10 otobre 1813 nasce Giuseppe Verdi, compositore italiano

Giuseppe Verdi

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Vita e opere

Giuseppe Verdi nacque nelle campagne di Roncole, una frazione di Busseto (Parma), il 10 ottobre 1813 da Carlo, oste e rivenditore di generi alimentari, e Luigia Ottini, filatrice. Carlo proveniva da una famiglia di agricoltori piacentini (stesse origini della moglie) e, dopo aver messo da parte un po’ di denaro aveva aperto una modesta osteria nella casa di Roncole, la cui conduzione alternava al lavoro dei campi. L’atto di nascita fu redatto in francese, appartenendo in quegli anni Busseto e il suo territorio all’Impero francese creato da Napoleone.

Pur essendo un giovane di umile condizione sociale, riuscì tuttavia a seguire la propria vocazione di compositore grazie alla buona volontà e al desiderio di apprendere dimostrato. L’organista della chiesa di Roncole, Baistrocchi, lo prese, infatti, a benvolere e gratuitamente lo iniziò allo studio della musica e alla pratica dell’organo. Più tardi, Antonio Barezzi, un negoziante amante della musica e direttore della locale società filarmonica, convinto che la fiducia nel giovane non fosse mal riposta, divenne suo mecenate e protettore aiutandolo a proseguire gli studi intrapresi.

La casa natale di Giuseppe Verdi

Verdi manifestò precocemente il proprio talento musicale, come testimonia la scritta posta sulla spinetta dal cembalaro Cavalletti, che nel 1821 la riparò gratuitamente “vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo istrumento”. La prima formazione del futuro compositore avvenne tuttavia sia frequentando la ricca biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, ancora esistente, sia prendendo lezioni da Ferdinando Provesi, maestro dei locali filarmonici, che gli insegnò i principi della composizione musicale e della pratica strumentale. Verdi aveva solo quindici anni quando, nel 1828, una sua sinfonia d’apertura venne eseguita, in luogo di quella di Rossini, nel corso di una rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al teatro di Busseto. Nel 1832 si stabilì a Milano, grazie all’aiuto economico di Antonio Barezzi e ad una “pensione” elargitagli dal Monte di Pietà di Busseto. A Milano tentò inutilmente di essere ammesso presso il locale prestigioso Conservatorio e fu per diversi anni allievo di Vincenzo Lavigna, maestro concertatore alla Scala. Nel 1836 sposò Margherita Barezzi, figlia del suo benefattore, con la quale due anni più tardi andò a vivere a Milano, in una modesta abitazione. Nel 1839 riuscì finalmente, dopo quattro anni di lavoro, a far rappresentare la sua prima opera alla Scala: era l’Oberto, Conte di San Bonifacio, su libretto originale di Antonio Piazza, largamente rivisto e riadattato da Temistocle Solera. L’ Oberto era un lavoro di stampo donizettiano, ma alcune sue peculiarità drammatiche piacquero al pubblico tanto che l’opera ebbe un buon successo e 14 repliche.

Nabucco

Visto l’esito dell’Oberto, l’impresario della Scala Bartolomeo Merelli gli commissionò la commedia Un giorno di regno, andata in scena con esito disastroso. L’insuccesso dell’opera fu dovuto, con ogni probabilità, al dolore per la morte della moglie e dei figli, che aveva gettato il musicista nel più profondo sconforto, e per ironia della sorte l’opera scritta da Verdi doveva essere comica.

Fu ancora Merelli a convincerlo a non abbandonare la lirica, consegnandogli personalmente un libretto di soggetto biblico, il Nabucco, scritto da Temistocle Solera, che Verdi accettò di musicare. L’opera andò in scena il ;9 marzo 1842 al Teatro alla Scala e il successo fu questa volta trionfale. Venne replicata ben 64 volte solo nel suo primo anno di esecuzione.

Con Nabucco iniziò la parabola ascendente di Verdi. Sotto il profilo musicale l’opera presenta ancora un impianto belcantistico, in linea con i gusti del pubblico italiano del tempo, ma teatralmente è un’opera riuscita, nonostante la debolezza e alcune ingenuità del libretto, Lo sviluppo dell’azione è rapido, incisivo, e tale caratteristica avrebbe contraddistinto anche la successiva, e più matura, produzione del compositore. Alcuni personaggi, come Nabucodonosor e Abigaille, sono fortemente caratterizzati sotto il profilo drammaturgico, così come il popolo ebraico, che si esprime in forma corale, unitaria, e che forse rappresenta il protagonista vero di questa prima, significativa, creazione verdiana. Uno dei cori dell’opera, il celebre Va pensiero finì col divenire una sorta di canto doloroso o inno contro l’occupante austriaco, diffondendosi rapidamente in Lombardia e nel resto d’Italia. Nel periodo dell’unificazione italiana “viva Verdi” significava: “Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia”. Ciò era successo proprio grazie a quest’opera che risvegliava il patriottismo negli italiani.

Gli “anni di galera”

Busseto: statua di Giuseppe Verdi

Nabucco segnò l’inizio di una folgorante carriera. Per quasi dieci anni Verdi scrisse mediamente un’opera all’anno, Da I Lombardi alla prima crociata a La battaglia di Legnano, passando per I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, Il corsaro, I masnadieri, Ernani e Macbeth. Tali opere giovanili, ad eccezione delle due ultime, pur presentando talvolta al loro interno pagine di acceso lirismo e una lucida visione dei meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno testimonianza di un’evoluzione del maestro verso forme musicali e drammaturgiche più personali e si adagiano su schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente di successo rappresentate in molti teatri italiani ed europei, ma composte spesso su commissione, con ritmi di lavoro talvolta massacranti e non sempre sorrette da una genuina ispirazione. Per tale ragione Verdi definì questo periodo della propria vita “gli anni di galera”. Fra la produzione verdiana dell’epoca spiccano senz’altro, per forza drammaturgica e fascino melodico due opere, Ernani e Macbeth.

Il monumento a Giuseppe Verdi a Trieste

Tratta dall’omonimo dramma di Victor Hugo, Ernani fu concepito da Verdi fin dall’estate del 1843. Musicato nell’inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave, venne presentato al pubblico veneziano in marzo. La vicenda, ricca di colpi di scena e incentrata su un triplice amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire la caratterizzazione di alcuni personaggi dal punto di vista drammaturgico e di iniziare ad affrancarsi dall’ingombrante influsso dei grandi compositori italiani dei primi decenni dell’Ottocento: Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti.

Macbeth, presentata al Teatro La Pergola di Firenze nel 1847, è con ogni probabilità il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su libretto di Francesco Maria Piave, si ispira alla tragedia omonima di William Shakespeare. Negli ultimi decenni è stata sottoposta a un intenso processo di rivalorizzazione, anche se generalmente viene rappresentata nella sua veste definitiva del 1865, riveduta e ampliata dal compositore bussetano. L’opera, dalle potenti connotazioni drammatiche, si differenzia dalle precedenti per un maggiore approfondimento psicologico dei protagonisti della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth), preannunciando, col suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi entrato nella sua piena maturità espressiva.

Nel 1849, venne presentata al pubblico napoletano Luisa Miller, opera meno affascinante di Macbeth, ma importante per l’evoluzione dello stile musicale e della drammaturgia verdiana. L’orchestrazione si fa più raffinata che in passato, il recitativo più incisivo e il compositore scava nella psiche della protagonista come mai aveva forse fatto prima di allora. Anche nella creazione successiva, Stiffelio, rappresentata per la prima volta a Trieste nel 1850, Verdi portò avanti quel lavoro di caratterizzazione psicologica del personaggio centrale, iniziato con Macbeth e proseguito in Luisa Miller. L’opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute in parte ai drastici tagli operati dalla censura austriaca, che non le permisero di imporsi al grande pubblico italiano ed europeo. Ancor oggi Stiffelio è rappresentato raramente.

La trilogia popolare

Milano: statua di Giuseppe Verdi

Un anno più tardi, con Rigoletto (Venezia, 1851), Verdi si sarebbe tuttavia imposto come il massimo operista italiano del suo tempo. Rigoletto fu seguito da altri due capolavori assoluti, Il trovatore e La traviata, che formano con esso la cosiddetta “trilogia popolare”, o (più impropriamente) “romantica”, del compositore bussetano. Tratto da una pièce di Victor Hugo, Le roi s’amuse, Rigoletto è un’opera profondamente innovativa, sotto il profilo drammaturgico e musicale. Per la prima volta al centro della vicenda di un’opera drammatica troviamo un buffone di corte, cioè un personaggio che, utilizzando una terminologia moderna, potremmo definire un “emarginato sociale”. La dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi magistralmente attraverso una partitura messa al servizio del dramma e di straordinaria bellezza melodica. Azione e musica sembrano rincorrersi e sostenersi mutuamente in una vicenda che ha un ritmo di sviluppo rapido, senza cedimenti né parti superflue.

Il miracolo si ripeté con Il trovatore (Roma, 1853), opera dall’impianto più tradizionale, ma altrettanto affascinante. Dramma di grande originalità oltretutto, perché si struttura su una vicenda povera di avvenimenti e dove i protagonisti o sono proiettati verso un futuro gravido di incognite, o immersi nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l’azione e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile. Con quest’opera Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più alte, ricche di patetismo e suggestioni tardo-romantiche che sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più tardi, nella terza opera, in ordine cronologico, della trilogia: La traviata.

La traviata (Venezia, 1853) ruota attorno alla storia di una cortigiana travolta dall’amore per un giovane di buona famiglia. Più che su alcuni accadimenti esteriori, la vicenda viene vissuta all’interno della coscienza della protagonista la cui natura umana è scandagliata da Verdi in tutte le sue minime sfumature. Le scelte stilistiche del grande compositore risultano sempre adeguate alla complessa drammaturgia dell’opera e si traducono in un raffinamento orchestrale e in una complessità armonica la cui modernità non venne all’epoca pienamente recepita. Oggigiorno alcuni critici considerano La Traviata una vera e propria pietra miliare nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni dell’ottocento e ne evidenziano l’influenza su Puccini e gli autori veristi suoi contemporanei[1].

L’esperienza parigina e Sant’Agata

Con la “trilogia popolare”, Verdi si era imposto come il più celebre musicista del suo tempo. Eugène Scribe, all’epoca librettista dell’Opéra di Parigi, propose al compositore un testo in francese per un’opera da rappresentare nella Ville Lumière. Non senza esitazioni, Verdi accettò. Ne uscì un’opera, Les vêpres siciliennes (1855), di notevole impatto musicale ma poco convincente sotto il profilo drammaturgico. L’opera, inquadrabile nel genere del Grand opéra, con spettacolari messe in scena, coreografie e movimenti di massa, poco si addiceva al genio verdiano, approdato con la Traviata a un tipo di drammaturgia più intimista, psicologica. Maggior successo avrebbe avuto, pochi mesi più tardi, la versione italiana dell’opera, I vespri siciliani (Parma, 1855), con la quale si sono cimentati, nel secondo dopoguerra alcuni fra i maggiori direttori d’orchestra e interpreti della grande lirica internazionale (celebre la rappresentazione scaligera di De SabataCallas del 1951).

La villa di Verdi a Sant’Agata

In quegli anni riaffiorò prepotente in lui, ormai compositore affermato, ricco e noto al pubblico internazionale, il fascino della campagna[2]. Pertanto, nel maggio 1848 Verdi acquistò dai signori Merli la villa di Sant’Agata, una frazione di Villanova sull’Arda (provincia di Piacenza), dove diventò anche consigliere comunale.[3] Qui si stabilì tre anni più tardi, insieme alla sua nuova compagna, il soprano Giuseppina Strepponi, che sposò nel 1859. La fattoria finì con l’assorbire gran parte del tempo del Maestro, almeno tutto quello che la musica gli lasciava libero e così, via via, col passare degli anni, l’amore per la campagna diventò, per lui, quasi una mania[4]. Le lettere indirizzate al fattore sono una riprova di quanto il “cigno di Busseto” fosse esperto in fatto di pioppicultura, di allevamento di cavalli, di irrigazione dei campi, di enologia. Quanto poi fosse competente e si tenesse al corrente delle ultime novità si può dedurre da una lettera, datata marzo 1888 ed indirizzata ai fratelli Ingegnoli che gli avevano mandato in omaggio sei cachi di cui avevano appena iniziato, in Italia, la coltivazione; Verdi se ne mostrò subito entusiasta, auspicandone la diffusione su tutto il territorio nazionale.

Gli anni della maturità

La seconda metà degli anni cinquanta dell’Ottocento, furono, per il compositore, anni di travaglio: Verdi poteva finalmente comporre senza fretta, ma l’intero mondo musicale stava lentamente cambiando. Sui palcoscenici italiani, il Simon Boccanegra, presentato al pubblico veneziano nel 1857, non piacque. Il dramma, prettamente politico, non aveva quei risvolti sentimentali che tanto appassionavano il pubblico del tempo e dovette attendere quasi cinque lustri e una rielaborazione radicale (cui collaborò anche Arrigo Boito) per imporsi definitivamente nel repertorio lirico italiano ed internazionale (1881).

Due anni più tardi vedeva la luce, dopo varie vicissitudini prima con la censura napoletana (che in pratica rese impossibile la sua rappresentazione), poi con quella romana, Un ballo in maschera (Roma, 1859), opera di successo nella quale Verdi mescolò, con sapiente dosaggio, elementi procedenti dal teatro tragico e da quello leggero. Creazione musicalmente e drammaturgicamente raffinata, dallo stile elegante e delicato, in Un ballo in maschera affiora un’umanità vagamente inquieta, non esente da ambiguità, che trova nella relazione fra i due protagonisti i suoi momenti liricamente più elevati.

Un interessante connubio di elementi comici e tragici (con decisa prevalenza di questi ultimi), si realizza ne La forza del destino (San Pietroburgo, 1862). L’opera possiede un indubbio vigore musicale anche se appare in alcuni punti meno compatta, meno unitaria della precedente sotto il profilo teatrale. Ne La forza del destino Verdi riesce tuttavia ad elaborare un linguaggio ancor più realistico che in passato, anticipando l’opera successiva, il Don Carlos, presentato al pubblico parigino nel 1867.

Foto di Giuseppe Verdi, con firma autografa, donata a Francesco Paolo Frontini

Don Carlos è oggi considerato uno dei grandi capolavori verdiani. In quest’opera il compositore, pur facendo proprie alcune impostazioni del Grand opéra (fra cui l’articolazione in cinque atti, l’inserimento di un balletto fra il terzo e quarto atto e la creazione di alcune scene particolarmente spettacolari), riesce a scavare in profondità nella psicologia dei protagonisti, offrendoci una poderosa raffigurazione del dramma umano e politico che sconvolse la Spagna nella seconda metà del XVI secolo e che ruota attorno alla logica spietata della ragion di stato.

Tale periodo di massima maturazione umana ed artistica culminò con Aida, commissionata dal Kedivè d’Egitto e andata in scena la vigilia di Natale del 1871. Aida costituisce un ulteriore, grande passo in avanti verso la modernità. Il quasi completo abbandono dei pezzi a forma chiusa, l’uso ancor più accentuato che in passato di temi e motivi musicali ricorrenti potrebbero fare accostare tale opera al dramma wagneriano. In realtà Verdi aveva seguito un percorso del tutto autonomo in Aida, opera fondamentalmente intimista e poggiata su una vocalità dalle caratteristiche prettamente italiane. Ricordiamo a questo proposito che la prima opera wagneriana ad essere rappresentata in Italia fu il Lohengrin a Bologna, e ciò avvenne dopo la prima esecuzione dell’Aida. Verdi era già al corrente di alcune innovazioni musicali del grande compositore tedesco[5] ma è indubbio che Wagner fu conosciuto dal grande pubblico italiano e iniziò a esercitare una decisa influenza sugli operisti italiani, dopo tale data, non prima.

Dopo Aida, Verdi decise di ritirarsi a vita privata. Iniziò così il periodo del grande silenzio (interrotto dalla “Messa di Requiem” scritta in occasione della morte di Alessandro Manzoni), durante il quale il rude contadino di Roncole di Busseto meditò sui grandi mutamenti artistici in corso nel mondo. A farlo uscire dall’isolamento fu Arrigo Boito, il compositore scapigliato che lo aveva pubblicamente offeso nel 1863 ritenendolo causa del provincialismo e dell’arretratezza della musica italiana del tempo.

Gli ultimi capolavori

Milano, la Casa di Riposo per Musicisti in Piazza Buonarroti, fondata da Giuseppe Verdi nel 1899.

Con gli anni Boito aveva compreso che solo Verdi avrebbe potuto portare l’Italia musicale al passo con l’Europa e, col fondamentale aiuto dell’editore Giulio Ricordi, si riconciliò con lui. Primo frutto della collaborazione fra il grande musicista e l’ex scapigliato fu il rifacimento del Simon Boccanegra rappresentato con grande successo al Teatro alla Scala di Milano nel 1881. Seguirono a distanza di alcuni anni due opere memorabili: Otello e Falstaff, entrambi frutto delle fatiche letterarie di Boito, che si occupò della stesura dei rispettivi libretti, e di Verdi che ne compose la musica. Si tratta di due capolavori assoluti del grande bussetano, ormai prossimo alla concezione wagneriana del dramma ma senza pagare un solo tributo allo stile del suo coetaneo d’oltralpe. In Boito Verdi poté trovare un collaboratore prezioso, che seppe essere all’altezza delle proprie concezioni drammaturgiche, un intellettuale di notevole spessore culturale, duttile nella versificazione e a sua volta musicista, ovvero capace di pensare la poesia in funzione della musica. Le due opere, entrambe rappresentate alla Scala, ebbero esiti diversi. Se Otello incontrò immediatamente i gusti del pubblico, affermandosi stabilmente in repertorio, Falstaff lasciò, in un primo momento, perplesso il grande pubblico verdiano e, più in generale, i melomani italiani. Per la prima volta dopo lo sfortunato Un giorno di regno infatti, l’anziano Verdi si cimentava nel teatro comico, ma con la sua estrema commedia aveva accantonato in un sol colpo tutte le convenzioni formali dell’opera italiana, dando prova di una vitalità artistica, di uno spirito aperto alla modernità e di un’energia creativa sorprendenti. Falstaff fu sempre amato dai compositori ed esercitò un influsso decisivo sui giovani operisti, da Puccini agli autori della Generazione dell’Ottanta.

Verdi trascorse gli ultimi anni tra Sant’Agata e Milano. Nel 1897 la moglie Giuseppina morì, lasciandolo solo nella sua lunga vecchiaia. Nel 1899 istituì l’Opera PiaCasa di Riposo per i Musicisti, mentre designò erede universale delle sue ingenti ricchezze una cugina di Busseto, Maria Verdi. Molti furono però i legati destinati a vari enti sociali.

La morte

Verdi morì a Milano in un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et De Milan[6] il 27 gennaio 1901, a 87 anni. Era venuto nella città lombarda per trascorrervi l’inverno, come faceva da tempo. Colto da malore spirò dopo sei giorni di agonia. Lasciò istruzioni per i suoi funerali: si sarebbero dovuti svolgere all’alba, o al tramonto, senza sfarzo né musica. Volle esequie semplici, come semplice era sempre stata la sua vita. Le ultime volontà del compositore vennero rispettate, ma non meno di centomila persone seguirono in silenzio il feretro. Nei giorni che precedettero la morte di Verdi via Broletto e le strade circostanti vennero cosparse di paglia affinché lo scalpitio dei cavalli e il rumore delle carrozze non ne disturbassero il riposo.

Tra le cerimonie svoltesi in tutta Italia per commemorare la morte di Verdi, particolarmente suggestiva fu quella che si svolse, alla presenza del Duca di Genova, nel teatro greco di Siracusa. Fu stampata anche una cartolina commemorativa in occasione del luttuoso evento, mentre sia Pascoli che D’Annunzio scrissero composizioni poetiche in sua memoria.

Il Verdi non operistico

Giuseppe Verdi ritratto da Giovanni Boldini nel 1886

Verdi si cimentò anche al di fuori dal campo operistico. Dopo aver ricevuto la formazione di maestro di cappella – secondo la prassi italiana dell’epoca – scrisse molta musica sacra e strumentale, destinata per lo più alla locale Società filarmonica. Ricordiamo di questo periodo (18361839) un Tantum ergo, che il compositore giudicò molto severamente negli anni della propria maturità. Dall’Oberto (1839) abbandonò, per oltre vent’anni, i generi non operistici, con l’eccezione della musica da camera (fra cui alcune romanze da salotto).

Nel 1862 compose, per l’Esposizione Universale di Londra, l’Inno delle Nazioni su testo di Boito. Molti anni più tardi, Verdi scrisse una Messa di requiem per la morte di Alessandro Manzoni (rappresentata nella Chiesa di San Marco a Milano il 22 maggio 1874). In realtà già dopo la morte di Rossini (1868), Verdi aveva proposto a ben undici compositori italiani del tempo, come omaggio collettivo al compositore pesarese, un Requiem mai realizzato. Per sé aveva riservato l’ultimo brano, quel Libera me, Domine che avrebbe recuperato successivamente, inserendolo, con alcuni cambiamenti, nel Requiem per Manzoni.

Sempre nel campo della musica sacra, Verdi compose un Pater noster, su testo in volgare di Dante, pubblicato nel 1880 e i Quattro pezzi sacri, composti nella tarda maturità e pubblicati nel 1898: Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine e Te Deum.

Di Verdi, nel genere cameristico, ricordiamo alcune opere giovanili come le Sei romanze (ed. 1838) e Album di sei romanze (ed. 1845) per voce e pianoforte e il Quartetto per archi in mi minore (1873).

Verdi e la politica

Verdi partecipò attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu, come si è accennato, un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie aspettative. Fu sostenitore dei moti risorgimentali (pare che durante l’occupazione austriaca la scritta “Viva V.E.R.D.I.” fosse letta come “Viva Vittorio Emanuele Re dItalia“). Il Paese lo volle, quasi a viva forza, membro del primo parlamento del Regno d’Italia (18611865), eletto come Deputato nel Collegio di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza, e, successivamente, senatore a vita dal 1874. Fu anche consigliere provinciale di Piacenza. Rappresentò, e continua a rappresentare per molti italiani la somma di tutti quei simboli che li hanno guidati all’unificazione nazionale contro l’oppressione straniera.

Personalità

Per lungo tempo Verdi è stato considerato un tranquillo uomo di campagna toccato dal genio, un uomo rustico e schietto, integerrimo, e di rara onestà intellettuale. Tale immagine si univa a quella del patriota ardente, che a giusto titolo sedette come deputato nel primo parlamento dell’Italia unita (1861). Aspetti questi, facenti sicuramente parte della sua personalità ma che da soli non possono spiegare la grandezza dell’artista e delle sue immortali creazioni. In realtà Verdi fu un operista attento alle grandi correnti di pensiero che percorrevano l’Italia e l’Europa del tempo, pronto a mettersi in discussione e nel contempo profondamente conscio del proprio valore. Sempre aggiornatissimo, alla ricerca di nuovi soggetti cui ispirare le proprie opere, fu un grande frequentatore della capitale artistica dell’Europa del tempo, Parigi. Il suo primo viaggio nella Ville Lumière risale al 1847, l’ultimo, al 1894, in occasione dell’allestimento dell’Otello che egli stesso volle seguire personalmente. Compositore meticoloso, dotato di un’eccezionale sensibilità drammaturgica che aveva ulteriormente affinato con gli anni, Verdi fu per tutta la sua vita uno sperimentatore, proteso verso traguardi sempre più alti e dotato di un senso critico fuori del comune, che gli permise di andare incontro ai gusti di un pubblico sempre più esigente pur senza mai rinunciare ai propri convincimenti di uomo ed artista. L’enorme epistolario che ci ha lasciato, oltre a rappresentare un affascinante affresco di quasi settant’anni di storia italiana (dalla metà degli anni trenta dell’Ottocento sino alla fine del secolo), è uno strumento per conoscere un Verdi “inedito”, orgoglioso della propria estrazione contadina, ma allo stesso tempo uomo fondamentalmente colto e osservatore fine della realtà e dell’ambiente che lo circondavano, personaggio inquieto e protagonista carismatico di un’epoca memorabile. Stimato e amato da un ampio pubblico internazionale è, con Giacomo Puccini, l’operista più rappresentato al mondo, occupando un posto privilegiato nell’olimpo dei più grandi creatori musicali di tutti i tempi.

Opere liriche

Una delle ultime immagini fotografiche di Giuseppe Verdi
custodita al Castello d’Albertis di Genova

Verdi e il cinema

Film biografici, più o meno liberamente tratti dalla vita di Giuseppe Verdi:[7]

Curiosità

  • Di Wagner, Verdi ascoltò solo il Tannhäuser e il Lohengrin, ma nel suo armadio conservò sempre le pubblicazioni di tutti gli spartiti del maestro tedesco.
  • In vita sua, Verdi scrisse tonnellate di lettere di gran parte delle quali conservò copie nei cosiddetti “copialettere” che tuttora costituiscono una fonte eccezionale per la ricostruzione del suo carteggio, periodicamente pubblicato in edizioni moderne dall’Istituto Nazionale Studi Verdiani.
  • Gli ultimi eredi del Maestro vivono tuttora in Villa Verdi a Sant’Agata e sono la famiglia Carrara Verdi.
Stemma del Regno d'Italia Parlamento Italiano
Senato del Regno d’Italia
Sen. Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Luogo nascita Roncole di Busseto (Parma)
Data nascita 10 ottobre 1813
Luogo morte Milano
Data morte 27 gennaio 1901
Titolo di studio
Professione compositore
Partito
Legislatura XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX
Gruppo
Coalizione
Circoscrizione
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Senatore a vita
Nomina
Data nomina 1874
Incarichi parlamentari
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Note

  1. ^ Fra questi, René Leibowitz, secondo il quale «è presente quel lirismo realistico che già fa presagire il verismo di certi successori di Verdi fin da La traviata» (René Leibowitz, Storia dell’Opera, Milano, Garzanti Ed., 1966, pag. 226 traduzione di Maria Galli De’ Furlani dall’originale francese dello stesso autore Histoire de l’Opéra, Ed. Bouchet/Chastel, Parigi 1957).
  2. ^ Unitamente, secondo Maria Zaniboni (cfr. Maria Zaniboni, Il genio e l’agricoltura vanno d’accordo, in Historia n.272, ottobre 1980) al desiderio di incalzante di «far soldi» per comprarsi una casa ed un podere. Egli «desiderava il denaro», scrive la Zaniboni, «per una caratteristica ragione contadinesca che tutti i contadini portano sempre dentro di sé: il sogno di avere un campo, una casa, un mulo ed, eventualmente, anche una moglie.
  3. ^ 350 «biolche» circa, con tutte le sementi, invernaglie, pali per le viti, quattro grandi botte di circa di circa 50 «brente», tine e la «gran macchina» del fiume Ongina per irrigare le ortaglie.
  4. ^ «il se lève presque avec le jour – scriveva ad un’amica Giuseppina Strepponi – pour aller examiner le blè, le mais, la vigne».
  5. ^ Inizialmente Verdi non nutriva molta stima in Wagner, come possiamo chiaramente constatare dal suo carteggio. In una lettera diretta ad un amico da Parigi (31 dicembre 1865) così scriveva: «Ho sentito anche la sinfonia del Tannhäuser. È matto!!!» (Verdi, lettere 1835-1900 a cura di Giuseppe Porzio, pag. 403, Milano, Mondadori, 2000) e qualche anno più tardi (19 novembre 1871) nell’esprimere un giudizio sul Lohengrin: «Impressione mediocre […] l’azione lenta come la parola. Quindi noia… (Verdi, lettere 1835-1900 a cura di Giuseppe Porzio, pag. 420, Milano, Arnoldo Mondadori Editore SpA, 2000). Con gli anni avrebbe mutato il proprio giudizio e alla morte di Wagner avrebbe pronunciato parole di sincero rammarico e profonda stima nei suoi confronti.
  6. ^ Il sito dell’Hotel contiene alcune immagini e una breve storia della presenza del Maestro presso quella dimora: Il sito
  7. ^ filmografia

Bibliografia

  • Abramo Basevi, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tipografia Tofani, 1859 (reprint Forni).
  • Carlo Gatti, Verdi, Milano, Alpes, 1931 (nuova edizione Milano, Mondadori, 1951).
  • Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, 1959 (4 voll.).
  • Frank Walker, The man Verdi, New York, Knopf 1962 (trad. it. L’uomo Verdi, Milano, Mursia, 1964).
  • Gabriele Baldini, Abitare la battaglia (a cura di Fedele d’Amico), Milano, Garzanti, 1970.
  • Julian Budden, The Operas of Verdi, Londra, Cassell, 1973-1981 (trad. it. Le opere di Verdi, 3 vol. Torino, EDT, 1985-1988).
  • Giampiero Tintori, Invito all’ascolto di Giuseppe Verdi , Milano, Mursia, 1983.
  • Massimo Mila, Verdi (a cura di Pietro Gelli), Milano, Rizzoli, 2000.
  • (DE) Christian Springer, Verdi und die Interpreten seiner Zeit, Holzhausen, Vienna 2000. ISBN 3-85493-029-1
  • (DE) Christian Springer, Verdi-Studien (Verdi in Wien / Hanslick versus Verdi / Verdi und Wagner / Zur Interpretation der Werke Verdis / Re Lear – Shakespeare bei Verdi), Edition Praesens, Vienna 2005. ISBN 3-7069-0292-3
  • Giovanni Cenzato, Itinerari Verdiani, Milano, Ceschina, 1955.

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10 otobre 1813 nasce Giuseppe Verdi, compositore italianoultima modifica: 2009-10-10T16:02:00+02:00da admin
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