allestisce una serie di coreografie e movimenti scenici, vera cornice entro la
quale si inserisce e trova spazio la vicenda narrata.
Densa e avvincente la scena centrale dello spettacolo, dove gli attori, all’interno di una danza
acrobatica, costruiscono la fabbrica con elementi metallici realizzati dal gruppo di artisti-scenografi
Monbotan.

Lungo questo viaggio si ascolteranno diversi brani musicali appartenenti a differenti autori Jazz.
E’ qui che l’autobiografico diventa drammatico. Silvestro di fronte al pubblico ripercorre le fasi della
sua malattia e delle sue lotta contro il silenzio e l’indifferenza, soprattutto dei dirigenti.
Verso la fine, un monologo di Lella Costa ripropone al pubblico il tema dell’amianto in fabbrica in
tutta la sua drammaticità.

Il risultato finale è un oratorio di circa settanta minuti molto toccante ma sobrio, asciutto, per nulla
retorico.

Non si concede uno spunto per un piagnisteo, anzi. E’ esercizio di memoria denso di dignità e di
fermezza nel rispetto delle vittime e della necessità della ferma condanna per chi sapeva, taceva e
tradiva.

A questo spettacolo (che è anche una campagna di sensibilizzazione) hanno aderito numerose
personalità del mondo della cultura:

Michael Moore, Ben Pastor, Giulietto Chiesa, Gianni Cipriani, Domenico Cacopardo, Renato Sarti,
Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Alex Zanotelli, Enrico Solito, Oliviero Diliberto, Daniele Sepe,
Paul de Villepin, Carlos Menez y Contrera, Gianfranco Bettin, Maurizio Dianese, Marco Paolini, Paolo
Crepet, Stefano Benni, Daria Bonfietti, Paolo Giuntella, Antonio Secchia, Giorgio Antonucci, Adolfo
Ceretti, Manlio Milani, Alberto Melis, Laura Ferrante, Marisa Ferrario, Massimo Pozzi, Roberto
Galliani, Roberto La Paglia, Carmen Corona, Stefano Levi Della Torre, Gigi Malabarba, Goty Bauer,
Moni Ovadia, Edoarda Masi, Aldo Giannuli, Adriana Zarri, Leonardo Gori, Cooperativa teatrale QDG,
Leonardo Arena, Paolo Brosio, Giuseppe Gozzini, Sabino Zapparoli, Felicita Salaris, Serena, Marco e
Susanna Sini, Lucia Magda Stern, Gottardo Siniscalchi Zini, Luca Martinelli, Anna Maria Crespi, Luca
Porzio Serravalle, Henry De Corbelle, Massimo ed i Rua, Daria Calzetta, Eleonora Bonfanti, Thomas
Engleton, Silvia Fissi, Susanna Taggi, Elena Sofia Malerba, Frederich De Poissy, Suor Enrichetta,
Gianni Confalonieri, Paolo Pasi, Anna Maria Bernasconi, Marco Fossati, Lucio Angelini, Daniel
Volgelmann, www.dramma.it, Collettivo Bellaciao, Giovanni Arduino, Lina Morselli, Massimo
Carlotto, Paolo Brunelli, Luciana Bressan, Teatro Dei Filodrammatici, Emilio Russo, Gianfelice
D’Accolti, Edizioni Eleuthera, Dino Taddei, Eleonora Bellini, Paola Baratto, Carlo Trotta, Giovanni
Ferrario, Ariodante Marianni.

L’APOCALISSE TEATRALE DELLA SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO

&


Raimondo Guarino
[
recensione, inedita, al libro “Epopea della Polvere. Il Teatro della Societas Raffaello Sanzio 1992-
1999. Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi”, di Romeo Castellucci, Chiara Guidi,
Claudia Castellucci, pp. 328, Euro 20,40, Ubulibri, Milano 2001
]
La qualità e la riconoscibilità di un’esperienza teatrale risiedono oggi nella rivendicazione della
differenza culturale. Ma esistono modi di affermare nel teatro la differenza culturale che più degli
altri si concretizzano in termini evidenti ed eloquenti di presenza e di efficacia. Nel varco tra
opposizione irriducibile e vocazione inesorabile si iscrive il mondo parallelo della Societas
Raffaello Sanzio. Epopea della polvere raccoglie le scritture sceniche di Romeo Castellucci, regista
della compagnia, per gli spettacoli della Societas degli anni Novanta, oltre a numerosi interventi e
testimonianze dello stesso regista e di Claudia Castellucci e Chiara Guidi, cofondatrici e
compartecipi dell’identità e dell’attività della formazione cesenate.
Il libro invita il lettore a percorrere la fase recente di una vicenda ventennale. Alle origini, nei primi
anni Ottanta, c’era un gruppo di adolescenti che, auspice Giuseppe Bartolucci, infilava nelle serate
del festival di Santarcangelo e nel circuito dell’avanguardia postmoderna spericolate parabole di
guerra tra i mondi e anatemi sulla civiltà occidentale. Quelle apparizioni di eccentrica aggressività
infrangevano i limiti sempre incombenti del senso comune teatrale, riformulando fermenti e
tensioni di attivismo che nel decennio precedente avevano cercato altri approdi e altre certezze.
Tutta la storia della Societas, di cui il libro ricostruisce il segmento dal 1992 al 1999, non è soltanto
una sequenza di spettacoli o l’intermittenza di una cifra operativa e stilistica, ma letteralmente
l’epopea, il racconto di gesta che hanno prodotto un caso e una leggenda, un’ipotesi culturale
inconfondibile e una pratica fervida, avulsa e audace della scena.
Tanta audacia si deve alla volontà di ritrovare il senso del teatro ponendosi fuori dai suoi
automatismi, rifiutando l’oppio del mestiere fine a se stesso e insediando nel teatro il fronte di
resistenza contro i meccanismi della comunicazione contemporanea. La Societas è una delle
formazioni di fine Novecento che si sono espresse ridefinendo i fattori della tradizione e i valori
della composizione. Nel lavoro del gruppo cesenate la centralità del corpo dell’attore trascende,
quando non le ripudia, l’acquisizione e l’esibizione della padronanza tecnica. La risorsa decisiva è il
confronto con il disagio del mostrarsi che sta alle radici del potere della presenza scenica. Nelle
massime conclusive di un testo del 1997, Romeo Castellucci dichiara la sua predilezione per
l’Ottocento e per il circo. Queste due indicazioni vanno considerate e sviluppate sia per l’apertura,
ottocentesca e circense, alle varie tipologie dello spettacolo, sia per il movimento di regressione
verso altre civiltà e altre etologie e biologie che nel linguaggio e nella prassi della Societas rianima
e riempie la distanza archeologica della rappresentazione vivente. La stranezza del teatro si ispira
qui a fonti che trascendono le convenzioni e le tradizioni artistiche e che nel contempo le
necessitano, proiettandole nell’ostilità connaturata, nello squilibrio di sapere e sentire essenziale al
rapporto tra teatranti e spettatori.
Epopea della polvere, più che un documento, è una risonanza, una vibrazione che afferra nella
scrittura postulati e moventi dell’atto di creazione. Scorie marginali e secondarie, scrivono gli
Autori nella premessa. Comunque le parole che si leggono sono la traccia di una direzione
fondamentale nel lavoro di Romeo e Claudia Castellucci, di Chiara Guidi e dei loro attori e
collaboratori: la rivendicazione della forza simbolica del teatro, realizzata per segni e riflessi di
apocalisse, per visioni che alimentano lo sgomento, per enigmi che pongono questioni di identità
collettiva, senza mai eludere e senza mai esaurire le domande sul senso. Le creazioni della Societas
sono strutturalmente apocalittiche, cioè costruite sull’associazione di apparizioni bestiali e mitico-

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teofaniche, sulla meraviglia fitta di implicazioni mentali ottenuta con macchine e congegni
pertinenti all’officina dell’illusione teatrale. Alla base dell’ispirazione taumaturgica si riconosce una
pratica dell’artigianato scenico elevato a metodo di illuminazione. Una trama di azioni meditate e
concrete sgomina i ritmi e le consuetudini dell’immagine virtuale e materializza etimologie e
metafore pietrificate (il canto del capro, l’arte scimmia della natura), saggiando e riscoprendo le
parentele secolari che legano alla memoria del teatro sistemi di espressione come la retorica (un

gt;

motivo centrale nella riscrittura del Giulio Cesare di Shakespeare) e l’emblematica. Il senso
letteralmente apocalittico, rivelatore del teatro di Castellucci si alimenta nell’ostinata traduzione di
sconfinati repertori cartacei e concettuali, verbali e iconici in visioni potenti, elementari, opache,
dove la presunzione dei linguaggi affiora e scompare in un’evidenza sinistra, nella resa, quasi nella
restituzione mitica alla dimensione animale e oggettuale. I progetti della Societas rovesciano lo
scrigno dei miti e delle tragedie, i loci della coscienza condivisa, compilano e sfogliano il bestiario
delle storie universali, adottando corpi alterati e minacciati: anoressiche, malati terminali,
laringectomizzati, attori addestrati alla confidenza con gli animali. Cani, capre, scimmie.
Tra gli ascendenti, si potrebbero evocare gli ultimi racconti di Kafka e quelle figure dell’esibizione
ascetica, disgraziata e paradossale (l’acrobata di Primo dolore, o il digiunatore e Giuseppina la
cantante che danno il titolo ai rispettivi testi), in cui la condanna e la condizione della diversità
richiedono e riscattano l’eroismo e la vergogna dello spettacolo. Ma tra gli ascendenti più prossimi,
e direttamente rivendicati, va ricordata l’opera di un artista visivo, esploratore dello sconfinamento
e artefice di paradossi monumentali, quale è stato Gino De Dominicis, per la compenetrazione di
figura, oggetto e concetto, e per la consapevolezza dei flussi tra operare artistico, incantamento e
mistificazione.
Si incontrano qui sintomi compatibili con le versioni più traumatiche della performance d’artista,
ma questi e altri ingredienti sono immersi nel processo di fusione di un trattamento inusitato delle
storie antiche e comuni, e trasformati in una fantasmagoria organica e sapiente. La lingua adeguata
a tradurre il lavoro della Societas esula dalle specializzazioni dello spettacolo moderno e dai simboli
prevalenti dell’immaginario corrente, perché tocca le prerogative e le intenzioni dei maestri di
verità. In uno degli interventi riportati nel libro, Claudia Castellucci sostiene la prossimità
dell’esperienza artistica, sia pure in una soluzione alternativa, alla stessa dialettica di intimità e
impersonalità, di intimazione e negazione che sigilla l’identità del sacerdote e del militare. Sono
consanguineità remote e nello stesso tempo nascoste nell’anima del Novecento, dissepolte e
rivissute in controluce, che emergono nella diffidenza, nella riluttanza istintiva al teatro stesso e alle
abitudini teatrali, un atteggiamento battezzato in queste pagine «platonico» di ostilità alla
corruzione delle apparenze. Una tensione vitale organizza due istinti in concorrenza. L’impulso
all’ermetismo, nel senso del contatto con altri strati dell’essere. E il movimento di sfida che genera
un teatro che si vuole avulso ma eloquente e impressionante, incline alla comunicazione pre-logica.
Nel fuoco di queste forze contrastanti, l’attore appare come creatura predestinata, lacerata ed
esposta.
Dietro le vicende di uno stile, c’è una dilatazione continua e coerente. Il viaggio della Societas è
partito dal furore metodico di Santa Sofia del 1985, parabola di «teatro khmer» dedicata a Pol-Pot e
proiettata sulla controversia iconoclasta nell’impero bizantino. Negli anni testimoniati da Epopea
della Polvere, ha riaperto il dossier di Bettelheim sull’autismo ribaltandolo sul mito europeo del
recitare e del fingere che è Amleto; con Masoch e l’Orestea ha invaso i retroscena delle servitù
sessuali e il campo del conflitto tragico. In questi spettacoli si impone una qualità dell’azione che è
nello stesso tempo diretta e cifrata, spogliata dai codici e dai trucchi dell’espressività, sospesa e
mimetizzata nell’impaginazione dei simboli. L’evidenza e la trama delle azioni iniziano ai recessi
del corpo-mente, alterando la fisionomia dell’umano per squilibri di energia e di ethos. Nella
reinvenzione dell’Orestea (1995), gli archetipi affiorano in una danza lenta di segni impervi,
associando Carroll e Artaud, testimoni dell’impossibilità del senso. Ogni rappresentazione efficace
sta al limite del rappresentare. Nel caso della Raffaello Sanzio questo limite è una soglia infera,
un’anticamera dell’informe, dove il mostrarsi dell’attore è il dilemma primario, l’orizzonte di

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rischio della solitudine pubblica, delle sue ripulse e delle sue rivalse. Dove la presenza si converte
in figura, accolta e trasposta nella cavità delle apparizioni solenni e perturbanti. Bisogna percorrere
la cronologia che è pubblicata nelle ultime pagine per valutare e ricordare come, oltre che nella
revisione di miti e tragedie, l’attività della Raffaello Sanzio si sia espressa negli anni per eventi
molteplici e complessi, tra cui la Festa plebea organizzata contro il sistema delle sovvenzioni statali
allo spettacolo; e le favole delle Fatiche di Ercole, di Pelle d’Asino, di Buchettino, rinarrate ai
bambini e agli adulti come esercizio sulle strategie del racconto e discesa nei tangibili labirinti
dell’immaginazione.
Leggere riflessi e materiali verbali delle rivelazioni teatrali è per il lettore-spettatore un
avvicinamento alla gestazione mentale del processo creativo. Accenniamo soltanto, per ritornare
alla gamma delle invenzioni sceniche, alla folgorazione ambientale del secondo atto del Giulio
Cesare (1997, ma ancora in repertorio e ripreso in Italia qualche settimana fa), dove l’idillio tra due
anoressiche, che incarnano la vana rivolta e la disfatta dei tirannicidi Bruto e Cassio, si consuma
nell’oscura rovina di una sala cinematografica incendiata che prolunga il buio della platea, e
disintegra l’involucro della rappresentazione nel lutto inerte dello sguardo. In Genesi (1999),
l’abisso delle visioni materializza la processione proteiforme del male, evoca nel laboratorio della
creazione un Adamo contorsionista, un androide acefalo e teorie di organi senza corpo, spalanca in
un bianco presepe infantile il genocidio di Auschwitz, per chiudersi nell’epifania desertica del
sacrificio di Abele.
Lo splendore degli esiti e la vastità delle emanazioni hanno collocato la Societas al centro delle
esperienze radicali della scena contemporanea. Della risonanza internazionale testimoniano il
raggio delle presenze e delle produzioni. Nella vorticosa proliferazione delle compagnie nella
Romagna degli anni Novanta, la memoria dei giovani teatranti ha fissato la posizione di spartiacque
generazionale, in termini di fascinazione e di exemplum operativo, dell’Amleto autistico del 1992.
Per la ricerca sulla parola recitata, valgano, oltre le note di Chiara Guidi in questo libro, i testi di
Claudia Castellucci pubblicati in Uovo di bocca (Bollati Boringhieri, Torino 2000). La Scuola
sperimentale di teatro infantile, attiva dal 1996, è il corollario e il nutrimento, e l’unica trasmissione
attuabile di questa eredità. Non v’è insegnamento, in tale accezione di teatro, se non immerso nel
continente dell’infanzia, nella sua potenza minacciata dall’uniformazione, nell’esaltazione e nel
contagio dell’irrealtà necessaria. L’impressione complessiva di Epopea della polvere, ricavata dalla
lettura e dalle associazioni mnemoniche con le visioni degli spettacoli, è un invito a elevare il
livello del discorso sul teatro, un mandato a ricercarvi ancora, secondo le parole di Romeo
Castellucci, «il luogo dove le cose pensabili siano anche possibili».

Socìetas Raffaello Sanzio , compagnia teatrale.

Nasce a Cesena nel 1981 ad opera di due giovanissime coppie di fratelli, Claudia e Romeo Castellucci, Chiara e Paolo Guidi. La storia della S. R. S. è caratterizzata soprattutto dal percorso di rottura e superamento del linguaggio teatrale tradizionale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore. Il loro teatro, attraverso passaggi graduali, si configura oggi come `teatro dei corpi’. L’ironia con cui hanno accompagnato la sistematica distruzione di ogni valore teatrale colloca la S. R. S. tra i giovani eredi di Jarry, soprattutto per l’anarchica fantasia linguistica e per la consapevolezza della concretezza delle parole. La loro ricerca si spinge fino alla creazione di una nuova utopica lingua universale, chiamata `generalissima’, assunta nell’opera Kaputt Necropolis , rappresentata con successo alla Biennale di Venezia del 1984. È del 1985 Santa Sofia, Teatro Khmer , l’opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, radicalizzata poi successivamente sul piano del linguaggio con I Miserabili nella quale l’Araldo, figura centrale, per tutta la durata della rappresentazione rimane immobile e muta, quale programmatico agire e parlare scenico. Solo il corpo, condizione prima dell’essere attore, spettatore di se stesso è presente sul palcoscenico. Con La bellezza tanto antica la S. si accosta al carattere mitico della fiaba. Da qui un orientamento positivo del teatro non in senso morale, ma come situazione di superamento semantico. A sostegno di questo versante sta l’animale, che a partire da questo momento affiancherà in scena l’attore. La successione di corpi di uomini, donne, animali, di ogni età, dimensione e deformità, sarà quindi la costante del teatro della S. R. S. Il corpo, segno significante più potente del teatro stesso, diviene elemento essenziale per le sue componenti comunicative e di diversità. Una sorta di smascheramento del teatro attraverso l’azzeramento dell’attore, che con il suo essere esclusivamente `corpo’ rende didascalia il linguaggio. Questo percorso sfocia nella realizzazione nel 1992 dell’ Amleto-la veemente esteriorità della morte di un mollusco autistico e nell’ Orestea del 1995 in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da un giovane mongoloide. Con Giulio Cesare del 1997 il teatro diviene ars oratoria, artificio retorico. In questo spettacolo la retorica, grazie alla tecnologia meccanica e chimica, compie un viaggio a ritroso nel discorso, fino alla fonte della parola, della voce e dell’articolazione dei suoni che sono alla sua origine, spiati da una microtelecamera calata nella gola dell’attore e collegata a un grande schermo. Nel succedersi dell’azione con la morte di Cesare, quando Antonio pronuncia la celebre orazione, la carica seduttiva della parola viene cancellata definitivamente. Antonio è infatti un laringectomizzato, le sue parole non vogliono dire più niente, assumono valore di segno come il corpo. Giulio Cesare ha vinto il premio Ubu 1997 quale miglior spettacolo dell’anno. Per settembre ’98 è prevista la preparazione del nuovo progetto teatrale della Genesi .Nel 1988 la S. R. S. ha inaugurato, sotto la direzione di Claudia Castellucci, la Scuola Teatrica della Discesa e le Edizioni Casa del Bello Estremo, che pubblica scritti drammatici filosofici e lirici. Nel 1995 inoltre, proseguendo un suo progetto legato al mondo dell’infanzia, Chiara Guidi ha aperto la Scuola sperimentale di teatro infantile.

Teatro in movimento: la Compagnia degli stracci

Teatro in movimento: la Compagnia degli stracci

La ‘Compagnia degli stracci’.
Quando si pensa al teatro, spesso la prima immagine che ricorre alla mente è costituita da un palcoscenico, un gruppo di attori in scena e le poltrone rosso rubino che confinano e vincolano la presenza e il ruolo dello spettatore.

L’aspetto più evidente di questa immagine è che, nella concezione dell’uomo comune il teatro è strumento artistico che ha un unico fine, quello dell’intrattenimento.

L’esperienza di una compagnia teatrale lombarda è stata in grado di sfatare questo luogo comune, dimostrando che il teatro può diventare un mezzo d’informazione e comunicazione, un vero e proprio terreno di scambio su tematiche politico sociali.

La Compagnia degli Stracci nasce a Desio nel 1996, inizialmente per rispondere alla necessità di aggregare i giovani in un contesto socio-culturale poco fiorente.
In seguito la priorità è diventata quella di conoscere e far conoscere pagine di storia troppo velocemente dimenticate per poi arrivare all’esigenza di denunciare situazioni di disagio sociale, sostenendo e ascoltandone i testimoni.

E’ nata così una riflessione sul tipo di linguaggio da adottare, qualcosa di efficace e che suscitasse rabbia e scuotimento. La scelta è ricaduta sul teatro, una forma di comunicazione che esiste da secoli, ma in questo caso si parla di un teatro vissuto come mobilitazione e sussulto, teatro povero, diretto, di strada.

La Compagnia ha deciso sin dall’inizio di seguire un percorso di formazione teatrale indipendente dalla matrice letteraria, grande importanza è affidata al movimento del corpo, allo studio del gesto e alla maschera biomeccanica. L’azione verbale avviene soltanto in un secondo momento.
“Non ci siamo inventati nulla, non ci siamo inventati un nuovo modo di fare teatro. Grotowski, Stanislavskij, Artaud e il Living Theatre, hanno già fatto tutte queste cose, altri gruppi le hanno riprese e sviluppate. Però, che si sappia, il nostro è l’unico esempio di unione di diversi tipi di scuole teatrali anche differenti tra loro. L’obiettivo è l’unione e la rielaborazione, quindi la creazione di un nuovo modo di fare teatro che noi abbiamo creato ‘degli Stracci’. Noi non abbiamo fatto altro che seguire più tradizioni e tradire rielaborando. Il tradimento è il cercare di svilupparlo maggiormente con l’intento di creare qualcosa di nuovo”.

Il teatro della Compagnia degli Stracci infrange le regole del teatro tradizionale in termini di spazio scenico, rapporto col pubblico e intenti.

Il teatro viene avvertito come un  incontro, un momento in cui è possibile confrontarsi in maniera diretta con il pubblico. Viene dunque abbattuta la barriera spettatore-attore, il pubblico è parte integrante della scena, non esistono posti a sedere ed è possibile muoversi da un punto all’altro dello spazio scenico nel corso dello spettacolo.

Ogni spettacolo del repertorio è nato dall’incontro con alcuni dei protagonisti da fatti storici che hanno suscitato nei membri la volontà di diffondere tramite il mezzo teatro fatti realmente accaduti tra i quali la Shoah, la morte dell’anarchico Pinelli, il pregiudizio psichiatrico, la vicenda vissuta dagli ex operari della Breda di Sesto San Giovanni, i quali sono morti a seguito della continua esposizione a sostanze tossiche in particolar modo l’amianto…

Il teatro degli “Stracci” è un teatro attivo che porta lo spettatore ad una maggiore coscienza della storia.

Fabiana Scamardella

CDST “Compagnia degli Stracci”

CDST  “Compagnia degli Stracci”

La ” Compagnia degli Stracci ” nasce con l’intento, non soltanto artistico, di aggregare le persone (con particolare attenzione alla componente giovanile) nel contesto urbano e sociale, attorno ad un progetto creativo che si fonda sull’espressività e sulla comunicazione teatrale, soprattutto nelle forme del “teatro di strada”.  “La creatività, l’impegno sociale e la ricerca, spesso vissuti come mobilitazione e sussulto, sono strategie di intervento contro il disagio giovanile e sono scelte obbligate per stare insieme in modo alternativo, non commerciale o soprattutto non privato. Uscire, infatti, dalla propria indifferenza e solitudine è obiettivo primario che soggiace all’intero progetto”.

La ricchezza del gruppo, composto da trenta elementi più due tecnici, è la sua eterogeneità:; studenti, insegnanti, operatori professionali del settore, operai, impiegati provenienti da differenti parti del territorio nazionale e diverse esperienze personali magistralmente mescolate a grande professionalità in ambito teatrale. Il nucleo storico della CDST lavora dal 1995, a vario titolo, nel settore delle artiterapie.

Il genere di scuola applicata è una sintesi originale del lavoro del teatro-laboratorio di Grotowski, con il rigore metodologico del processo creativo attorale, e il fenomeno interdisciplinare del Living Theatre, almeno per quanto concerne la spettacolarizzazione. La centralità dell’attore e della sua espressione fisica e il rapporto con lo spettatore, sono momenti di assidua ricerca che la CDST, non senza motivi di novità, approfondisce con il corso di perfezionamento. Tra gli obiettivi del loro training fisico (dalle esperienze di ‘Sblocco Corporeo’ agli esercizi di ‘Riappropriazione’) si ritrovano alcuni tra i più noti passaggi funzionali della riabilitazione vera e propria. Tra questi:

* 1. scaricare le tensioni fisiche e dare mobilità alla colonna vertebrale
* 2. conoscere le proprie possibilità di movimento
* 3. eliminare lentamente le inibizioni motorie
* 4. ampliare i movimenti conosciuti
* 5. giungere alla creazione di gesti e di azioni nuove
* 6. allenarsi a prendere contatto con l’energia fisica, attraverso la fatica

Sul nascere la CDST decise di promuovere un percorso di formazione teatrale autonomo dalla matrice letteraria. La ragione è principalmente educativa e trae spunto dalla considerazione del lavoro spesso incompleto che l’istruzione formale propone in relazione alla produzione teatrale e ad alcune sfere della cultura contemporanea. Gli autori che si leggono nelle scuole italiane sono sempre gli stessi; le letture sono condotte in maniera asettica, prive di contestualizzazione; gli autori sono destoricizzati, mal letti o non letti del tutto. Nella loro esperienza hanno preferito proporre un lungo lavoro di studio sul gesto, sullo sblocco corporeo, sulla maschera, sulla bioenergetica, che sono punti-base per una riflessione più ampia che investe la sfera emozionale e il gioco dei ruoli sociali. È evidente che non si tratta di negare la parola scritta o il segno narrativo. Si tratta di ripercorrere un ambiente saturo di informazioni e di codici linguistici, di comprenderlo e di riqualificarlo. Il necessario ritorno alla parola è il nodo intercomunicazionale e d’incontro tra individui.

La scelta dei temi è sempre frutto di un’ampia azione collettiva. La CDST lavora esclusivamente su temi prossimi alla sensibilità ed ai problemi del nostro tempo. Un ‘teatro politico’ nel senso più ampio del termine è la Funzione-Direzione pedagogica del nostro lavoro. In quest’ottica non è possibile, infatti, pensare ad un percorso di formazione attorale senza che esso si giochi nella proiezione collettiva della comunicazione-rito che la rappresentazione teatrale prevede e determina. “Il teatro-propiziatorio deve, per essere duraturo ed efficace, persino sul piano artistico, ‘risvegliare’ lo spettatore. Lo spettacolo, se non vuole restare una conquista precaria o illusoria, procede dallo shock e giunge alla visione (A. Artaud)”. Lo studio teorico e pratico occupano, insomma, la maggior parte dell’attività della CDST. Ogni singolo allestimento è il risultato di una molteplicità di interessi e di percorsi culturali approfonditi. La ricerca teatrale è pionieristica: c’è un continuo e necessario bisogno di apprendistato, dovuto al fatto di considerare il lavoro ermeneutico sulla realtà come prioritario. Anche la ricerca stilistica e narrativa segue di fatto la necessità di proporre una visione sintetica della realtà e dei suoi drammi che si consumano quotidianamente.

La CDST intende il teatro come una forma, la più originale, della cittadinanza attiva. Non si tratta di aggredire lo spettatore, né di produrre un bagliore particolare di vicende altrettanto particolari, ma di dare un contributo attraverso l’empatia e il possesso del fisico e del gesto, alla riappropriazione dell’impegno sociale. Con Franco Fortini, compianta figura di intellettuale coerente fino alla fine, la CDST seguì un percorso di approfondimento su questi temi, intrattenendosi a lungo con il poeta-saggista, al fine di cogliere le principali urgenze del periodo storico attuale e fu chiaro subito dall’inizio che una nuova sensibilità socio-politica avrebbe dovuto, per essere disincantata e tenace, partire dalla sperimentazione di nuovi linguaggi e nuove forme di analisi sociale. Il teatro, un ‘nuovo teatro’ per l’appunto, poteva servire al caso.

La fruizione dell’Evento-Spettacolo è evidentemente non convenzionale. Lo spazio scenico è quasi sempre uno spazio ampio, privo di posti a sedere fissi o unidirezionali. I punti di osservazione sono tanti quanti le zone di realizzo di ogni singola scena. Ogni spettatore-attore, non potendosi più identificare in una parte precisa e cristallizzata, non deve sentirsi a proprio agio, al ‘proprio posto’; egli è coinvolto in prima persona in ogni scena o sequenza di scena ed è posto in condizione di fruire al meglio dell’esperienza, contribuendovi fattivamente. E’ ovvio che non si tratta – se non in pochi e ‘controllati’ casi – di un coinvolgimento diretto personale. Lo spettatore che decide in entrare nell’articolazione della vicenda, è membro di un gruppo che come tale è chiamato in gioco.

La CDST ha, negli anni, affinato tecniche che gli consentono di chiamare in causa il pubblico tenendo costantemente la situazione sotto controllo. Le reazioni fisiche o psichiche vengono monitorate dagli stessi ‘attori’ che dirigono l’andamento emozionale dello spettacolo. Il pubblico viene avvertito prima dell’inizio dello spettacolo, che dovrà entrare ‘di persona’ nella vicenda narrata e ogni ulteriore drammatizzazione intrapsichica è accompagnata e rielaborata. Ma al pubblico spetta – come sempre – il giudizio sull’esperienza provata: al termine di ogni spettacolo viene allestito un dibattito, nel quale si spiegano i generi e le forme e si razionalizza la vicenda. Queste caratteristiche di costruzione e di conduzione, fanno dell’opera teatrale un work-in-progress, il cui obiettivo di fondo è, appunto, quello di modificarsi nel tempo e nello spazio scenico.

La CDST ha lungo gli anni condotto spettacoli innovativi ad alto impatto emotivo e pedagogico in molteplici località italiane ed in diversi luoghi spaziando dal teatro in senso geografico fino ai più variegati spazi, incluse piazze cittadine, ex-ospedali, aree dimesse, gallerie e quant’altro. 

www.cdst.it

Socìetas Raffaello Sanzio , compagnia teatrale.

Nasce a Cesena nel 1981 ad opera di due giovanissime coppie di fratelli, Claudia e Romeo Castellucci, Chiara e Paolo Guidi. La storia della S. R. S. è caratterizzata soprattutto dal percorso di rottura e superamento del linguaggio teatrale tradizionale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore. Il loro teatro, attraverso passaggi graduali, si configura oggi come `teatro dei corpi’. L’ironia con cui hanno accompagnato la sistematica distruzione di ogni valore teatrale colloca la S. R. S. tra i giovani eredi di Jarry, soprattutto per l’anarchica fantasia linguistica e per la consapevolezza della concretezza delle parole. La loro ricerca si spinge fino alla creazione di una nuova utopica lingua universale, chiamata `generalissima’, assunta nell’opera Kaputt Necropolis , rappresentata con successo alla Biennale di Venezia del 1984. È del 1985 Santa Sofia, Teatro Khmer , l’opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, radicalizzata poi successivamente sul piano del linguaggio con I Miserabili nella quale l’Araldo, figura centrale, per tutta la durata della rappresentazione rimane immobile e muta, quale programmatico agire e parlare scenico. Solo il corpo, condizione prima dell’essere attore, spettatore di se stesso è presente sul palcoscenico. Con La bellezza tanto antica la S. si accosta al carattere mitico della fiaba. Da qui un orientamento positivo del teatro non in senso morale, ma come situazione di superamento semantico. A sostegno di questo versante sta l’animale, che a partire da questo momento affiancherà in scena l’attore. La successione di corpi di uomini, donne, animali, di ogni età, dimensione e deformità, sarà quindi la costante del teatro della S. R. S. Il corpo, segno significante più potente del teatro stesso, diviene elemento essenziale per le sue componenti comunicative e di diversità. Una sorta di smascheramento del teatro attraverso l’azzeramento dell’attore, che con il suo essere esclusivamente `corpo’ rende didascalia il linguaggio. Questo percorso sfocia nella realizzazione nel 1992 dell’ Amleto-la veemente esteriorità della morte di un mollusco autistico e nell’ Orestea del 1995 in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da un giovane mongoloide. Con Giulio Cesare del 1997 il teatro diviene ars oratoria, artificio retorico. In questo spettacolo la retorica, grazie alla tecnologia meccanica e chimica, compie un viaggio a ritroso nel discorso, fino alla fonte della parola, della voce e dell’articolazione dei suoni che sono alla sua origine, spiati da una microtelecamera calata nella gola dell’attore e collegata a un grande schermo. Nel succedersi dell’azione con la morte di Cesare, quando Antonio pronuncia la celebre orazione, la carica seduttiva della parola viene cancellata definitivamente. Antonio è infatti un laringectomizzato, le sue parole non vogliono dire più niente, assumono valore di segno come il corpo. Giulio Cesare ha vinto il premio Ubu 1997 quale miglior spettacolo dell’anno. Per settembre ’98 è prevista la preparazione del nuovo progetto teatrale della Genesi .Nel 1988 la S. R. S. ha inaugurato, sotto la direzione di Claudia Castellucci, la Scuola Teatrica della Discesa e le Edizioni Casa del Bello Estremo, che pubblica scritti drammatici filosofici e lirici. Nel 1995 inoltre, proseguendo un suo progetto legato al mondo dell’infanzia, Chiara Guidi ha aperto la Scuola sperimentale di teatro infantile.