Guerra civile in Italia – Primavera di sangue

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Per qualche mese, nel 1945, il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia) ebbe mano libera nell’Italia settentrionale, e fu una carneficina. Non solo le formazioni partigiane si battevano fra loro, ma saccheggiavano liberamente e massacravano chiunque fosse sospettato di essere fascista. Le pattuglie militari alleate, e persino quelle miste che includevano unità tedesche, poterono fare ben poco per ristabilire l’ordine fino a quando non si placò la sete di sangue. Oggi le autorità italiane ammettono che i morti furono ufficialmente 17.322, ma si calcola che la cifra reale oscilli intorno alle 100.000 persone fra uomini, donne e bambini. […] In molti casi furono sterminate intere famiglie, compresi i bambini più piccoli; le case furono saccheggiate e completamente depredate inclusi mobili e indumenti, perché non restasse la minima traccia […] Esponenti di centro e di destra ritengono che la maggior parte delle atrocità sia stata commessa dai comunisti, che agivano per conto di Mosca. Recenti testimonianze confermano tale tesi. (da ‘La guerra inutile’, pag.15)
Durante la mattina erano scomparsi un cuciniere e quattro legionari del presidio di Mazzo. […] Ma nelle prime ore del pomeriggio erano stati trovati nella cantina di una casa di Sernio: massacrati a colpi di pugnale, con gli occhi strappati e gli organi genitali in bocca. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.35)
Tedeschi, allora, insorse gridando che io ragionavo così perché non avevo i miei cari in quel dannato paese; che i partigiani erano capaci di catturarli come ostaggi e farli camminare davanti a loro durante l’attacco. Casi del genere, sostenne, si erano già verificati. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.40)
Nemmeno io pensavo che gli potessero fare del male. Era un brav’uomo, me l’avevano detto tutti che si era iscritto al Fascio repubblicano mosso solo da un amore infinito per la sua Patria. Invece, quando lo salutai, non gli restavano nemmeno due giorni di vita. Nel pomeriggio del 29 aprile, infatti, dopo le forze fasciste a Tirano, alcuni partigiani lo prelevarono da casa sotto gli occhi della moglie e dei figli. Poi lo costrinsero a correre davanti a loro per le vie della cittadina, sparandogli tra le gambe. Alla fine lo gettarono contro un muro e l’ammazzarono come un cane tirandogli addosso una scarica di bombe a mano. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.66)
E poi la notte. Ci stiparono in una settantina dentro un aula. Con noi c’erano delle ausiliarie. I partigiani continuarono ad entrare per ore e ore, ubriachi, pazzi di furore. Ci puntavano i mitra contro lo stomaco: ‘Tutti gli uomini contro il muro. Guardate, adesso, che cosa facciamo alle vostre ausiliarie. Venite qui, sgualdrine; venite qui luride mignotte’. Ho sempre cercato di dimenticare quello che vidi quella notte. Ma non ci sono mai riuscito. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.76)
Novemila metri. Ogni metro un insulto. Ogni metro una valanga di mazzate su di noi. Toccarono a tutti. Io, per quanto possa sembrare incredibile, riuscii a schivarle. Per un motivo molto semplice. Mi ero accorto che gli occhi di tutti quei forsennati si posavano sempre sul pistolone da carabiniere che mi ero sistemato alla cintura. Dopo qualche centinaia di metri, allora, aprii la custodia dell’arma e continuai a marciare tenendo la destra sul calcio della pistola. Non ci fu nessuno che osasse più venirmi addosso. Vigliacchi fino all’inverosimile, avevano ancora paura che potessi sparare. […] Vidi il capitano Martino Cazzola cadere a terra con la testa fracassata. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.77-78)
Uno di noi domandò: ‘E che cos’è il tribunale del popolo?’. Io lo sapevo bene, che cos’era, ma non volli dirlo. Ne avevo sentito parlare durante le mie missioni oltre le linee, nei paesi già liberati. Lo componevano, di solito, i più fanatici tra i capi partigiani comunisti. La procedura la inventavano lì per lì. L’unica pena prevista era la pena di morte. E la sentenza veniva eseguita subito: al massimo, entro le ventiquattro ore successive. […] Allora non riuscii più a tacere: ‘Non fatevi illusioni’, dissi ‘quei tribunali lì giudicano esclusivamente sotto il profilo politico. A loro basta provare che l’imputato é un fascista. E lo mandano al muro. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.85)
Toccò al capitano Cattaneo, anche lui, come Marchetti, della 3 Legione confinaria. Lo condannarono a morte la sera del 1 maggio; lo fucilarono la mattina dopo. Poi le esecuzioni si infittirono e fu il massacro. Di quelle ore, di quei giorni, dodici complessivamente, durante i quali tutti noi vivemmo nell’attesa della morte, ho conservato dei ricordi a volte confusi, a volte nitidissimi. I ricordi di un incubo, comunque, che ancora oggi, a tanti anni di distanza, non sono riuscito a dissipare del tutto. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.86)
Era ormai evidente che i patti di resa non sarebbero stati rispettati e che i capi del CLN erano complici nelle uccisioni in corso dovunque. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.87)
Il tribunale del popolo era composto da una decina di capi banda, quasi tutti comunisti. I giudici sedevano sul palcoscenico del teatrino della ex Casa del Balilla. Il pubblico, formato in maggioranza di partigiani, si assiepava nello spazio riservato, normalmente, agli spettatori. Il processo era stato rapidissimo. Un capo partigiano aveva pronunciato la requisitoria. Marchetti era imputato di essere fascista, di aver prestato servizio nella Confinaria, di aver partecipato a rastrellamenti e di essere un torturatore di patrioti. Marchetti si era difeso con estremo coraggio. Aveva confermato la sua fede fascista e negato di avere mai torturato nessuno: ‘Portatemi qui questi patrioti torturati’, aveva gridato ‘li voglio vedere in faccia’. […] Poi, quel tale che fungeva da presidente si era rivolto al pubblico e aveva gridato: ‘Lo volete vivo o lo volete morto?’. ‘Morto’: era stata la risposta. ‘Il criminale di guerra capitano Marchetti’, aveva allora sentenziato il tribunale ‘é condannato a morte. L’esecuzione avverrà domattina’. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.87-88)
Quel pomeriggio del 1 maggio i partigiani entrarono a frotte nel carcere. Capi e gregari. Ci guardavano come si guardano solitamente le belve in gabbia. Ghignavano felici. Per tanti mesi avevano dovuto battere i tacchi davanti a noi. Ora, finalmente, ci avevano in pugno. Potevano farci quello che volevano. Per godersi meglio lo spettacolo avevano ordinato agli agenti di custodia di tenere spalancate le porte. […] E si vendicavano. A me, che ero giunto in Valtellina solo il 20 aprile, uno urlò che mi riconosceva, che mi aveva notato due mesi prima, in un paese che ora non ricordo, mentre giravo mostrando a tutti un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani. Giuro che non sto inventando una sola parola: disse proprio un barattolo pieno di occhi sinistri di partigiani, strappati, naturalmente, da me. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.89-90)
Toccò invece al capitano Cattaneo. Accusarono anche lui di torture, sevizie, massacri. Tutto inventato di sana pianta. Rifiutò di difendersi. Quando il tribunale emise il verdetto di morte, gridò con quanto fiato aveva in gola: ‘Vigliacchi, viva l’Italia’. Lo fucilarono la mattina dopo. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.90)
Si trovavano tutti d’accordo, in quei giorni, comunisti, socialisti, democristiani, e il risultato fu che circa cinquecento dei nostri pagarono con la vita, tra il 1 e il 13 maggio, la loro fedeltà a Mussolini e all’Italia. La mia testimonianza diretta, infatti, riguarda solo ciò che vidi accadere nel carcere di Sondrio. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.93)
‘Ma di cosa ti hanno accusato ?’, trovò la forza di domandare Martino Cazzola. Paganella scrollò le spalle: ‘Di niente’, rispose con un sorriso ‘mi hanno incolpato di essere un fascista. Poi mi hanno mostrato una lettera con la quale, mesi or sono, avevo risposto negativamente a uno di loro che mi invitava a raggiungere i partigiani in montagna. Hanno concluso che sono un criminale e un farabutto. Amen’. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.94)
I nostri tre camerati, infatti, erano stati condannati a morte da un tribunale del popolo, ma l’ordine di esecuzione era stato sospeso perché si attendeva una risposta alle domande di grazia inoltrate al comando generale delle formazioni partigiane a Milano. Ciononostante li avevano ugualmente assassinati. Era fin troppo chiaro, quindi, che nulla e nessuno potevano impedire alle squadre degli assassini rossi, appositamente organizzate dal PCI per seminare quel terrore che ancora oggi permane in tante località dell’Italia del Nord, di agire liberamente. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.97)
Gli otto, nessuno dei quali era stato condannato dal tribunale del popolo, vennero prelevati con una scusa qualsiasi e trasportati ad Ardenno. Lì furono mitragliati dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Ma la ferocia disumana degli assassini si manifestò in quella occasione con un episodio veramente agghiacciante. I partigiani infatti si erano presentati alla ex Casa del Fascio con un elenco che comprendeva otto vittime designate: sette riuscirono a rintracciarle subito. L’ottava era irreperibile. Tra l’altro non si é mai saputo di chi si trattasse. Allora, per fare il numero, i giustizieri misero le mani sul primo che passò loro accanto, il tenente Enzo Barbini, un pistoiese, e lo ammazzarono insieme agli altri. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.98)
Martino Cazzola, il capitano valtellinese delle brigate nere cui i partigiani avevano rotto la testa durante la marcia da Ponte a Sondrio e che divideva la cella con noi, ricevette la citazione a comparire quella sera davanti al tribunale del popolo. […] Avere in tasca la citazione per comparire davanti al tribunale del popolo, significava avere in tasca il passaporto per l’aldilà. […] Martino Cazzola tornò dopo due ore. Sembrava impazzito. L’avevano assolto. Proprio così: assolto. Ce lo ripeté, incredulo, felice. Ci disse che alcuni partigiani del suo paese l’avevano difeso, che nessuno aveva potuto accusarlo di nulla. […] La mattina seguente lo vennero a prendere poco prima dell’ora di aria. […] Lo ammazzarono tre ore dopo. Lo misero insieme ad altri quattordici fascisti prelevati dalla ex Casa del Fascio. […] Arrivati a metà strada, però, furono obbligati a scendere. Dovettero scavarsi la fossa. Poi dovettero ammucchiarsi dentro. Vorrei non doverlo raccontare: i partigiani li mitragliarono alle gambe e, mentre quegli sventurati urlavano implorando il colpo di grazia, li irrorarono con decine di litri di benzina. Li bruciarono vivi. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.102-104)
Ogni fascista era un criminale. Anzi, il termine fascista era ormai considerato un autentico insulto, un oltraggio. Le descrizioni che si facevano di noi erano semplicemente orripilanti. Avevamo tutti lo sguardo bieco, l’espressione dura e cinica, le nostre pupille erano fosche. Nella migliore e nella più benevola delle interpretazioni venivamo considerati dei poveri dementi traviati. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.117)
Le Corti d’Assise straordinarie, istituite con un decreto che portava la firma del Luogotenente generale del Regno, il principe Umberto, contemplavano una tale serie di reati per cui, a pensarci bene, tre quarti del popolo italiano avrebbe dovuto finire in galera, a cominciare da Umberto. Anche l’essere stati figli della Lupa poteva essere considerato un reato: la legge, infatti, era retroattiva. Puniva cioè dei fatti e delle azioni che, quando si erano verificati, fruttavano elogi, decorazioni e promozioni. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.118)
Se i massacri e gli eccidi erano infatti a mano a mano diminuiti fino a cessare del tutto, almeno in Valtellina, avevano però cominciato a funzionare le Corti d’Assise straordinarie. E ogni giorno fioccavano le condanne a morte, gli ergastoli, i trenta, i venti anni di galera. I processi si svolgevano, a Sondrio, in una grande aula del Tribunale ed erano presieduti da un magistrato. Ma la giuria popolare, scelta tra cittadini di provata fede antifascista, e il clima in cui si svolgevano i dibattimenti trasformavano i processi in autentici linciaggi. Il pubblico era composto quasi esclusivamente di partigiani o di fanatici di tutti i coloro che urlavano e inveivano contro gli imputati gridando ‘A morte!’. Gli avvocati difensori, nella grande maggioranza, invece di battersi veramente per evitare ai loro clienti le terribili condanne chieste dal Pubblico Ministero, si abbandonavano a lunghi sproloqui durante i quali si preoccupavano, soprattutto, di fare comprendere che, loro, fascisti non erano mai stati. A Sondrio, comunque, non si giunse mai agli estremi cui si abbandonarono i partigiani in altre città, vale a dire a strappare gli imputati dalle gabbie ed ammazzarli per la strada. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.152)
Per tutto l’inverno, infatti, le Corti d’Assise straordinarie continuarono a lavorare a pieno ritmo, giudicando decine di migliaia di fascisti. Da un calcolo approssimativo effettuato nell’aprile del 1946 riuscimmo a stabilire che, senza considerare le numerosissime sentenze di morte, i giudici antifascisti, nel volgere di circa un anno, avevano emanato condanne per un totale di circa centocinquantamila anni di galera. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.255)
Ma le notizie che più ci tenevano in ansia erano quelle che riguardavano le nostre famiglie: anche se i nostri cari facevano di tutto per nasconderci la realtà delle loro situazioni, riuscivamo quasi sempre a capire, leggendo tra le righe, in quali difficoltà si dibattessero. L’epurazione aveva portata nelle nostre case la miseria più completa, una miseria che le condizioni tragiche in cui versava il Paese rendevano ancor più soffocante. Si era arrivati al punto che alcuni di noi conservavano le scaglie delle saponette inglesi per regalarle ai familiari che venivano a trovarci. Di più non potevamo fare. (da ‘La generazione che non si é arresa’, pag.255-256)
Il maggiore Visconti raduna i suoi uomini nell’edificio scolastico di Gallarate. Non vuole arrendersi ai partigiani, che non riconosce come corpo combattente, ma a degli ufficiali che rappresentassero la Regia Aeronautica. Cominciano lunghe trattative che finalmente approdano la sera del 28 aprile ad un accordo per la resa alle seguenti condizioni: onore delle armi, salvacondotto a militari e sottufficiali, diritto alla pistola per gli ufficiali e loro trasferimento a Milano per essere consegnati alle autorità militari regolari. […] Il mattino del 29 aprile Visconti e un gruppo di ufficiali sono trasferiti nella caserma milanese del Savoia cavalleria. Cominciano gli interrogatori. Mentre attraversa il cortile della caserma, Visconti viene riconosciuto da alcuni partigiani: una raffica di colpi lo uccide a tradimento’. (da ‘I disperati’, pag.309-310)
Alla stazione ferroviaria di Valmozzola, piccolo centro della provincia di Parma, il 12 marzo 1944 un gruppo di partigiani fermava un treno in transito facendo scendere tutti coloro che indossavano una divisa militare. Tra questi due ufficiali del ‘Lupo’ (il battaglione che si era costituito il 10 gennaio al comando del capitano di corvetta Corrado De Martino). I due ufficiali, Carlotti e Pieropan, erano in breve licenza. Messi al muro con altri otto militari (tra cui due carabinieri) furono uccisi a colpi di mitra. La loro colpa? Indossavano l’uniforme dell’Esercito italiano della RSI. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.108)
[…] Bardelli, reduce dal fronte di Nettuno, cadeva in un vile agguato e dopo strenua lotta veniva barbaramente ucciso con nove dei suoi uomini. Furono ritrovati i loro corpi spogliati degli indumenti e dei valori personali, strappati gli anelli dalle dita e i denti d’oro dalle bocche piene di terra e di erba in segno di sfregio. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.110)
I delitti gratuiti compiuti durante la Resistenza […] furono voluti e compiuti dai comunisti. Si pose un velo su di essi perché non si ebbe la possibilità, o il coraggio di impedirli, né di punirli né di sconfessarli (Don Luigi Sturzo, L’ultima crociata, La Nuova Cultura, 1956). (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.117)
Avvalendosi in modo disinvolto della copertura e dell’appoggio del CLN e del CVL, il Comitato insurrezionale, non avendo alcun potere costituito contro il quale insorgere in armi, indicò come nemico, primario quanto generico, i fascisti che dovevano essere tutti ammazzati senza processo perché … ‘fuori legge’. Ed ecco, dattiloscritto su carta intestata Comitato di Liberazione Nazionale, il testo di una ‘Circolare segreta’: ‘Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico. […] Gli appartenenti alle Brigate Nere, alla Folgore, Nembo, X Mas e tutte le truppe volontarie, sono considerati fuorilegge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche ai feriti di tali reparti […] In caso che si debbano fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore’. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.209-210)
A Clusone (in Lombardia) un reparto di giovanissimi ufficiali della Guardia Nazionale, spontaneamente disarmatosi dietro promessa della libertà, fu interamente massacrato. A Oderzo (nel Veneto) la compagnia anziani del battaglione Bologna, cui era stata garantita la vita all’atto del loro pacifico disarmo, furono freddamente trucidati sulle stesse vecchie trincee del Piave. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.211)
In molti casi i partigiani entrarono negli ospedali militari, trascinarono giù dal letto i feriti e li fucilarono nei cortili o sulla strada davanti ai parenti che li assistevano. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.212)
A Torino, teatro di massacri che non hanno forse nulla da invidiare a quelli della stessa Milano, decine di famiglie, compresi le donne e i bambini, furono gettate dalle finestre dei palazzi. E, tra l’altro, furono trucidate numerose ausiliarie. ‘Il trattamento al quale furono sottoposte le donne fasciste, o presunte tali, dalla furia sanguinaria dei giustizieri rossi, rappresenta una delle pagine più vergognose della storia d’Italia […] Le fototeche e la stampa a rotocalco degli anni immediatamente successivi sono piene di immagini di donne portate alla berlina e anche al supplizio, con i capelli rasati a zero, coperte di lividi ed ecchimosi sanguinanti, tra armigeri ghignanti. […] Migliaia di uccisioni, spesso precedute da stupri e da sevizie d’ogni genere […] Mandrie inbufalite di bruti su poveri esseri indifesi, colpevoli soprattutto di essere donne […] e quindi preda facile e vulnerabile per i violenti […] Il Po fu per molti giorni rosso di sangue e gonfio di cadaveri […] In un canalone presso la salita del Cansiglio, tra il territorio delle provincie di Treviso e Vicenza, furono buttati non meno di millecinquecento giustiziati. […] Bologna, con i suoi duemila trucidati dei primi giorni, dette il ‘la’ alle efferate numerosissime uccisioni dell’Emilia e della Romagna. Vercelli, Novara, Cuneo, Genova, Alessandria, Brescia, Varese, Savona, Como furono testimoni di scene selvagge; i morti si contavano a migliaia. Ogni villaggio, ogni borgo, dalla Toscana al Veneto, alla Lombardia, alla Liguria, al Piemonte, ebbe linciaggi e numerosi fatti di sangue […] E nessuna offesa fu risparmiata né ai morti né ai vivi. (da ‘J.V.Borghese e la X MAS’, pag.212-213)
Valga questo altro esempio. Il 28 aprile 1945 a Rovetta, in provincia di Bergamo, vennero fucilati da partigiani comunisti tutti i componenti del presidio del passo della Presolana, composto da 43 militi di una compagnia della legione Tagliamento, i quali, rimasti isolati dal grosso del reparto, alla notizia dell’avvenuto crollo della RSI, secondo le disposizioni del CLNAI si erano arresi e avevano onsegnato le armi; ma una formazione di partigiani comunisti scesi dai monti si impose con le armi al CLN locale, ruppe i patti e passò per le armi tutti quei prigionieri. (da ‘I balilla andarono a Salò’, pag.22)
Sull”Indipendente’ dell’11 novembre 1993, Giampiero Mughini scriveva: ‘Ma diciamolo francamente, quella di Mussolini e della sua donna fu un’opera di macelleria. E ancor più lo era stato il massacro davanti al muretto di Dongo di gente in camicia nera che non aveva nulla di cui essere imputata’. Infatti quel massacro, affidato al lapis del colonnello Valerio che andava spuntando con una crocetta su una lista i nomi di coloro che dovevano essere liquidati, fu opera di macelleria, che vide cadere, gli uni accanto agli altri, grandi invalidi, ex combattenti, decorati al valore, funzionari, amministratori, poeti, ex comunisti, molti dei quali senza colpa e senza peccato, accompagnata da tutto il corredo di ferocia, di inutile brutalità (Barracu che come medaglia d’oro pretende di essere fucilato nel petto viene costretto a pugni e a calci a voltare le spalle) e, per Mussolini e Claretta, di sordida fretta, di ambigua clandestinità. Ma fu anche qualcosa di molto molto più. Quella esecuzione sbrigativa e ancora per tanti versi oscura nelle modalità con cui si svolse e nella persona dei suoi esecutori, fu lo scippo da parte di una fazione, attuato con le armi in pugno in modo arbitrario e violento, di un atto il cui diritto di compierlo o no spettava solo e interamente a tutto il popolo italiano. […] Un atto della stessa identica natura arbitraria di quelli di cui si faceva responsabile il regime e il tempo che con esso si pretendeva di liquidare, per instaurarne un altro di legalità e di sovranità popolare. (da ‘I balilla andarono a Salò’, pag.163-164)
Fascisti o ‘presunti tali’ furono portati davanti a plotoni d’esecuzione, appesi a un cappio, linciati. Uomini adulti, ragazzi, donne, vecchi, civili e militari, mutilati, ciechi di guerra, giovani ausiliarie denudate e violentate, preti, giornalisti, poeti, attori. Una sagra di odio e di furore. Le strade delle città, gli argini dei fiumi, il terreno scabro sotto il muro di cimiteri di imbrattò di sangue e l’aria si riempì di grida disperate e del crepitare delle armi automatiche. Li si andava a prelevare nelle case, li si rincorreva per le vie a seguito di un semplice presunto riconoscimento: ‘E lui! E un fascista! È una spia!’. Li si riconosceva alla fermata di un tram: ‘Aspetta, aspetta, ma tu non sei quello?…’. Presidi e interi reparti militari che si arresero, consegnarono le armi dopo regolari trattative con i CLN, in totale spregio ai patti stipulati, vennero passati per le armi dopo inenarrabili sevizie. Gente fu prelevata a forza dalle prigioni e scomparve nel nulla, per una rassomiglianza, un accusa senza alcun fondamento. Il generale Teruzzi, venne fucilato tre volte: tre innocenti, per il semplice fatto di portare una barba simile alla sua furono trucidati, implorando pietà e proclamando la loro reale identità. Lui morì nel suo letto molti anni dopo. Giorgio Bocca ha dato una cifra approssimativa tra i dodici e i quindicimila uccisi. No, il suo cuore partigiano lo ha spinto a indulgere, diminuire le proporzioni del massacro, edulcorandolo ulteriormente con l’espressione eufemistica: ‘soluzione rivoluzionaria’. In realtà si trattò di molti di più. Già ‘L’Opinione’ del luglio 1945 riportava la notizia di ventimila ‘fascisti o presunti tali’ eliminati, tra i quali 3.000 donne. Nel 1951 il giornalista Ferruccio Lanfranchi, testimone dei fatti, secondo i suoi calcoli, su ‘Il Tempo’ (13 agosto) avanzava l’ipotesi di 50/60.000 uccisi. E Silvio Betoldi nel settembre 1990 sul ‘Corriere della Sera’ riferiva che in un colloquio con Ferruccio Parri, poco prima della sua morte, questi, che era stato comandante dei volontari della Libertà, gli aveva confidato che si era trattato di ‘più di trentamila morti’. E infatti, di ‘più di trentamila’ si trattò. Come risulta dai dati forniti nel 1994, dopo anni di ricerche, di analisi di elenchi nominativi e di testimonianze, dal gruppo di lavoro all’uopo costituito dall’Istituto Storico della RSI. Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani titini (23.000) è stato stabilito che, fra militari e civili, gli eliminati dal 25 aprile al 31 maggio 1945, furono 42.000!. (da ‘I balilla andarono a Salò’, pag.168-170)
Si uccideva, si ‘giustiziava’. Nella ‘prigione del popolo’ in cui venni tenuto con altri tre camerati in quei giorni di furore, dove, dopo essere stati più volte portati contro il muro, per la ferma opposizione di un giovane capo partigiano con cui avevamo trattato la nostra resa, avevamo ogni volta scampato la vita, uno dei giovani patrioti che ci facevano la guardia e con il quale, passati i momenti dell’ira, eravamo entrati in confidenza, ci raccontava come la sera quando era libero dal servizio, con i suoi compagni andava ad assistere ai ‘processi’ che si svolgevano in luoghi simili a quello in cui eravamo prigionieri, cantine, rimesse, e ci riferiva le scene di orrore e di violenza, il terrore degli ‘imputati’, che finivano regolarmente per essere messi a morte. Un mattino lo vedemmo arrivare particolarmente scosso per essersi imbattuto, venendo lì, nel cadavere nudo di un ‘fascista’ cui era stata ‘segata’ la testa, che ‘stava laggiù all’altro angolo della strada’. […] Tutto ciò, ovviamente, è rimasto coperto, offuscato, non c’è stata una letteratura a diffusione nazionale, recensita sui grandi quotidiani o commentata in televisione, come quella sterminata che illustra le stragi e i massacri attuati dai ‘fascisti’, che ne abbia trattato; solo qualche ‘buco’ qua e là nella cappa di silenzi e di omertà che ha coperto quei giorni e quei fatti e sepolto subito da valanghe d mole di ‘comprensione’ e di ‘giustificazione’. (da ‘I balilla andarono a Salò’, pag.176-177)
Quarantaduemila morti ammazzati, tra i quali giovani entusiasti, puri patrioti, idealisti e uomini responsabili, quando ormai la guerra era finita e le sorti definitivamente tratte! Quarantaduemila uomini, donne, giovani ausiliarie col baschetto sulle ventitrè e quell’aria di balde ‘piccole italiane’ denudate, oltraggiate e uccise, anziani, invalidi di guerra trucidati, senza processo, senza possibilità di difesa, senza accertamento di prove! In quelle condizioni di violenza e di degradazione fisica e morale. Esposti alla furia di bande sanguinarie, cariche di odio e di vendetta, aizzate da tutto un coro di voci! […] Non posso chiudere questo scritto senza ricordare il sacrificio di 43 miei giovani camerati, molti dei quali conoscevo personalmente, e i cui volti adolescenti sono ancora qui davanti ai miei occhi, di cui ho fatto menzione nelle prime pagine di questo libro, fucilati il 28 aprile 1945 da una banda di partigiani comunisti a Rovetta, un paesino posto sotto il passo della Presolana, in provincia di Bergamo. La loro fine mi fu raccontata dalla madre di uno di essi, Alvaro Porcarelli, in un pomeriggio di tanti anni fa in un nudo appartamento all’ultimo piano di un palazzone che guardava sul piazzale del Colosseo a Roma. […] La madre di quel compagno d’arme, una donna sui cinquant’anni, già vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due ‘ragazzi, che da quella stessa finestra avevano assistito a tante sfilate e parate militari’, uccisi ambedue in quei giorni di sangue. Uno fucilato in quell’eccidio a Rovetta e l’altro ‘impiccato con il filo spinato’, come con la sua voce atona mormorò, in una località delle Langhe. Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventidue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, avuta la notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese si erano arresi al locale CLN e avevano consegnato le armi, come disposto nei bandi affissi dalle nuove autorità. Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi con le armi al CLN, aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi. Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta. Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: ‘Viva l’Italia’. Un’altra cinquina veniva prelevata dal gruppo li in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli già abbattuti, e nuovamente quando partiva la salva quei ‘figli di stronza’ gridavano il nome della madre: ‘Viva l’Italia’. Per otto volte, come le donne del paese, che chiuse nelle loro case, terrorizzate tendevano le orecchie a quegli spari e a quelle grida, raccontarono alle madri di quei martiri, quando alcuni anni dopo si recarono lassù a riesumare i resti dei figli, per otto volte, sotto quei monti, nel silenzio agghiacciato di quel giorno, sentirono le voci di quei ragazzi gridare: ‘Viva l’Italia’. (da ‘I balilla andarono a Salò’, pag.178-180)
Il 19 aprile è la volta del proclama ‘Arrendersi o perire !’, rivolto a militari e funzioni della Repubblica sociale e dell’apparato di occupazione germanico. Il testo merita di essere analizzato nel dettaglio perchè riflette le volontà politiche e le emozioni del clima insurrezionale. Partendo dalla considerazione che ‘la battaglia finale contro la Germania hitleriana volge rapidamente alla sua conclusione con la vittoria delle Nazioni Unite’, il proclama denuncia ‘la cricca hitleriana e fascista che vuole trascinare nella rovina estrema le forze che restano’. La continuazione della lotta è inutile e non può che trasformarsi in un suicidio collettivo delle forze nazifasciste. Per i soldati tedeschi e i militi di Salò, l’unica strada percorribile è la resa incondizionata, con la consegna immediata delle armi: ‘Una sola via di scampo e di salvezza resta, ancora, ai tedeschi che calpestano il nostro suolo e a quanti, italiani, hanno tradito la patria, sostenuto il fascismo, servito i tedeschi: abbassare le armi, consegnarle alle formazioni patriottiche, arrendersi al Comitato di liberazione’. Chi si arrende subito ‘avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti’: ma ‘chi non si arrende, sarà sterminato’. La conclusione del proclama, di cui si raccomanda la massima diffusione, è lapidaria: ‘Oggi, subito: arrendersi o perire! Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza’. Lo stesso giorno, il Clnai ribadisce il proprio orientamento emanando uno specifico decreto sulla resa delle formazioni nazifasciste. All’atto della resa, tutti i gruppi armati della Repubblica sociale devono essere sciolti e disarmati e i militi raccolti in campi di internamento in attesa di giudizio: ‘Gli individui già appartenenti alle formazioni militari fasciste, i quali, dopo lo scioglimento di esse, vengono catturati armati, vanno passati per le armi’; gli ufficiali e i soldati tedeschi che si arrendono vanno invece ‘trattati come prigionieri di guerra e consegnati agli alleati appena possibile’. (da ‘La resa dei conti’, pag.94-95)
Analoghi spunti emergono da una relazione sulla situazione di Milano di inizio maggio. Dopo la disposizione prefettizia del 30 aprile che ordina la sospensione immediata delle fucilazioni arbitrarie e del funzionamento dei tribunali di guerra e la consegna degli arrestati alla Commissione di giustizia, si constatano le resistenze ad ottemperare all’ordine, nonostante esso sia stato diramato dalle autorità resistenziali […] ‘Data la fuga precipitosa dei nazisti, rimanevano in città molti fascisti repubblicani e collaboratori del nemico occupante, che non avevano il tempo per allontanarsi. Pertanto oltre un migliaio di questi venivano sommariamente giustiziati dal popolo, che si rovesciava nelle strade alla loro caccia’. A Modena il 26 aprile Alessandro Coppi e Arturo Galavotti, rispettivamente presidente e segretario del Comitato di liberazione provinciale, diramano un appello in cui è fatto ‘assoluto divieto, se non dietro espressa autorizzazione del Cln, di procedere ad arresti ed esecuzioni’; la gravità della situazione e la necessità di porre un freno alla repressione sono confermate il giorno seguente, quando viene diramata a tutti i Cln della provincia modenese una circolare dello stesso tenore. (da ‘La resa dei conti’, pag.104-105)
Nelle fabbriche, dove la conoscenza diretta rende immediata l’individuazione, l’azione repressiva è ancora più radicale: così alla Fiat Mirafiori, alla Fiat Lingotto, all’Innocenti di Lambrate, alla Pirelli, all’Alfa Romeo. Si colpiscono i fascisti dichiarati, ma, nell’intreccio tra giustizia politica e giustizia di classe, spesso cadono anche i capisquadra più odiosi, i responsabili di reparto che hanno tagliato i tempi di produzione, i quadri che hanno determinato licenziamenti, i capi e i capetti che hanno fatto pesare la propria autorità nelle forme più ruvide ed offensive. (da ‘La resa dei conti’, pag.111)
Benito Mussolini fu ucciso – anche nel timore, non infondato, che da lì a pochi anni sarebbe potuto ritornare al potere – ma la sua uccisione non fu un atto rivoluzionario, poiché essa non ebbe luogo subito dopo la cattura, da parte dei partigiani che l’avevano scoperto. Non fu un atto rivoluzionario anche perché il Duce non fu subito linciato da una folla inferocita, o da un gruppo, o da un singolo. Non fu infine un atto rivoluzionario perché in Italia… non era in corso una rivoluzione! Si trattò piuttosto di un omicidio a sangue freddo, premeditato, in base ad una sentenza illegale emessa da un organo, il CLNAI, che il 16 agosto 1944 si era arbitrariamente arrogato il diritto di emettere sentenze. Ma soprattutto si trattò di un atto antidemocratico, poiché in una democrazia anche il peggiore assassino – proprio per differenziarsi da lui – ha diritto a difendersi in un processo dove vengono garantiti i crismi della legalità. Il CLNAI terminava dunque la sua attività con un atto che dimostrava la sua eccezionale mancanza di spirito democratico. (da ‘In nome della resa’, pag.430)
Carlo Simiani, un perseguitato del fascismo e poi partigiano non dell’ultima ora, ha condotto subito dopo la guerra una rigorosa indagine sul numero delle vittime provocate dalla ‘caccia al fascista’ che, iniziata alla fine d’aprile, durò diverso tempo. Secondo le sue ricerche le vittime furono 40.000 (tra di esse gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida che furono fucilati a Milano, in Via Poliziano 13, il 30 aprile 1945). Ecco come Simiani descrive l’atmosfera che regnava a Milano in quelle sanguinose giornate del tardo aprile del 1945: […] ‘Già al 26 aprile si parlava di centinaia di fascisti uccisi e di altre migliaia sotto ‘processo’. Ma quali processi? Gruppi di irresponsabili intendevano far giustizia da sé e processare con tutte le garanzie stabilite dai codici significava perdere tempo prezioso’. […] ‘I partiti si davano un gran da fare per impossessarsi dei posti chiave, distribuendo cariche a persone che non erano all’altezza del compito loro affidato’. ‘Si era al corrente di molti giustiziati che nulla avevano avuto a che vedere con il fascismo, il più delle volte vittime o delle loro ricchezze o di vendette personali’. ‘Si ebbero anche casi di persone prelevate per carpire loro il denaro e, rilasciate, anche se meritevoli di punizione, mediante l’esborso di cifre notevoli. In mezzo a questo stato di cose che andava generalizzandosi, migliaia di persone incontravano la morte senza subire giudizi, senza essersi potute appellare, quasi sempre prive di conforti religiosi, raramente col permesso di inviare un estremo saluto ai familiari’. […] Sì calcola infatti che dal 25 aprile al 30 maggio i morti furono, nel capoluogo lombardo, 3.400. Tra le vittime anche 6 partigiani: il conte Federico Barbiano Belgioioso e cinque suoi compagni, uccisi perché furono scambiati per ‘fascisti’, in quanto avevano un aspetto ‘troppo distinto’ per poter essere dei partigiani! Nel Bolognese operavano, ancora al momento del crollo della ‘Linea Gotica’, circa 1.500 partigiani, di cui 300 in città. Orbene, dopo la liberazione dall’occupazione tedesca, compiuta dalle truppe regolari italiane, i partigiani divennero improvvisamente oltre 20.000 e nel capoluogo emiliano esplose una violenza indescrivibile che colpiva tutti: fascisti ed antifascisti, vecchi e giovani, ricchi e poveri. Una delegazione sovietica, di passaggio in città, che pure proveniva da un paese dove ne capitavano di tutti i colori, rimase impressionata dalla violenza che potremmo anche definire ‘alla fascista’ di cui erano capaci gli italiani. In tutto 1.300 persone vennero liquidate in città (e di esse 800 rimasero non identificate). In Romagna le vittime furono 450: una cifra non solo inferiore a Bologna, ma anche ‘moderata’ per una regione comunemente considerata di ‘teste calde’. Lo stesso dicasi per il Veneto e la Liguria. In Piemonte le vittime furono in tutto 8.000 (nessuna in Valle d’Aosta) e di esse solo 200 nell’Ossola, che pure aveva visto il maggior trionfo militare partigiano. Gli americani avevano ritardato apposta, dice Simiani, l’occupazione del Piemonte per permettere ai partigiani di liquidare tutti coloro che ritenevano, cosa che loro, una volta arrivati, non avrebbero più potuto permettere. In questa atmosfera i partigiani poterono compiere indisturbati, nella zona di Saluzzo, la liquidazione di circa 500 soldati della divisione Monterosa (dell’esercito regolare della Repubblica Sociale Italiana e non necessariamente formata da neofascisti), dopo che la grande unità si era arresa. Assai diverso fu il comportamento dei brasiliani che, il 29 aprile 1945, a Fellegara (Parma), concessero l’onore delle armi a quegli alpini della Monterosa che ebbero la fortuna di cadere nelle loro mani. Anche se il più appariscente, il massacro degli alpini non fu una eccezione. Innumerevoli soldati della RSI, in moltissimi casi colpevoli solo di aver combattuto contro gli Alleati e, al massimo, di essersi difesi dagli attacchi dei partigiani (ma senza mai aver partecipato a rastrellamenti e tantomeno a rappresaglie) vennero orribilmente massacrati da questi ultimi, mentre, se si fossero arresi agli Alleati, avrebbero probabilmente ricevuto l’onore delle armi, cosa che infatti fu concessa (non solo dai brasiliani) a parecchi reparti. (da ‘In nome della resa’, pag.446-448)

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“Sfiorando il muro” per ricordare i danni della violenza proletaria di Stenio Solinas

Venezia – Ai protagonisti della surreale polemica di fine estate, occupati l’un l’altro a darsi, da sinistra, del «fascista» per stigmatizzarne l’indole violenta e antidemocratica, suggeriamo di andarsi a vedere Sfiorando il muro di Silvia Giralucci, presentato ieri fuori concorso al Festival.
 
La regista aveva tre anni quando, nel 1974, le Brigate rosse le ammazzarono il padre, Graziano, agente di commercio e militante missino. Lo freddarono nella sede del Movimento sociale. Spararono a lui e al custode, Giovanni Mazzola, il secondo morto di un’«esecuzione politica» in seguito rivendicata, ma derubricata a «incidente di percorso». Fra il ’74 e il ’77 nella città ci furono circa 500 attentati, Autonomia Operaia fece da collante fra contestazione e terrorismo, si sprangava la gente con la stessa facilità con cui ci si cambia camicia. Dapprima «sedicenti», poi «compagni che sbagliano», poi «oggettivamente controrivoluzionarie», alle Bierre così come agli altri gruppuscoli extraparlamentari di sinistra venne concesso una sorta di salvacondotto della morale ideologica: la loro era una violenza sana, dalla parte dei lavoratori e dunque proletaria: il male assoluto stava dall’altra parte, così come la vera violenza da condannare: il fascismo e quella dei fascisti. Anche per questo, come recitava allegramente uno slogan del tempo, «uccidere un fascista non è un reato».
Ha fatto più danni la «lingua di legno» del comunismo di quanto non si sia ancora disposti ad ammettere. Perfino ora si preferisce non sfogliare «l’album di famiglia» della violenza che ne ha contrassegnato la storia e pasticciare con la dialettica per cui l’olio di ricino, lo squadrismo e il manganello appartengono al campo avverso. Come se questo bastasse a dimenticare che i processi-farsa, le «purghe», le esecuzioni con un colpo alla nuca, i gulag ce li avevano in casa propria. Nel lager nazista di Buchenwald dov’è rinchiuso, il giovane Jorge Semprún osserverà stupito e ammirato come i prigionieri russi riuscissero ad adattarsi e a sopravvivere al meccanismo tipico di un universo concentrazionario. Solo più tardi si renderà conto che gli era naturale, era lo stesso meccanismo burocratico-dispotico-repressivo che prima Lenin e poi Stalin avevano imposto al Paese. Membro del Partito comunista spagnolo in esilio, Semprún romperà con i vecchi compagni di lotta su questo, l’illegalità violenta e connaturata di un sistema politico e ideologico. Venne trattato da rinnegato.
Sfiorando il muro non è un film apologetico e si capisce che Silvia Giralucci è lontana mille miglia dalle idee che al padre costarono la vita. Stefania Paternò, un’amica di Graziano Giralucci, anche lei militante missina in quegli anni di piombo, dice in proposito cose sensate: una «guerra civile» non dichiarata, ma strisciante fra bande giovanili opposte, una sorta di insanguinati «ragazzi della via Paal» alle prese con un gioco crudele più grande di loro. La sua consapevolezza critica rende semmai più sinistro il reducismo di Toni Negri e di quelli dell’Autonomia Operaia trent’anni dopo. Nel film, le riprese della celebrazione dei fatti del 7 aprile 1979 in una sala comunale, con il professor Negri che firma autografi e stringe le mani dei suoi sostenitori, e che equipara la violenza di allora a «quattro schiaffi a un professore» rimanda a quei capolavori della «lingua di legno» ricordata prima: c’è sempre una spiegazione, una contestualizzazione, un a monte e una misura in cui, un ma anche e un ma non è questo il punto che lava ogni responsabilità, assolve da ogni colpa. È lo stesso meccanismo per cui, crollato il Muro di Berlino sulla testa di chi l’aveva eretto, dall’oggi al domani i comunisti hanno mutato nome e sbuffano con insofferenza se qualcuno gli ricorda che cos’erano prima. Sono cambiati, dicono, e le tante, successive sigle della loro formazione politica sono lì a dimostrarlo. Hanno ragione, naturalmente, ma immutata è rimasta la struttura mentale, quel combinato disposto di retorica e malafede politica, di bis-pensiero e di neo lingua, per dirla con George Orwell, che li rende catafratti al cambiamento. Diversi ma eguali, insomma. I miracoli della dialettica marxista.