L’esplosione dei tumori in un Paese da bonificare

Il rapporto del Ministero della Salute e Istituto superiore di Sanità incrocia i dati di mortalità, incidenza oncologica e ricoveri ospedalieri. Svelando l’ovvio: vicino alle bombe ambientali ammalarsi è più facile

di Michele Sasso L'esplosione dei tumori in un Paese da bonificare

I siti contaminati italiani provocano tumori mortali. E vanno bonificati il prima possibile. È la conclusione del progetto “Sentieri”, lo studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, un progetto finanziato dal Ministero della salute e coordinato dall’Istituto superiore di sanità.

Dai fumi di Taranto ai veleni della ex fabbrica chimica Caffaro di Brescia il rapporto aggiunge due parametri che raccontano il rischio per chi vive vicino a discariche, aree contaminate, ex zone industriali diventate bombe ambientali: i ricoveri ospedalieri e l’incidenza dei tumori.

Sotto osservazione il rischio dei cosiddetti “Sin”, i siti di interesse nazionale per la gravità dell’inquinamento.
Sono 18 le aree che necessitano bonifiche urgenti e nel rapporto vengono passate sotto la lente dei dati di mortalità, l’analisi dell’incidenza oncologica e i casi di ricovero in ospedale. Ovunque risultati preoccupanti.

PIU’ MALATTIE PER TUTTI
«Abbiamo fatto un passo un più con l’incrocio dei dati sanitari. Ogni sito ha una sua vita propria e anche malattie diverse» spiega Roberta Pirastu dell’Università di Roma, coordinatrice del progetto sentieri: «L’analisi, in aggiunta alla mortalità, dei dati riguardanti l’incidenza oncologica e i ricoveri ospedalieri è cruciale. Quando si ha a che fare con patologie ad alta sopravvivenza, infatti, lo studio della sola mortalità porterebbe a sottovalutarne l’impatto effettivo».

Si scopre quindi che per il tumore della tiroide in alcuni siti sono state rilevate vere esplosioni: a Brescia-Caffaro più 70 per cento per gli uomini e più 56 per le donne; nei Laghi di Mantova, dove il polo chimico-industriale si estende su 260 ettari di ciminiere e torce: più 74 per cento. E ancora alla raffineria della cittadina siciliana di Milazzo: un balzo del 40 per cento per le donne.

Sempre grazie alle analisi dell’incidenza oncologica e dei ricoverati, a Brescia-Caffaro sono stati osservati eccessi per quelle sedi tumorali che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro associa al melanoma o al tumore della mammella e per i linfomi non-Hodgkin con i pericolosi policlorobifenili, le sostanze prodotte qui e sversate nei terreni che hanno contaminato tutta la catena alimentare. L’incidenza di melanoma rivela un eccesso del 27 per cento tra gli uomini e del 19 per cento tra le donne, mentre i ricoveri ospedalieri per la medesima malattia fanno registrare un eccesso rispettivamente del 52 per cento e del 39 per cento.

INCUBO AMIANTO
Capitolo a parte per l’esposizione ad amianto subita dalle popolazioni residenti e che risulta evidente, per gli uomini, dai dati relativi al mesotelioma, il terribile cancro che colpisce i polmoni di chi ha respirato le microparticelle. Schizzano verso l’alto nei Sin siciliani di Biancavilla (Catania) e Priolo (a pochi chilometri da Siracusa), dove è documentata la presenza di asbesto e fibre asbestiformi.

Stessa sorte nelle aree portuali di Trieste, Taranto, Venezia e con attività industriali a prevalente vocazione chimica (Laguna di Grado e Marano, Priolo, Venezia) e siderurgica (Taranto, Terni, Trieste): un dato, questo, che conferma la diffusione dell’amianto nei siti contaminati anche al di là di quelli riconosciuti in base alla presenza di cave e fabbriche di eternit.

Dall’analisi del profilo di rischio oncologico risulta anche una maggiore incidenza di tumore del fegato in entrambi i generi riconducibile, in termini generali, a un diffuso rischio chimico nei pressi di ex industrie chimiche, raffinerie, acciaierie e discariche.

Ma non si tratta solo di tumori. Nel territorio del Basso bacino del fiume Chienti, nelle Marche, sono emersi eccessi per le patologie del sistema urinario, in particolare le insufficienze renali, che inducono a ipotizzare un ruolo causale dei solventi alogenati dell’industria calzaturiera.

A Porto Torres (Sassari) si registrano eccessi in ambedue i sessi e per tutti gli esiti considerati (mortalità, incidenza oncologica, ricoveri ospedalieri) per patologie come le malattie respiratorie e il tumore del polmone, per i quali si suggerisce un ruolo delle emissioni di raffinerie e poli petrolchimici. Stesse patologie rilevate a Taranto dove anni di emissioni degli stabilimenti metallurgici hanno inciso sui polmoni di chi vive a pochi centinaia di metri dalle ciminiere.

Questo è il quadro che emerge: un Paese da bonificare per abbassare il numero di uomini e donne che ogni anno si ammalano di tumore.

fonte

Non solo Taranto, ecco tutte le Ilva d’Italia Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento industriale

Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più “tossici” del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi, la seconda più grande del Paese dopo Civitavecchia.

Qui, al confine con il Salento, dal 2007 il sindaco ha indetto una ordinanza che vieta la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da molti anni i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto una inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. A contaminare i terreni, le colture, l’acqua e l’atmosfera, secondo la perizia affidata a Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, sarebbe la polvere del combustibile usato nella centrale. Stessa conclusione a cui è arrivato uno studio della Università del Salento e Arpa Puglia, che individua «la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile» come «fonte potenziale più probabile delle emissioni». Il processo partirà il prossimo 12 dicembre e la provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile.

Dopo Cerano, bisogna aspettare il 52esimo posto per trovare gli stabilimenti a rischio chiusura dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni (all’80esimo posto della lista Eea).

Alla 69esima posizione compaiono le Raffinerie Sarde Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. Si tratta della raffineria più grande d’Italia, con una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, ossia il 15% della capacità italiana di raffinazione. Una vera e propria città del petrolio addossata al paese di Sarroch, in cui molte case sono state costruite quasi a ridosso dei serbatoi. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro.

Non solo Saras. L’aria della Sardegna risulta altamente inquinata anche a causa della presenza della centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo (Sassari), nell’area industriale di Porto Torres, e della centrale “Grazie Deledda” di Portoscuso, nel Sulcis. Rispettivamente all’87esimo e al 186esimo posto della classifica Eea. Il Sulcis, nell’area di Portovesme, è un bacino che accoglie aziende diverse, dalla produzione di alluminio (Alcoa, Eurallumina), bitume e polistirolo, al trattamento dei gas e alla gestione di rifiuti speciali e mercantili. E, ciliegina sulla torta, c’è anche una miniera di carbone (Carbosulcis spa). «Non ci possono essere corsie preferenziali per le bonifiche ambientali: Porto Torres e il Sulcis sono nelle stesse condizioni dell’Ilva di Taranto e devono essere immediatamente avviate», ha dichiarato il deputato Pdl Mauro Pili nei giorni scorsi. «Bisogna ricorrere anche qui alla magistratura, rischiando di far crollare tutto il sistema industriale sardo?», si chiedono in tanti sull’isola.

Secondo il Wwf, nell’area industriale di Porto Torres «sono state scaricate acque reflue industriali in violazione dei limiti fissati dalla legge con conseguente inquinamento del suolo e immissione di sostanze cancerogene e altamente tossiche per l’ambiente e la fauna marini», generando «un gravissimo pericolo per la pubblica incolumità», con «l’incremento della mortalità per tumore polmonare, altre malattie respiratorie non tumorali, malformazioni alla nascita». In particolare, «nei pressi dell’insediamento petrolchimico è stata rinvenuta una lunga serie di contaminanti tra cui sostanze organiche clorurate, mercurio, solventi, diossine e pesticidi». E anche la salute del Sulcis sarebbe malata: secondo un dossier realizzato da TzdE “Energia e Ambiente”, solo nell’area di Portoscuso tra il 1997 e il 2003 siu sarebbe registrata un0incidenza del tumore ai polmoni superiore al 30% rispetto alla media regionale.

Non si salva neanche l’altra isola, la Sicilia, con il polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina). Queste aree sono state dichiarate «a elevato rischio ambientale» da uno studio dell’Istituo superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l’Iss, si ammalano soprattutto di «tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni».

È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per via dell’inquinamento prodotto dai fumi. «Questa mattina Civitavecchia sembrava la pianura padana e non per colpa della nebbia», ha dichiarato il primo cittadino nel corso della conferenza dei sindaci della Asl Rmf il 31 luglio scorso. «Quella polvere gialla che proviene dalla centrale Enel non possiamo più sopportarla». Ma Enel risponde che «tutti i controlli sulla funzionalità dei sistemi di monitoraggio delle emissioni sono stati effettuati da ditte specializzate, secondo le scadenze previste dall’autorizzazione integrata ambientale e sono state costantemente verificate dagli organi di controllo competenti».

Altra regione in cui sono state individuate numerose aree ad alto rischio ambientale è il Veneto. L’impianto termoelettrico Enel di Fusina è alla posizione 108 delle fabbriche pericolose segnalate dalla Eea, mentre la raffineria di Venezia-Porto Marghera dell’Eni è al posto 403. Senza dimenticare che nell’area industriale c’è un piccolo impianto dell’Ilva con un centinaio di dipendenti che rischiano di stare a casa se gli impianti di Taranto venissero chiusi. Nel 1994 la magistratura avviò un’indagine per il disastro del polo industriale: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi rifiuti tossici. E anche qui ora i politici locali alzano la mano e chiedono che non si pensi solo a Taranto e all’Ilva. La differenza è che a Venezia ci sono stati i «risarcimenti» delle aziende che hanno versato quasi 500 milioni di euro per l’inquinamento prodotto, a Taranto invece per l’Ilva lo Stato stanzia direttamente quasi 360 milioni per bonificare e ridurre l’impatto ambientale dello stabilimento.

Ecco la mappa delle area industriali inquinanti segnalate dalla Agenzia europea per l’ambiente. 

Visualizza Le Ilva d’Italia in una mappa di dimensioni maggiori

Bondi “Tumori a Taranto colpa di fumo e tabacco” poi la retromarcia

Lo scorso 27 giugno sul tavolo del Presidente della Regione Nichi Vendola, su quello dell’Arpa Puglia, dell’Ares Puglia e dell’Asl di Taranto, era arrivata la relazione con la quale il commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Bondi, già ex amministratore delegato dell’azienda (ergo, lampante caso di conflitto di interessi), aveva studiato i collegamenti tra inquinamento del siderurgico e i migliaia casi di tumore nella città di Taranto.

Secondo quanto riferito da Il Fatto Quotidiano e da La Gazzetta del Mezzogiorno, nella giornata di ieri, Bondi avrebbe escluso qualunque tipo di rapporto tra inquinamento e malattie affermando che “è erroneo e fuorviante attribuire gli eccessi di patologie croniche oggi a Taranto a esposizioni occupazionali e ambientali occorse negli ultimi due decenni”(Il Fatto quotidiano, 14/07). I decessi per tumore, nella città di Taranto, sempre secondo Bondi, sarebbero causati da altri fattori come il “Fumo di tabacco e alcol, nonché difficoltà nell’accesso a cure mediche e programmi di screening” poiché, continua l’ex commissario alla Revisione della Spesa del governo Monti, “è noto che a Taranto, città portuale, la disponibilità di sigarette era in passato più alta rispetto ad altre aree del Sud Italia dove per ragioni economiche il fumo di sigaretta era ridotto fino agli anni ’70″(Larepubblica.it, 14/07)

 

Le reazioni di medici, cittadini e associazioni tarantine, ça va sans dire, sono state furiose: “E i bambini morti di cancro? Anche loro fumavano?” chiede ironicamente l’ambientalista Alessandro Marescotti ed anche il ministro dell’ambiente Andrea Orlando ha convocato Enrico Bondi per saperne di più sulla questione.

 

Nella tarda mattinata di oggi, il commissario straordinario, ha però fatto marcia indietro rimangiandosi le dichiarazioni e sbugiardando la sua stessa relazione. “Non ho mai detto, né scritto che il tabacco fa più male delle emissioni dell’Ilva” ed ha affermato che “il piano di risanamento dell’azienda è già impegnativo e richiede un quadro di riferimento certo e, possibilmente, un clima di lavoro e di collaborazione fra tutti i livelli istituzionali, indispensabile per fare dell’Ilva di Taranto uno degli stabilimenti più rispettosi dell’ambiente d’Europa”.

Speriamo che Orlando risolva al più presto la questione, almeno nel rispetto dei cittadini tarantini che stanno vedendo ricostruire l’azienda da alcuni di coloro che avevano aiutato a distruggerla.

Giacomo Salvini

http://www.termometropolitico.it

Smaltire l’amianto – Intervista a Legambiente – Cose dell’altro Geo

A vent’anni dalla legge che lo ha messo al bando, l’amianto è ancora di attualità: dopo la storica sentenza delle vittime da Eternit di Casal Monferrato, se n’è riparlato anche per il caso dell’Ilva di Taranto, ma non solo. Massimiliano Ossini intervista Giorgio Zampetti, responsabile scientifico Legambiente
Le tematiche scientifiche sono suhttp://www.rai.tv/dl/portale/html/palinsesti/science&technology.html

IL CASO Neoplasie e malformazioni emergenza anche a Brindisi L’allarme degli esperti e ricercatori delle università di Bari e Lecce e del Cnr

Non solo Taranto. Un eccesso di neoplasie alla pleura nei maschi e di tumori alla laringe nelle donne residenti a Brindisi, una prevalenza di tumori polmonari tra le donne di Ceglie Messapica e di Torchiarolo, le malformazioni congenite nei neonati, un aumento dei livelli di inquinanti nell’aria. Ne hanno parlato ieri dinanzi alla commissione Ambiente della Regione, esperti e ricercatori delle università di Bari e Lecce e del Cnr.

Una settimana fa era stato ascoltato il primario del reparto di radioterapia dell’ospedale Perrino di Brindisi, Maurizio Portaluri, che è anche il responsabile dell’associazione Medicina democratica e che già aveva fornito elementi per nulla rassicuranti.

Ai consiglieri della commissione Ambiente sono stati presentati dati precisi sulle percentuali di tumori nel territorio brindisino e di malformazioni neonatali, soprattutto di tipo cardiaco. E’ emerso che in presenza di venti da est e da sudest, nel centro del capoluogo, si incrementano le concentrazioni di biossido di zolfo. Concentrazioni che, secondo gli studiosi, provengono dal porto e dalla zona industriale e si osservano significativi effetti sulla salute della popolazione. Nell’occhio del ciclone finisce pure la centrale a carbone di Cerano. Sempre secondo gli studiosi è necessario completare il quadro delle conoscenze prima di dare il via a qualsiasi progetto di risanamento.

http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/10/04/news/brindisi-43823398/

Ilva, ministero dell’ambiente parte civile

Clini: “Il ministero si costituirà parte civile nel processo mirato a individuare responsabilità per l’inquinamento”

Luca Romano

Taranto si registra un aumento della mortalità del 10% nel periodo 2003-2008.

 

Il dato emerge dallo studio “Sentieri” dell’Istituto Superiore di Sanità, che verrà presentato domani dal ministro della Salute Renato Balduzzi.

Il trend conferma le precedenti analisi, relative al periodo 1995-2002, che parlavano di un aumento di mortalità generale e per tumori che oscilla tra il 10 e il 15%, e un aumento del 30% in particolare per il tumore al polmone sia negli uomini sia nelle donne. Un aumento di oltre 50% di decessi permalattie respiratorie acute.

I dati riconoscono un nesso sospetto ma non accertato di causalità con le emissioni degli stabilimenti di Taranto, come quello dell’Ilva. La ricerca fa parte del progetto che ha studiato il profilo di mortalità delle popolazioni residenti nei siti di interesse nazionale per le bonifiche (circa 60 in Italia) misurando l’impatto sulla salute di quelli contaminati come appunto l’area di Taranto.

Intanto, “il ministero dell’Ambiente si costituirà parte civile nel processo mirato a individuare responsabilità per l’inquinamento di Taranto”. Ad affermarlo è stato il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini su twitter. 

E sul caso Ilva, i custodi giudiziari degli impianti dell’Ilva sequestrati hanno notificato all’azienda una direttiva con la quale ordinano di rifare completamente sei batterie delle cokerie degli altiforni, spegnere 6 torri e 2 altoforni, fermare l’acciaieria 1, adeguare l’acciaieria 2, e il rifacimento del reparto “Gestione materiali ferrosi”.

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

 Dal quotidiano on-line affaritaliani.it

 

Per 31 anni operaio all’Ilva: “Un inferno dantesco. I sindacati? Con Riva sono spariti”

Martedì, 21 agosto 2012 –

 

di Lorenzo Lamperti

Clini e il governo stanno facendo allarmismo. Cercano di metterci l’uno contro l’altro ma non attacca. Taranto non si beve più le loro bugie”. Francesco Maresca ha lavorato per 31 anni all’Ilva di Taranto, reparto parchi minerali. Insieme ad altri ex operai in pensione e a un tecnico di Legambiente sta lavorando a un documento (“Produrre acciaio pulito è possibile”) e racconta la sua esperienza in azienda ad Affaritaliani.it: “Non è vero che un altoforno si riaccende in otto mesi. Bastano tre settimane. Non inquinare è possibile, ma ci vuole la volontà a spendere soldi. I milioni di Ferrante e del governo? Una barzelletta. Se non si investe lo Stato espropri”.

Forte la critica ai sindacati: “Nel periodo della gestione pubblica era forte. Quando c’erano problemi per la sicurezza non si andava a lavorare. Con i Riva invece è stato lasciato tutto in mano all’azienda e nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente”. Sulla salute: “Non è mai stato fatto niente per tutelarla. Là dentro è un macello, quando si fanno le colate è un inferno“. E sulle istituzioni: “Siamo delusi da tutti, daVendola al governo. Fanno accordi, sono tutti contenti e poi cade tutto neldimenticatoio“.

Francesco Maresca, il ministro Passera ha detto che se si chiude l’area a caldo chiude tutto lo stabilimento. E’ davvero così?

L’argomento viene usato politicamente dai ministri che si esercitano a parlare dell’Ilva. Chiudendo l’area a caldo ci sarebbe bisogno di comprare acciaio altrove, e non credo che il patron Riva ne abbia l’intenzione. Per questo tecnicamente è vero: se si chiude l’area a caldo chiude l’Ilva. Ma solo perché l’azienda non vuole comprare altrove.

Il governo sostiene che far ripartire l’altoforno sia un’operazione molto lunga che richiede anche otto mesi. Addirittura si paventa l’ipotesi che sia una cosa “infattibile”. E’ davvero così?

No, sono sicuro che per riattivare un altoforno ci vogliano circa tre settimane. Bisogna considerare il problema dell’abbassamento delle temperature, è ovvio: se si spegnesse di colpo togliendo per intero il calore si spacca tutto. Se la temperatura viene abbassata gradualmente, invece, l’altoforno potrebbe ripartire in breve tempo.

Quindi è possibile risanare e tornare a produrre. Il limite a questa operazione è solo il costo per l’azienda, dunque?

Eh certo. Non si tratta solo di spendere per ammodernare e limitare le emissioni inquinanti ma anche di perdere produttività.

Non si potrebbe produrre “a moduli”, spegnendo per esempio un altoforno per volta e continuare a produrre con gli altri (l’Ilva ne ha cinque, ndr)?

Sì, questo è fattibile e di fatto avviene già. Quando un altoforno finisce la propria campagna si opera in questo modo. Ma il problema non sono solo gli altoforni. Il problema vero sta nelle cokerie, nell’agglomerato e nei parchi minerali.

Come si potrebbe intervenire su questi settori?

Insieme ad altri ex dipendenti e una ricercatrice che si occupa di temi di lavoro ho scoperto che esistono tecnologie in funzione da diversi anni che si chiamano Corex e Finex. Un sistema che saltando il processo di sinterizzazione abbatte drasticamente l’emissione di inquinanti. Si parla addirittura del 70 e dell’80%. Adottando questo sistema si risolverebbe il problema delle cokerie e dell’agglomerato. Resterebbe la questione dei parchi minerali.

Quindi produrre acciaio pulito è possibile?

Stiamo lavorando a una proposta organica per diversificare la produzione e far sì che questo sistema sia adottato in diversi stabilimenti. Perché non si dovrebbe produrre anche a Novi Ligure o a Genova? Si potrebbe ridurre il peso su Taranto, che attualmente produce con quattro altoforni dieci milioni di tonnellate di acciaio e, se si riutilizzasse anche il quinto altoforno, si arriverebbe a dodici tonnellate e mezzo.

Come se ne esce da questa vicenda?

Alla situazione attuale se ne esce male. Se i finanziamenti sono quelli di cui si è parlato finora stiamo freschi. Tra qualche settimana siamo a punto e a capo.

Non sono abbastanza dunque i 146 milioni di cui parla Ferrante?

Macché, e nemmeno i 336 del governo. Sono una barzelletta, con queste cifre non si combina niente.

E’ vero che dall’alto, anche dal governo, si sta cercando di mettere l’una contro l’altra due parti di Taranto, gli operai che difendono il loro posto di lavoro e chi invece vorrebbe vedere tutelata la propria salute?

Su questo ci si può mettere la firma. Stanno riproponendo vecchi schemi, vecchi modi di mettere calunnie in giro per screditare quelli più in vista. E’ una tecnica ormai consolidata che su chi conosce come funzionano queste cose non fa nessun effetto. Ma per i tanti giovani dell’Ilva che non hanno mai fatto politica o sindacato il rischio si fa più alto.

A proposito di sindacato, come giudica il suo operato?

Avrei preferito non dover rispondere a questa domanda. C’è da tener conto che tra Fiom, Fim e Uilm ci sono stati spesso contrasti e posizioni divergenti. Ricordo quando qualche anno fa licenziarono i due delegati della Fiom. Addirittura una parte del sindacato non solo non si schierò a favore dei due sindacati ma cercò di togliere l’acqua da sotto la barca isolandoli. La colpa dei due delegati? Fermare una siviera che faceva acqua e che poteva comportare gravi rischi per la sicurezza. Sulla questione dell’ambiente però non ci sono state differenze: Fim, Fiom e Uilm hanno tutti firmato gli accordi di programma che si sono succeduti nel corso degli anni. Si stanno differenziando più sulla vicenda dei magistrati che sul contenuto delle cose.

Parlando di magistratura, la città è davvero schierata con il gip Todisco?

Su questo non c’è dubbio, anche se secondo me stare in modo così pernicioso sulla Todisco non le fa bene. Lei sta solo facendo il suo lavoro, farne un santino del gip provoca danni soprattutto a lei.

Da molte parti si dice che il governo stia facendo pressione sulla magistratura. Lei è d’accordo?

Direi che per questo parlano le frasi dei ministri riportate anche dai giornali. Basta leggerle… Clini e il governo stanno facendo allarmismo perché hanno paura di perdere una così grossa produzione di acciaio. Ma su una parte della città le loro sparate non attecchiscono più. Anzi, in molti che erano dalla parte dell’azienda vedendo le falsità che vengono dette passano dall’altra parte.

Lei ha lavorato per 31 anni all’Ilva e ha visto sia la gestione pubblica sia la gestione privata. Nella tesi difensiva si dice che i morti e le malattie sono stati causati dalla gestione dello Stato e non da quella di Riva. Il Riesame però smentisce questa ricostruzione. Qual è la verità?

Le malattie che provoca il siderurgico si possono sviluppare in 3 o 4 anni come quelle asmatiche ma quelle tumorali sono di lungo periodo. Hanno uno sviluppo tra i 20 e i 30 anni. Oggi cominciamo a vedere che muoiono sempre più operai in pensione.

Sta dicendo che i veri effetti della produzione dei Riva si vedrà solo tra qualche anno?

Purtroppo sì. E la sensazione è molto negativa, perché non è mai stato fatto nulla per tutelare ambiente e salute. Anni fa, dopo che Sebastio gli ordinò di aumentare le ore di cottura del coke, Riva si rifiutò. Uno dei problemi delle cokerie, infatti, sono le ore di cottura: non producono solo benzoapirene, ci sono anche gli idrocarburi. Meno ore di cottura ci sono e più porcherie le cokerie buttano fuori. Basterebbe imporre di alzare le ore di cottura per ridimensionare le emissioni inquinanti.

Poi però ci sono anche le emissioni diffuse…

Quando scaricano il coke è un macello. La situazione diventa da inferno dantesco.

Lei lavorava nell’area dei parchi minerali, quindi una di quelle a rischio. I lavoratori non chiedevano mai all’azienda conto dei rischi che si correvano? E cosa vi veniva risposto?

Nel periodo della gestione pubblica e dei primissimi anni della gestione Riva c’era ancora la vecchia classe operaia. Quando le cose non funzionavano non si andava a lavorare. Finché non si metteva a posto non si lavorava. Molto spesso abbiamo bloccato i lavori dove c’era l’amianto. Si doveva litigare con i capi perché dicevano che non era amianto. Poi si chiamavano i tecnici, si facevano le analisi e veniva fuori che era amianto. Con i nuovi, i giovani hanno avuto vita più facile. Il sindacato ha lasciato fare all’azienda e con tutta la storia dei contratti di formazione e la paura che non fossero rinnovati nessuno ha avuto più il coraggio di dire niente.

Il Riesame, citando il caso della presunta “mazzetta” al professor Liberti, scrive che le pressioni dell’Ilva è una politica aziendale. Anche tra gli operai c’era questa sensazione?

Ma certo, figuriamoci. Un’azienda del genere quando si trova in difficoltà unge le ruote per farle girare. Sarebbe sciocco credere il contrario.

Il governatore Vendola ha fatto dell’ambiente una propria bandiera. Come giudica il suo operato sulla vicenda Ilva?

Noi siamo delusi da tutte le istituzioni locali. Ogni volta che c’è un accordo sono tutti soddisfatti ma mai una volta che si vada a verificare che gli accordi siano messi in atto. Nel 2005, per esempio, erano stati stanziati 55 milioni per bonificare i Tamburi. Poi però sono stati usati altrove. I politici sono sempre tutti contenti, ma alla fine non c’è mai nessun risultato. Vendola ha fatto qualcosa per la diossina, ma il problema sono i controlli. Non li puoi fare tre volte all’anno perché poi quello che succede negli intervalli di tempo non lo puoi sapere. E intanto intorno all’Ilva la città cade a pezzi…

Ferrante può portare i cambiamenti che servono?

Finora non vedo molti elementi positivi, però staremo a vedere e cercheremo di conoscerlo un po’ meglio. Teniamo conto che Ferrante, come tutti quelli che vanno mandati avanti dai proprietari effettivi, fanno quello che gli viene detto dall’alto.

La storia rischia di chiudersi come le altre volte? Un accordo di facciata che faccia contenti tutti e poi non cambia nulla?

Il potere gioca sul tempo. Se il movimento di protesta che si è creato non dovesse raggiungere qualche risultato in breve tempo tutto cadrà di nuovo nel dimenticatoio. Taranto è una città disgraziata che vive di sobbalzi. Adesso c’è un sobbalzo: speriamo che duri, perché poi quando arriva la disillusione è un problema. Ora c’è una parte di città che è più attenta. Bisogna insistere su questa e non perdere lo slancio, altrimenti sarà stato di nuovo tutto inutile.

E’ possibile che Riva lasci Taranto?

Secondo me non la lascerà mai. Non gli conviene, l’azienda va bene e produce profitto anche in un momento di crisi come questo. Il problema sono i soldi necessari ad ambientalizzare. Se Riva non li vuole mettere, lo Stato faccia l’esproprio dello stabilimento e si ritorni alla gestione pubblica.

http://www.comitatodifesasalutessg.com/

Per il Tribunale del Riesame l’Ilva sapeva di inquinare

Il dispositivo depositato dai giudici: “Produzione potrà continuare solo se resa ecocompatibile”. Clini: ‘lavoriamo nella stessa direzione’

Per il Tribunale del Riesame l'Ilva sapeva di inquinare
Taranto, 20 ago. (TMNews) – Per i giudici del Riesame non ci sono dubbi sulle responsabilità dell’inquinamento ambientale dell’area dello stabilimento dell’Ilva di Taranto, determinato nel corso degli anni “attraverso una costante e reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti” dell’Ilva. I giudici del Riesame di Taranto, Morelli, Ruberto e Romano, nel confermare il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo dello stabilimento tarantino a cui sono stati posti i sigilli lo scorso 25 luglio, hanno ribadito anche gli accertamenti svolti sulla qualità dell’aria, del suolo e dei reparti animali, dai periti del gip durante l’incidente probatorio. Nel provvedimento, composto di 123 pagine, non ci sono dubbi sulle responsabilità di questo disastro “determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante e reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”. Così come sono adesso, gli impianti sequestrati, sono pericolosi e necessitano di lavori di adeguamento. E’ dunque confermato il sequestro senza facoltà d’uso per gli impianti Ilva di Taranto, con la possibilità affidata ai custodi giudiziari di fermare gli impianti. Fra le 123 pagine di motivazioni, un capitolo è dedicato alle esigenze cautelari degli otto indagati. I giudici tarantini chiamati a rivedere l’ordinanza di arresto ai domiciliari per Emilio e Fabio Riva, per il direttore dello stabilimento Capogrosso e per cinque dirigenti delle aree sequestrate, confermano l’arresto dei primi tre ed il pericolo di reiterazione dei reati e di inquinamento delle prove e ribadiscono “la spiccata pervicacia, spregiudicatezza e capacità a delinquere di cui i Riva ed il Capogrosso, quali organi di vertice della società che gestisce lo stabilimento, hanno dato prova, persistendo nelle condotte delittuose nonostante la consapevolezza della gravissima offensività, per la comunità cittadina ed i lavoratori, delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali”. “La strada indicata dal Tribunale del riesame è convergente con quella del governo. Lavoriamo nella stessa direzione, ora spetta all’Ilva investire”. Così il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha commentato a margine del Meeting di Comune e liberazione a Rimini l’interpretazione del Tribunale del riesame. Difendere l’ambiente non vuol dire bloccare lo stabilimento dell’Ilva di Taranto. Questo aprirebbe la strada a “fenomeni sociali che sarebbero drammatici”, ha aggiunto il ministro. Int

Prevenzione ed ecosostenibilità sono sottovalutate dagli italiani che ancora non sanno se schierarsi a difesa della natura

Negli anni Settanta vi furono i casi dell’IPCA di Ciriè, fabbrica di colori dove l’anilina provocava tumori alla vescica, e dell’ICMESA, dalla quale fuoriuscì diossina in quello che è ricordato come il disastro di Seveso (a dire il vero, preannunciato da avvisaglie rimaste senza seguito) cui dovette seguire una bonifica ambientale durata oltre 10 anni. Del febbraio scorso è la sentenza di condanna per i due manager dell’Eternit, ai quali il tribunale di Torino ha contestato più di duemila morti per tumori causati dall’amianto. A fine settimana è esploso il caso Ilva di Taranto, sigillata per disastro ambientale, e con esso la contraddizione fra tutela dell’ambiente e della salute, da una parte, e tutela dei posti di lavoro dall’altra. Una contraddizione insensata eppure drammaticamente inevitabile in tempi di crisi di crisi economica e occupazionale, ma soprattutto di confusione rispetto ai valori. L’antropologo Clyde Kluckhohn scriveva che il “valore” è la concezione del desiderabile, che influenza l’azione con la selezione fra modi, mezzi e fini disponibili. Prevenzione ed ecosostenibilità sono, per nostra miopia, relegati al ruolo di accessori di lusso anziché di opportunità di crescita. Se non sappiamo da quale parte schierarci, le istituzioni ce la mettono tutta per confonderci ancora di più: da ultimo il Consiglio di Stato, che ha sospeso “cautelativamente” il provvedimento che cercava di liberare il centro di Milano dalla congestione del traffico e dall’inquinamento.