L’APOCALISSE TEATRALE DELLA SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO

&


Raimondo Guarino
[
recensione, inedita, al libro “Epopea della Polvere. Il Teatro della Societas Raffaello Sanzio 1992-
1999. Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi”, di Romeo Castellucci, Chiara Guidi,
Claudia Castellucci, pp. 328, Euro 20,40, Ubulibri, Milano 2001
]
La qualità e la riconoscibilità di un’esperienza teatrale risiedono oggi nella rivendicazione della
differenza culturale. Ma esistono modi di affermare nel teatro la differenza culturale che più degli
altri si concretizzano in termini evidenti ed eloquenti di presenza e di efficacia. Nel varco tra
opposizione irriducibile e vocazione inesorabile si iscrive il mondo parallelo della Societas
Raffaello Sanzio. Epopea della polvere raccoglie le scritture sceniche di Romeo Castellucci, regista
della compagnia, per gli spettacoli della Societas degli anni Novanta, oltre a numerosi interventi e
testimonianze dello stesso regista e di Claudia Castellucci e Chiara Guidi, cofondatrici e
compartecipi dell’identità e dell’attività della formazione cesenate.
Il libro invita il lettore a percorrere la fase recente di una vicenda ventennale. Alle origini, nei primi
anni Ottanta, c’era un gruppo di adolescenti che, auspice Giuseppe Bartolucci, infilava nelle serate
del festival di Santarcangelo e nel circuito dell’avanguardia postmoderna spericolate parabole di
guerra tra i mondi e anatemi sulla civiltà occidentale. Quelle apparizioni di eccentrica aggressività
infrangevano i limiti sempre incombenti del senso comune teatrale, riformulando fermenti e
tensioni di attivismo che nel decennio precedente avevano cercato altri approdi e altre certezze.
Tutta la storia della Societas, di cui il libro ricostruisce il segmento dal 1992 al 1999, non è soltanto
una sequenza di spettacoli o l’intermittenza di una cifra operativa e stilistica, ma letteralmente
l’epopea, il racconto di gesta che hanno prodotto un caso e una leggenda, un’ipotesi culturale
inconfondibile e una pratica fervida, avulsa e audace della scena.
Tanta audacia si deve alla volontà di ritrovare il senso del teatro ponendosi fuori dai suoi
automatismi, rifiutando l’oppio del mestiere fine a se stesso e insediando nel teatro il fronte di
resistenza contro i meccanismi della comunicazione contemporanea. La Societas è una delle
formazioni di fine Novecento che si sono espresse ridefinendo i fattori della tradizione e i valori
della composizione. Nel lavoro del gruppo cesenate la centralità del corpo dell’attore trascende,
quando non le ripudia, l’acquisizione e l’esibizione della padronanza tecnica. La risorsa decisiva è il
confronto con il disagio del mostrarsi che sta alle radici del potere della presenza scenica. Nelle
massime conclusive di un testo del 1997, Romeo Castellucci dichiara la sua predilezione per
l’Ottocento e per il circo. Queste due indicazioni vanno considerate e sviluppate sia per l’apertura,
ottocentesca e circense, alle varie tipologie dello spettacolo, sia per il movimento di regressione
verso altre civiltà e altre etologie e biologie che nel linguaggio e nella prassi della Societas rianima
e riempie la distanza archeologica della rappresentazione vivente. La stranezza del teatro si ispira
qui a fonti che trascendono le convenzioni e le tradizioni artistiche e che nel contempo le
necessitano, proiettandole nell’ostilità connaturata, nello squilibrio di sapere e sentire essenziale al
rapporto tra teatranti e spettatori.
Epopea della polvere, più che un documento, è una risonanza, una vibrazione che afferra nella
scrittura postulati e moventi dell’atto di creazione. Scorie marginali e secondarie, scrivono gli
Autori nella premessa. Comunque le parole che si leggono sono la traccia di una direzione
fondamentale nel lavoro di Romeo e Claudia Castellucci, di Chiara Guidi e dei loro attori e
collaboratori: la rivendicazione della forza simbolica del teatro, realizzata per segni e riflessi di
apocalisse, per visioni che alimentano lo sgomento, per enigmi che pongono questioni di identità
collettiva, senza mai eludere e senza mai esaurire le domande sul senso. Le creazioni della Societas
sono strutturalmente apocalittiche, cioè costruite sull’associazione di apparizioni bestiali e mitico-

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teofaniche, sulla meraviglia fitta di implicazioni mentali ottenuta con macchine e congegni
pertinenti all’officina dell’illusione teatrale. Alla base dell’ispirazione taumaturgica si riconosce una
pratica dell’artigianato scenico elevato a metodo di illuminazione. Una trama di azioni meditate e
concrete sgomina i ritmi e le consuetudini dell’immagine virtuale e materializza etimologie e
metafore pietrificate (il canto del capro, l’arte scimmia della natura), saggiando e riscoprendo le
parentele secolari che legano alla memoria del teatro sistemi di espressione come la retorica (un

gt;

motivo centrale nella riscrittura del Giulio Cesare di Shakespeare) e l’emblematica. Il senso
letteralmente apocalittico, rivelatore del teatro di Castellucci si alimenta nell’ostinata traduzione di
sconfinati repertori cartacei e concettuali, verbali e iconici in visioni potenti, elementari, opache,
dove la presunzione dei linguaggi affiora e scompare in un’evidenza sinistra, nella resa, quasi nella
restituzione mitica alla dimensione animale e oggettuale. I progetti della Societas rovesciano lo
scrigno dei miti e delle tragedie, i loci della coscienza condivisa, compilano e sfogliano il bestiario
delle storie universali, adottando corpi alterati e minacciati: anoressiche, malati terminali,
laringectomizzati, attori addestrati alla confidenza con gli animali. Cani, capre, scimmie.
Tra gli ascendenti, si potrebbero evocare gli ultimi racconti di Kafka e quelle figure dell’esibizione
ascetica, disgraziata e paradossale (l’acrobata di Primo dolore, o il digiunatore e Giuseppina la
cantante che danno il titolo ai rispettivi testi), in cui la condanna e la condizione della diversità
richiedono e riscattano l’eroismo e la vergogna dello spettacolo. Ma tra gli ascendenti più prossimi,
e direttamente rivendicati, va ricordata l’opera di un artista visivo, esploratore dello sconfinamento
e artefice di paradossi monumentali, quale è stato Gino De Dominicis, per la compenetrazione di
figura, oggetto e concetto, e per la consapevolezza dei flussi tra operare artistico, incantamento e
mistificazione.
Si incontrano qui sintomi compatibili con le versioni più traumatiche della performance d’artista,
ma questi e altri ingredienti sono immersi nel processo di fusione di un trattamento inusitato delle
storie antiche e comuni, e trasformati in una fantasmagoria organica e sapiente. La lingua adeguata
a tradurre il lavoro della Societas esula dalle specializzazioni dello spettacolo moderno e dai simboli
prevalenti dell’immaginario corrente, perché tocca le prerogative e le intenzioni dei maestri di
verità. In uno degli interventi riportati nel libro, Claudia Castellucci sostiene la prossimità
dell’esperienza artistica, sia pure in una soluzione alternativa, alla stessa dialettica di intimità e
impersonalità, di intimazione e negazione che sigilla l’identità del sacerdote e del militare. Sono
consanguineità remote e nello stesso tempo nascoste nell’anima del Novecento, dissepolte e
rivissute in controluce, che emergono nella diffidenza, nella riluttanza istintiva al teatro stesso e alle
abitudini teatrali, un atteggiamento battezzato in queste pagine «platonico» di ostilità alla
corruzione delle apparenze. Una tensione vitale organizza due istinti in concorrenza. L’impulso
all’ermetismo, nel senso del contatto con altri strati dell’essere. E il movimento di sfida che genera
un teatro che si vuole avulso ma eloquente e impressionante, incline alla comunicazione pre-logica.
Nel fuoco di queste forze contrastanti, l’attore appare come creatura predestinata, lacerata ed
esposta.
Dietro le vicende di uno stile, c’è una dilatazione continua e coerente. Il viaggio della Societas è
partito dal furore metodico di Santa Sofia del 1985, parabola di «teatro khmer» dedicata a Pol-Pot e
proiettata sulla controversia iconoclasta nell’impero bizantino. Negli anni testimoniati da Epopea
della Polvere, ha riaperto il dossier di Bettelheim sull’autismo ribaltandolo sul mito europeo del
recitare e del fingere che è Amleto; con Masoch e l’Orestea ha invaso i retroscena delle servitù
sessuali e il campo del conflitto tragico. In questi spettacoli si impone una qualità dell’azione che è
nello stesso tempo diretta e cifrata, spogliata dai codici e dai trucchi dell’espressività, sospesa e
mimetizzata nell’impaginazione dei simboli. L’evidenza e la trama delle azioni iniziano ai recessi
del corpo-mente, alterando la fisionomia dell’umano per squilibri di energia e di ethos. Nella
reinvenzione dell’Orestea (1995), gli archetipi affiorano in una danza lenta di segni impervi,
associando Carroll e Artaud, testimoni dell’impossibilità del senso. Ogni rappresentazione efficace
sta al limite del rappresentare. Nel caso della Raffaello Sanzio questo limite è una soglia infera,
un’anticamera dell’informe, dove il mostrarsi dell’attore è il dilemma primario, l’orizzonte di

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rischio della solitudine pubblica, delle sue ripulse e delle sue rivalse. Dove la presenza si converte
in figura, accolta e trasposta nella cavità delle apparizioni solenni e perturbanti. Bisogna percorrere
la cronologia che è pubblicata nelle ultime pagine per valutare e ricordare come, oltre che nella
revisione di miti e tragedie, l’attività della Raffaello Sanzio si sia espressa negli anni per eventi
molteplici e complessi, tra cui la Festa plebea organizzata contro il sistema delle sovvenzioni statali
allo spettacolo; e le favole delle Fatiche di Ercole, di Pelle d’Asino, di Buchettino, rinarrate ai
bambini e agli adulti come esercizio sulle strategie del racconto e discesa nei tangibili labirinti
dell’immaginazione.
Leggere riflessi e materiali verbali delle rivelazioni teatrali è per il lettore-spettatore un
avvicinamento alla gestazione mentale del processo creativo. Accenniamo soltanto, per ritornare
alla gamma delle invenzioni sceniche, alla folgorazione ambientale del secondo atto del Giulio
Cesare (1997, ma ancora in repertorio e ripreso in Italia qualche settimana fa), dove l’idillio tra due
anoressiche, che incarnano la vana rivolta e la disfatta dei tirannicidi Bruto e Cassio, si consuma
nell’oscura rovina di una sala cinematografica incendiata che prolunga il buio della platea, e
disintegra l’involucro della rappresentazione nel lutto inerte dello sguardo. In Genesi (1999),
l’abisso delle visioni materializza la processione proteiforme del male, evoca nel laboratorio della
creazione un Adamo contorsionista, un androide acefalo e teorie di organi senza corpo, spalanca in
un bianco presepe infantile il genocidio di Auschwitz, per chiudersi nell’epifania desertica del
sacrificio di Abele.
Lo splendore degli esiti e la vastità delle emanazioni hanno collocato la Societas al centro delle
esperienze radicali della scena contemporanea. Della risonanza internazionale testimoniano il
raggio delle presenze e delle produzioni. Nella vorticosa proliferazione delle compagnie nella
Romagna degli anni Novanta, la memoria dei giovani teatranti ha fissato la posizione di spartiacque
generazionale, in termini di fascinazione e di exemplum operativo, dell’Amleto autistico del 1992.
Per la ricerca sulla parola recitata, valgano, oltre le note di Chiara Guidi in questo libro, i testi di
Claudia Castellucci pubblicati in Uovo di bocca (Bollati Boringhieri, Torino 2000). La Scuola
sperimentale di teatro infantile, attiva dal 1996, è il corollario e il nutrimento, e l’unica trasmissione
attuabile di questa eredità. Non v’è insegnamento, in tale accezione di teatro, se non immerso nel
continente dell’infanzia, nella sua potenza minacciata dall’uniformazione, nell’esaltazione e nel
contagio dell’irrealtà necessaria. L’impressione complessiva di Epopea della polvere, ricavata dalla
lettura e dalle associazioni mnemoniche con le visioni degli spettacoli, è un invito a elevare il
livello del discorso sul teatro, un mandato a ricercarvi ancora, secondo le parole di Romeo
Castellucci, «il luogo dove le cose pensabili siano anche possibili».

Socìetas Raffaello Sanzio , compagnia teatrale.

Nasce a Cesena nel 1981 ad opera di due giovanissime coppie di fratelli, Claudia e Romeo Castellucci, Chiara e Paolo Guidi. La storia della S. R. S. è caratterizzata soprattutto dal percorso di rottura e superamento del linguaggio teatrale tradizionale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore. Il loro teatro, attraverso passaggi graduali, si configura oggi come `teatro dei corpi’. L’ironia con cui hanno accompagnato la sistematica distruzione di ogni valore teatrale colloca la S. R. S. tra i giovani eredi di Jarry, soprattutto per l’anarchica fantasia linguistica e per la consapevolezza della concretezza delle parole. La loro ricerca si spinge fino alla creazione di una nuova utopica lingua universale, chiamata `generalissima’, assunta nell’opera Kaputt Necropolis , rappresentata con successo alla Biennale di Venezia del 1984. È del 1985 Santa Sofia, Teatro Khmer , l’opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, radicalizzata poi successivamente sul piano del linguaggio con I Miserabili nella quale l’Araldo, figura centrale, per tutta la durata della rappresentazione rimane immobile e muta, quale programmatico agire e parlare scenico. Solo il corpo, condizione prima dell’essere attore, spettatore di se stesso è presente sul palcoscenico. Con La bellezza tanto antica la S. si accosta al carattere mitico della fiaba. Da qui un orientamento positivo del teatro non in senso morale, ma come situazione di superamento semantico. A sostegno di questo versante sta l’animale, che a partire da questo momento affiancherà in scena l’attore. La successione di corpi di uomini, donne, animali, di ogni età, dimensione e deformità, sarà quindi la costante del teatro della S. R. S. Il corpo, segno significante più potente del teatro stesso, diviene elemento essenziale per le sue componenti comunicative e di diversità. Una sorta di smascheramento del teatro attraverso l’azzeramento dell’attore, che con il suo essere esclusivamente `corpo’ rende didascalia il linguaggio. Questo percorso sfocia nella realizzazione nel 1992 dell’ Amleto-la veemente esteriorità della morte di un mollusco autistico e nell’ Orestea del 1995 in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da un giovane mongoloide. Con Giulio Cesare del 1997 il teatro diviene ars oratoria, artificio retorico. In questo spettacolo la retorica, grazie alla tecnologia meccanica e chimica, compie un viaggio a ritroso nel discorso, fino alla fonte della parola, della voce e dell’articolazione dei suoni che sono alla sua origine, spiati da una microtelecamera calata nella gola dell’attore e collegata a un grande schermo. Nel succedersi dell’azione con la morte di Cesare, quando Antonio pronuncia la celebre orazione, la carica seduttiva della parola viene cancellata definitivamente. Antonio è infatti un laringectomizzato, le sue parole non vogliono dire più niente, assumono valore di segno come il corpo. Giulio Cesare ha vinto il premio Ubu 1997 quale miglior spettacolo dell’anno. Per settembre ’98 è prevista la preparazione del nuovo progetto teatrale della Genesi .Nel 1988 la S. R. S. ha inaugurato, sotto la direzione di Claudia Castellucci, la Scuola Teatrica della Discesa e le Edizioni Casa del Bello Estremo, che pubblica scritti drammatici filosofici e lirici. Nel 1995 inoltre, proseguendo un suo progetto legato al mondo dell’infanzia, Chiara Guidi ha aperto la Scuola sperimentale di teatro infantile.

Socìetas Raffaello Sanzio , compagnia teatrale.

Nasce a Cesena nel 1981 ad opera di due giovanissime coppie di fratelli, Claudia e Romeo Castellucci, Chiara e Paolo Guidi. La storia della S. R. S. è caratterizzata soprattutto dal percorso di rottura e superamento del linguaggio teatrale tradizionale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore. Il loro teatro, attraverso passaggi graduali, si configura oggi come `teatro dei corpi’. L’ironia con cui hanno accompagnato la sistematica distruzione di ogni valore teatrale colloca la S. R. S. tra i giovani eredi di Jarry, soprattutto per l’anarchica fantasia linguistica e per la consapevolezza della concretezza delle parole. La loro ricerca si spinge fino alla creazione di una nuova utopica lingua universale, chiamata `generalissima’, assunta nell’opera Kaputt Necropolis , rappresentata con successo alla Biennale di Venezia del 1984. È del 1985 Santa Sofia, Teatro Khmer , l’opera che ha segnato la dichiarazione di guerra alle immagini, radicalizzata poi successivamente sul piano del linguaggio con I Miserabili nella quale l’Araldo, figura centrale, per tutta la durata della rappresentazione rimane immobile e muta, quale programmatico agire e parlare scenico. Solo il corpo, condizione prima dell’essere attore, spettatore di se stesso è presente sul palcoscenico. Con La bellezza tanto antica la S. si accosta al carattere mitico della fiaba. Da qui un orientamento positivo del teatro non in senso morale, ma come situazione di superamento semantico. A sostegno di questo versante sta l’animale, che a partire da questo momento affiancherà in scena l’attore. La successione di corpi di uomini, donne, animali, di ogni età, dimensione e deformità, sarà quindi la costante del teatro della S. R. S. Il corpo, segno significante più potente del teatro stesso, diviene elemento essenziale per le sue componenti comunicative e di diversità. Una sorta di smascheramento del teatro attraverso l’azzeramento dell’attore, che con il suo essere esclusivamente `corpo’ rende didascalia il linguaggio. Questo percorso sfocia nella realizzazione nel 1992 dell’ Amleto-la veemente esteriorità della morte di un mollusco autistico e nell’ Orestea del 1995 in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da un giovane mongoloide. Con Giulio Cesare del 1997 il teatro diviene ars oratoria, artificio retorico. In questo spettacolo la retorica, grazie alla tecnologia meccanica e chimica, compie un viaggio a ritroso nel discorso, fino alla fonte della parola, della voce e dell’articolazione dei suoni che sono alla sua origine, spiati da una microtelecamera calata nella gola dell’attore e collegata a un grande schermo. Nel succedersi dell’azione con la morte di Cesare, quando Antonio pronuncia la celebre orazione, la carica seduttiva della parola viene cancellata definitivamente. Antonio è infatti un laringectomizzato, le sue parole non vogliono dire più niente, assumono valore di segno come il corpo. Giulio Cesare ha vinto il premio Ubu 1997 quale miglior spettacolo dell’anno. Per settembre ’98 è prevista la preparazione del nuovo progetto teatrale della Genesi .Nel 1988 la S. R. S. ha inaugurato, sotto la direzione di Claudia Castellucci, la Scuola Teatrica della Discesa e le Edizioni Casa del Bello Estremo, che pubblica scritti drammatici filosofici e lirici. Nel 1995 inoltre, proseguendo un suo progetto legato al mondo dell’infanzia, Chiara Guidi ha aperto la Scuola sperimentale di teatro infantile.