“Sfiorando il muro” per ricordare i danni della violenza proletaria di Stenio Solinas

Venezia – Ai protagonisti della surreale polemica di fine estate, occupati l’un l’altro a darsi, da sinistra, del «fascista» per stigmatizzarne l’indole violenta e antidemocratica, suggeriamo di andarsi a vedere Sfiorando il muro di Silvia Giralucci, presentato ieri fuori concorso al Festival.
 
La regista aveva tre anni quando, nel 1974, le Brigate rosse le ammazzarono il padre, Graziano, agente di commercio e militante missino. Lo freddarono nella sede del Movimento sociale. Spararono a lui e al custode, Giovanni Mazzola, il secondo morto di un’«esecuzione politica» in seguito rivendicata, ma derubricata a «incidente di percorso». Fra il ’74 e il ’77 nella città ci furono circa 500 attentati, Autonomia Operaia fece da collante fra contestazione e terrorismo, si sprangava la gente con la stessa facilità con cui ci si cambia camicia. Dapprima «sedicenti», poi «compagni che sbagliano», poi «oggettivamente controrivoluzionarie», alle Bierre così come agli altri gruppuscoli extraparlamentari di sinistra venne concesso una sorta di salvacondotto della morale ideologica: la loro era una violenza sana, dalla parte dei lavoratori e dunque proletaria: il male assoluto stava dall’altra parte, così come la vera violenza da condannare: il fascismo e quella dei fascisti. Anche per questo, come recitava allegramente uno slogan del tempo, «uccidere un fascista non è un reato».
Ha fatto più danni la «lingua di legno» del comunismo di quanto non si sia ancora disposti ad ammettere. Perfino ora si preferisce non sfogliare «l’album di famiglia» della violenza che ne ha contrassegnato la storia e pasticciare con la dialettica per cui l’olio di ricino, lo squadrismo e il manganello appartengono al campo avverso. Come se questo bastasse a dimenticare che i processi-farsa, le «purghe», le esecuzioni con un colpo alla nuca, i gulag ce li avevano in casa propria. Nel lager nazista di Buchenwald dov’è rinchiuso, il giovane Jorge Semprún osserverà stupito e ammirato come i prigionieri russi riuscissero ad adattarsi e a sopravvivere al meccanismo tipico di un universo concentrazionario. Solo più tardi si renderà conto che gli era naturale, era lo stesso meccanismo burocratico-dispotico-repressivo che prima Lenin e poi Stalin avevano imposto al Paese. Membro del Partito comunista spagnolo in esilio, Semprún romperà con i vecchi compagni di lotta su questo, l’illegalità violenta e connaturata di un sistema politico e ideologico. Venne trattato da rinnegato.
Sfiorando il muro non è un film apologetico e si capisce che Silvia Giralucci è lontana mille miglia dalle idee che al padre costarono la vita. Stefania Paternò, un’amica di Graziano Giralucci, anche lei militante missina in quegli anni di piombo, dice in proposito cose sensate: una «guerra civile» non dichiarata, ma strisciante fra bande giovanili opposte, una sorta di insanguinati «ragazzi della via Paal» alle prese con un gioco crudele più grande di loro. La sua consapevolezza critica rende semmai più sinistro il reducismo di Toni Negri e di quelli dell’Autonomia Operaia trent’anni dopo. Nel film, le riprese della celebrazione dei fatti del 7 aprile 1979 in una sala comunale, con il professor Negri che firma autografi e stringe le mani dei suoi sostenitori, e che equipara la violenza di allora a «quattro schiaffi a un professore» rimanda a quei capolavori della «lingua di legno» ricordata prima: c’è sempre una spiegazione, una contestualizzazione, un a monte e una misura in cui, un ma anche e un ma non è questo il punto che lava ogni responsabilità, assolve da ogni colpa. È lo stesso meccanismo per cui, crollato il Muro di Berlino sulla testa di chi l’aveva eretto, dall’oggi al domani i comunisti hanno mutato nome e sbuffano con insofferenza se qualcuno gli ricorda che cos’erano prima. Sono cambiati, dicono, e le tante, successive sigle della loro formazione politica sono lì a dimostrarlo. Hanno ragione, naturalmente, ma immutata è rimasta la struttura mentale, quel combinato disposto di retorica e malafede politica, di bis-pensiero e di neo lingua, per dirla con George Orwell, che li rende catafratti al cambiamento. Diversi ma eguali, insomma. I miracoli della dialettica marxista.