Al via la campagna di comunicazione “Chi non fuma sta una favola!”

Frassica e attrice nel ruolo della nonna di Cappuccetto rossoDa oggi prende il via la nuova campagna di comunicazione del Ministero della Salute contro il tabagismo.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, nel 2017, i fumatori, in Italia, sono 11,7 milioni, vale a dire il 22,3% della popolazione. Tra questi è aumentato il numero delle donne, che da 4,6 milioni del 2016 sono salite a 5,7 milioni. Si tratta della differenza minima mai riscontrata tra fumatori uomini (23,9%) e donne (20,8%). Il 12,2% dei fumatori, inoltre, ha iniziato a fumare prima dei 15 anni.

A fronte di questi dati, il Ministero ribadisce il suo impegno istituzionale contro il fumo e si rivolge direttamente ai fumatori invitandoli a riflettere per provare a modificare un comportamento dannoso per la propria salute.

Il claim di campagna “Chi non fuma sta una favola!” sintetizza efficacemente il messaggio di prevenzione che si intende veicolare.

Considerati gli ottimi risultati di visibilità e gradimento ottenuti dalla campagna 2015/2016 il Ministero ha deciso di puntare sullo stesso testimonial l’attore Nino Frassica che, da convinto non fumatore, ha deciso di porre il suo estro creativo e la sua popolarità al servizio della prevenzione.

Frassica, con la sua originale ironia rivolge ai fumatori un messaggio diretto e chiaro: smetti di fumare perché “il fumo è la prima causa dei tumori!”.

Nei nuovi “episodi” della campagna 2018 il Professor Nino Frassica è uno stralunato psicanalista che ha come pazienti i “cattivi” delle fiabe: Grimilde la matrigna di Biancaneve e il Lupo Cattivo di Cappuccetto Rosso, entrambi fumatori, che daranno una svolta salutista alla loro vita smettendo di fumare.

La campagna prevede la messa in onda di due spot video e due spot radiofonici (della durata di 30”). Oltre alla programmazione televisiva gli spot saranno presenti sul sito del Ministero della salute www.salute.gov.it e sui canali social.

In particolare, per lo Spot TV, a far data dal 10 gennaio, è prevista una diffusione sulle principali emittenti televisive nazionali: RAI (in collaborazione con il Dipartimento dell’informazione ed Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri), Canale 5, Italia1 e Rete 4.

Anche per gli spot radiofonici è prevista una diffusione sulle principali emittenti nazionali (RAI uno, RAI due e RAI tre, RTL102,5 –RDS 100% grandi successi – Radio Deejay – Radio 105 – Radio Italia Solo Musica Italiana).

Fonte: Comunicato stampa ministero della Salute

Per approfondire:

Laringectomia totale: Consigli dopo la terapia

In tutti i casi in cui il tumore laringeo è circoscritto, le possibilità di guarigione sono molto buone e nella maggior parte dei casi è possibile conservare integralmente o parzialmente la laringe, senza la perdita totale delle sue funzioni.
Oggi anche in casi di tumore più esteso si può ottenere la guarigione senza il sacrificio della laringe grazie a più efficaci protocolli di radiochemioterapia. Nei casi in cui non si riesca a raggiungere la guarigione, la chirurgia può essere accompagnata da ottime possibilità di cura anche se con unaguarigione della ferita più lunga e complessa. 

Dopo le terapie effettuate è molto importante che il paziente si sottoponga ai controlli periodici con visite cliniche e gli esami che di volta in volta gli saranno richiesti.
I controlli periodici si protrarranno per almeno cinque anni, che rappresentano  il periodo di rischio per il paziente, ma possono anche essere proseguiti più a lungo; sussiste, infatti, la possibilità che nel distretto della testa e del collo o in altra sede possa svilupparsi un’altra neoplasia, che così può essere prontamente diagnosticata in stadi più limitati.

È importante comunque che il paziente sia il primo medico di sé stesso sorvegliando attivamente il proprio stato di salute e rivolgendosi al medico di famiglia o agli specialisti che lo hanno curato, tutte le volte che si accorga di nuovi sintomi.
È assolutamente sconsigliato riprendere a fumare.  

http://www.aimac.it

SOLO FUMO – cronaca di un tumore alla laringe

SOLO FUMO – cronaca di un tumore alla laringe

Pubblicato da Barabba il Ven, 05/07/2013 – 15:40

Mi chiamo Salvatore Pioggia, da poco ho compiuto cinquantanove anni, vivo in uno sperduto paese di montagna della Sicilia, e sono professore di lingua e letteratura francese in un liceo, insieme classico e scientifico, con due sole sezioni in tutto.

Ragazzi pochi, ogni anno sempre meno. E quei pochi che frequentano sanno di essere dei condannati e che, alla fine del loro ciclo di studi, dovranno andare via. Perciò si comportano come degli ospiti in casa loro, o dei condannati in attesa dell’esecuzione della pena.

Io gli assomiglio. Ma la mia pena è diversa dalla loro.

È la morte.

Quella vera. Quella della carne, quella greve del sangue, del respiro che cessa, dell’aria che non agita più i polmoni.

Io devo morire.

E non perché tutti noi, prima o poi, dobbiamo morire, ma perché i dottori mi hanno fatto capire che forse potrò superare l’estate, ma di sicuro non arrivare a Natale.

Forse due mesi, o cinque, non di più.

Come se due o tre mesi di vita meritassero solo un forse, fossero un niente.


Ho scoperto di avere un tumore tre anni fa.

Tossivo… tossivo in continuazione, ma era inverno. E nel nostro bucolico angolo di paradiso d’inverno fa un freddo cane, con la neve che rimane a terra per mesi. E casa mia è talmente vecchia e malmessa che è impossibile riscaldarla decentemente, nonostante quelle maledette stufe a gas rimangano accese giorno e notte. Ma questa è un’altra storia, troppo lunga da raccontare, e forse troppo complicata per interessare qualcuno.

Quasi dimenticavo, io fumavo settanta sigarette al giorno.

I medici del nostro piccolo ospedale eternamente minacciato di chiusura, dopo ogni visita, usavano tutta la loro scienza per tranquillizzarmi: «È solo una brutta bronchite. Perché lei, caro professore, fuma troppo.»

Decine d’anni di studio avevano partorito l’ovvio.

E pur durando ininterrotta per tre mesi, per loro la tosse rimaneva bronchite, lenti come pecore a cambiar idea.

A primavera inoltrata, consumate inutilmente tutte le scatole di antibiotici e sciroppi che avrebbero dovuto guarirmi, mi ero stufato della loro incurabile bronchite e della mia tosse secca e incessante. Decisi di andare in città, a cercarmi una nuova malattia, a farmi visitare da un luminare, un otorinolaringoiatra professore universitario, figlio e nipote di luminari professori universitari come lui.

E al mio luminare bastò sapere che ne fumavo settanta al giorno, infilare uno specchietto dentro la mia bocca spalancata, odorante di catrame e tabacco, per andare oltre l’ovvio e chiedermi: «Ma davvero nessuno glielo ha ancora detto?»

«Detto cosa?» risposi irritato. «Che ho la bronchite?»

Mi fissò con i suoi occhi inespressivi, allenati da chissà quante altre volte uguali alla mia: «No, che ha un tumore alla laringe. Un brutto tumore, a una prima occhiata.»

Cominciò in quel momento la mia lunga salita al monte Calvario.

Perché forse, pensandoci adesso, sarebbe stato meglio rimanere con la mia bronchite, e morire di una onesta, innocua, bronchite, piuttosto che affrontare tre anni di operazioni e dolore, radioterapie e dolore, chemioterapie e ancora dolore, e umiliazioni senza fine inflitte al mio povero corpo e alla mia dignità.

Ferite inferte non solo a me personalmente, ma anche a mia moglie e alle mie figlie.


Mia moglie l’ho conosciuta all’università, a Catania, alla fine degli anni Sessanta.

Allora sembrava che tutto dovesse migliorare, e la speranza aveva un pubblico più vasto, e convinto, di quanto non sia adesso e, seppure tra mille tentativi di soffocarle, le nuove idee germogliavano anche nella mia Sicilia mummificata dalla storia. Ho attraversato quegli anni con ardore, pieno di fiducia nel futuro, spinto dal desiderio di migliorare… ma forse anche questa è solo un’illusione, e noi eravamo soltanto giovani.

Prima di andare all’università ho lavorato per qualche anno in Francia, a Parigi, in una tipografia che stampava, per varie case editrici, le opere di Sartre e Malraux, Camus e Celine, e ristampava i versi di Lautréamont, Baudelaire, Verlaine, Eluard, in versioni economiche.

Figlio di pescatori, con appena la terza media, attraverso quel lavoro fatto di carta e inchiostro, sudore e rotative, mi sono avvicinato alla parola scritta, e ho divorato un libro dietro l’altro; mi sono convinto che la parola scritta avrebbe potuto aprirmi le porte del presente. Ho letto in francese, che ho imparato a conoscere e scrivere meglio dell’italiano, e ho cominciato a scrivere le mie prime rime, in siciliano e in francese. E una sera d’estate, lungo la Rive Gauche, ascoltando i miei versi, una Marianne d’Algeria s’innamorò di me. Forse la mia pelle olivastra e i miei occhi mediterranei le ricordavano i colori della sua terra. Forse le mie parole, che odoravano di salmastro e sapevano di vento, riuscirono ad arginare la sua nostalgia. Ancor oggi non lo so. Ma so che furono anni sereni, ambiziosi, costruttivi, anni colmi di speranza. Lavoravo e la sera studiavo; presi un diploma tecnico. Insieme a lei mi trasferii in Germania, lavoravamo in una fabbrica d’auto della Volkswagen, le migliori paghe d’Europa: non ho mai faticato tanto in vita mia. Lavoravamo lì entrambi, e avevamo sorrisi, abbracci, noi avevamo futuro. Poi, proprio una Volkswagen, una sera, la mia Marianne se la portò via, in una strada di Wolfsburg, all’uscita dal turno.

Qualcosa mi si spense dentro, e anche le luci, fuori, si affievolirono. Ogni cosa mi ricordava lei. Tornai in Sicilia, mi iscrissi alla facoltà di lingue e letterature straniere. Negli anni dell’università conobbi Maria. Lei colmò quel vuoto. Che mi stava facendo morire, che mi stava distruggendo, che mi aveva aperto le porte di un mondo oscuro. Maria era una ragazza di paese, ingenua e spensierata, cresciuta in un mondo che non esisteva fuori dalle mura di casa sua. Questo mondo artificiale era la sua principale risorsa e, in quel momento, lo fu anche per me, ma quel microcosmo, popolato unicamente da sogni e fantasie, era anche la sua più grande debolezza.

Dopo la laurea partii nuovamente per il Nord, con un incarico a tempo per insegnare in un istituto di una piccola cittadina della Valtellina. Tra le montagne, in quella solitudine ritrovata, recuperai tutta la perduta serenità, anche se non mancarono le difficoltà, la diffidenza della gente nei miei confronti. Maria, invece, l’avevo dimenticata, ma lei non aveva dimenticato me. E proprio lei mi venne a cercare, dopo quasi un anno di separazione, e fece di tutto per riportarmi indietro, cosa che le riuscì più per la mia inerzia che per la mia buona volontà.

Ma allora quella decisione non presa era un compromesso comodo anche per me. Ci sposammo, Maria ci mise la grande e fredda casa in cui ancor oggi viviamo, io il mio stipendio: la soluzione più facile.

Nacquero i nostri quattro figli, uno dopo l’altro, tre femmine e un maschio. Che morì dopo un anno, per una malattia curata male nel nostro minuscolo ospedale di montagna. Ancora una volta l’oscurità mi avvolse: depressione, la definì in fretta uno psichiatra che avevo deciso di consultare, e mi prescrisse una serie di farmaci dai nomi stravaganti e dai colori sgargianti. Quel giorno Maria non volle neanche accompagnarmi, e rimase in macchina. Non voleva prendere atto della realtà: che io avevo qualcosa che non andava, che mi stava facendo morire dentro. Quando la vita le metteva davanti una cosa che non capiva, o che non sapeva affrontare, o che riteneva anche solo disdicevole, lei si voltava dall’altra parte o, semplicemente, fuggiva.

Non mi domandò nulla della seduta, ma quando acquistai i farmaci, in un paese distante per l’occhio della gente, lei si tranquillizzò. La presenza di quelle pillole, di quelle scatole con sopra indicate molecole e composti chimici, rendeva meno strana, quasi legittima, la mia ‘depressione’, degradandola al rango di una normale malattia, e sollevando il mio stato a un livello di ordinaria sofferenza. Da quel giorno iniziò anche la mia dipendenza, ma anche questa è un’altra storia, troppo lunga da raccontare, forse troppo complicata da comprendere.


Un tumore non è faccenda da poco, perché subito ti pone dinanzi a delle scelte.

Scelte da cui dipende la tua vita e quella di chi ti sta vicino.

Come se stesse informandomi dell’esistenza di un’innocua cisti, il luminare professore, figlio e nipote di chiarissimi professori, con fare sereno e volto sorridente, quello stesso giorno in cui mi visitò, mi comunicò che l’operazione era necessaria.

«Devo asportare il prima possibile tutta la massa tumorale,» mi spiegò. «Forse siamo ancora in tempo.»

«In tempo per cosa?» chiesi candidamente.

«In tempo per salvarle le corde vocali,» disse, come se per me fosse stato tutto chiaro.

Non avevo mai pensato alla mia voce. Cioè, au contraire, alla possibilità di perdere la voce. E l’idea non è che mi spaventasse, semplicemente non riuscivo a concepirla, così, su due piedi.

Un solo pensiero mi venne in mente.

«Sono un insegnante,» eccepii. «Come farò? Non potrò più fare lezione ai miei ragazzi…»

«Naturalmente dobbiamo fare una TAC,» mi rasserenò il chiarissimo professore, e tutta la sua calma era suggerita dal volto gioviale. Mi sorrise e continuò. «Ma sono sicuro di salvargliele le sue preziose corde vocali. Si tratta solo di una remota possibilità,» mi confortò e, con scrupolosa sollecitudine, due infermieri mi condussero a fare le mie analisi, ad aspettare il responso dell’oracolo tecnologico. «Si ritenga fortunato,» m’informò il radiologo, «non risultano metastasi, soprattutto ai polmoni, come temevamo. Il male è circoscritto.»

Quella sera tornammo a casa con la promessa di un veloce intervento che avrebbe cancellato per sempre quell’orribile parola dal suono sanguigno e fumoso: tumore. Rassicurati dalle garanzie dell’illustre luminare, quella sera cenammo come se non fosse successo nulla, come se tutto stesse andando nel migliore dei modi. Il lunedì successivo mi ricoverai e iniziai gli esami propedeutici per l’intervento; ridevo e sdrammatizzavo, mi rivolgevo a tutti con allegria, e osservavo con distacco e pena i compagni di camera i quali, mesti e silenziosi, mi sfilavano dinanzi. Eppure avrei dovuto capirlo già da quelle grida mute, da quelle voragini sulla gola mostruosamente esibite, che nulla è facile come pare.

La mattina seguente, prima dell’intervento, il chiarissimo professore mi venne a trovare «Devo chiederle l’autorizzazione scritta a un’eventuale asportazione delle corde vocali, nella malaugurata ipotesi in cui si renda necessaria.»

«Come?» obiettai stupito. «Neanche quattro giorni fa mi ha assicurato che non avrei perso la voce!»

«Non la perderà, non la perderà,» mi blandì il luminare. «Ma nella malaugurata ipotesi in cui trovassi qualcosa che la TAC non ci ha mostrato… vuole che la svegliamo durante l’intervento per chiederle il consenso?»

Titubante, nudo sotto una corta tunica di tessuto leggero, impotente, fornii loro quello che volevano: il mio doloroso, consapevole, assenso. Non dico che mi fu estorto, sono un uomo adulto, che diamine! Ma perché chiedermelo quella mattina, in un momento tanto delicato? Cercai di non pensarci e mi feci forza, diedi coraggio a chi era accanto a me… dopotutto ero nelle sapienti mani di un luminare figlio e nipote di luminari.

Quando mi svegliai vidi la mia primogenita piangere accanto a me. Sbirciai intorno, mia moglie si avvicinò. Mi accorsi che delle cannule uscivano dal mio collo ed erano collegate a un arcano congegno meccanico: tentai di gridare, ma non ci riuscii, poi tentai di respirare, invano. Cominciai ad agitarmi, poi di nuovo il sonno, per un giorno o forse due.

Mi dissero, quando mi ripresi, che era normale. Ma quando ti trovi in ospedale ti dicono sempre che è normale, qualunque cosa accada. Mi spiegarono che il risveglio da un intervento di tracheotomia e asportazione della laringe e delle corde vocali è sempre traumatico, e che per questo sedano i pazienti fino a che non prendono coscienza della loro nuova condizione: di invalidi, di muti.

«Pensa se ti fosse toccato agli occhi,» mi avrebbe consolato alcuni giorni dopo un mio collega. Già, avrei pensato io, vuoi vedere che sono pure fortunato.

«Il tumore era più esteso del previsto. Abbiamo dovuto intervenire per evitare metastasi,» si giustificò il chiarissimo professore, senza smettere la sua maschera di ottimismo e cordialità.

«Capisco,» dissi, in vena di gratuite assoluzioni, ma le labbra si mossero a vuoto, e la voce non uscì.

Non l’avevo più la mia voce, e anche respirare era diventata una faccenda nuova, tutta da imparare. L’aria non passava più dal naso, dalla bocca, per finire giù nei polmoni, calda e depurata, ma transitava da quell’orrenda caverna rossastra posta al centro del mio collo. Era fredda e sporca, e spesso mi faceva tossire, perché a nulla era impedito di entrar dentro. E infine mi accorsi che, proprio in virtù di questo nuovo orifizio, quelli vecchi avevano perso le loro funzioni. L’olfatto era quasi scomparso. Non riuscivo più a sentire gli odori, e anche il palato mi pareva non trasmettere alcun gusto, e col tempo la situazione non migliorò. E poi… piangevano tutti, le mie figlie, mia moglie, i generi, i colleghi.

Non capivo se piangevano per me o per loro, perché da quel momento avrebbero dovuto avere a che fare con un invalido, un uomo dimezzato, un uomo senza voce e senza sapore.

E io stavo lì, a rassicurare tutti, ancora ignorante e incapace di piangere me stesso.

Quando tornai a casa cominciò la triste e insensata processione di amici, parenti e conoscenti, tutt’insieme dolenti al mio capezzale. Per consolarmi c’era chi diceva che, in fondo, la maggior parte delle parole sono vane, un altro aggiungeva che la vita vale più di mille parole, e amenità del genere, assurdità dettate non dalla circostanza, ma dalla stupidità di chi le racconta. Avevo bisogno di ben altro in quel momento. Avevo bisogno di certezze, di spiegazioni… di ragioni. Ma nessuno seppe dirmi niente di sensato… non c’è alcuna ragione, alcuna spiegazione, alcun motivo, dietro quanto mi è accaduto, a parte le mie settanta sigarette al giorno.

E c’erano le mie tre figlie, grandi, adulte: tutt’e tre all’università, ancora lontane dalla laurea, da una sistemazione, da un matrimonio, può darsi anche dalla vita. Nei loro occhi nessuna speranza, ma rassegnazione, nessun futuro, ma solo un infinito presente che sembra non dover passare mai. Quella luce che mi animava da giovane, che mi ha permesso di costruire una vita mia, in loro era come se non si fosse mai accesa. Mi sono chiesto spesso, in questi anni, se fosse colpa mia questa loro fragilità, questa loro inadeguatezza di fronte alla vita.

Marianna piangeva in silenzio, sola, senza quel codardo del fidanzato che, invece di darle coraggio e conforto, dopo l’operazione, non appena mi ha visto, è svenuto, mi hanno raccontato alcune anime belle. E non si è fatto più vedere in ospedale, e anche dopo, a casa, ha continuato a fuggire, a salutare da lontano, con quella mano molle e sudaticcia, incapace anche solo di affrontare la presenza fisica della mia menomazione.

«È tanto sensibile,» lo ha giustificato la mia Marianna.

No… è solo un vigliacco, figlia mia.

Marianna è la mia secondogenita. La mia preferita, la luce dei miei occhi. Sempre allegra, sorridente, sempre pronta ad aiutare. Ma ha un animo fragile, inquieto, e troppo facilmente si arrende alla vita. Ho voluto che portasse il nome della mia amata Marianne. Una debolezza, lo confesso. Ho voluto che Marianne fosse sempre qui con me, e Marianna non mi ha lasciato mai, mi ha vegliato, accudito in silenzio, mentre mia moglie si è comportata all’opposto, tanto che pareva esser lei la figlia, la bambina bisognosa di aiuto e conferme, e non la madre che è. Non ha mai accettato la realtà, Maria. Subito mi ha gridato tutta la sua rabbia, il suo dolore, la sua impotenza, ho letto nei suoi occhi il desiderio di fuggire, di lasciarmi, e so che è rimasta solo perché è troppo debole per farlo e affrontarne le conseguenze. Il mondo irreale in cui è stata svezzata e cresciuta non sopporta di fare i conti con la vita concreta.

Se ho deciso di resistere, e di essere l’uomo forte che non sono, l’ho fatto per le mie figlie, soprattutto per Marianna: conosco la sua sofferenza, so che quell’idiota le ha rubato un bambino. L’ho letto nel suo diario, lasciato un giorno aperto forse proprio perché io leggessi e fossi parte del suo segreto. Ho l’animo nero. L’ho solo abbracciata e stretta forte, e lei ha capito. Non sono stato capace di dirle niente, di fare niente. Che padre sono? Che uomo sono? Sono anch’io un pusillanime, un cialtrone? Ma cosa può dire un uomo a una figlia che ha rinunciato, di nascosto alla sua famiglia, a esser madre? Per paura, per vergogna, per colpa mia. Perché non ho saputo esser io padre, esser io l’ormeggio sicuro della sua anima dolente, essere io il faro che segna la giusta rotta. E anche adesso, nel consapevole intento di autoassolvermi, ritengo che il mio silenzio sia l’estremo tentativo di tenere unita la famiglia, seppure nella menzogna e nell’oblio.

Ti amo, figlia mia, e spero che, alla fine, quest’uomo imbelle qual io sono ti possa esser d’aiuto e d’esempio, in un modo che ancora non ho imparato.

Ho iniziato la radioterapia un mese dopo la fine dell’operazione.

È stato un mese orribile, mi esprimevo a gesti, con dei foglietti legati al collo su cui scrivevo, in fretta, i miei pensieri, distribuendoli ai miei interlocutori: infermieri impazienti , dottori scontrosi e distratti, le mie figlie sempre più avvilite. Io, che ho sempre sottovalutato il dono della voce; io, che ho sempre pensato che solo la parola scritta potesse compiutamente esprimere i miei pensieri; io, che incoraggiavo i miei alunni a dire per iscritto piuttosto che a parlare; io, mi sono ritrovato a scrivere, e a non essere inteso. Non è questa una sorta di contrappasso? La parola scritta non può sostituire il dialogo, perché scrivere e parlare sono due esperienze inconciliabili, con funzioni diverse spesso tra loro infungibili. Mi hanno detto di provare la logopedia, ma mi sembrava una sofferenza inutile anche quella, e poi, per frequentare un logopedista, avrei dovuto prendere casa a Messina, o a Palermo. Troppi soldi, e troppe poche risorse per una voce che comunque non avrei avuto mai più.

La seduta di radioterapia dura solo qualche minuto.

Sto seduto solo, con un pesante camice di piombo a proteggere il resto del corpo, e tutti escono fuori, al sicuro; e nel frattempo la mia gola viene bombardata da un cannone radioattivo. Proprio così, un cannone. Oncologi e radiologi mi hanno spiegato che serve a uccidere le eventuali cellule tumorali non asportate con l’intervento.

«Mi avevate assicurato di averlo estirpato interamente,» dissi spazientito, al luminare di turno, al momento della visita.

Mi guardò come si guardano gli illusi: «Qualcosa può sempre sfuggire, ma è per la sua sicurezza, mi creda.»

Quante volte li sentirò rassicurarmi con queste parole incoraggianti, con queste azioni volte sempre al mio benessere?

«Ma le radiazioni non uccidono anche le cellule sane?» chiesi io, ingenuo, porgendogli il mio biglietto.

«Certo, anzi le uccidono per prime, perché sono le più deboli. Ma è un rischio che vale la pena correre, no?»

«Certo, è un rischio che debbo correre. Uccidere ciò che è sano nella speranza di metter fine al male.»

E il mio pensiero, per un riflesso incondizionato, andò a tutti quei massacri d’innocenti eseguiti col solo scopo di debellare il male.

Il risultato di questo rischio irrinunciabile fu che la gola diventò prima rosa, poi rossa, poi livida, infine quasi nera. Per un mese mi bombardarono con le radiazioni. Sanguinavo di frequente, prendevo antiemetici, antistaminici, cortisone, e non ricordo bene cos’altro. Anche il mio buco nero era sporco di sangue, infetto da muco vermiglio… cominciavo a intuire le sofferenze del Cristo in croce.

La mia primogenita è stata con me questo mese, insieme al fidanzato. Abbiamo affittato una casa a Messina per effettuare la radioterapia. Impossibile fare su e giù ogni giorno dal nostro bel paesino di montagna.

Letizia è diversa dalla sorella, è meno solare, meno contenta della vita, è più arrabbiata, ma forse più pronta a scommettere su se stessa. Fin da piccola è stata una bambina particolare. Rifiutava il mondo esterno alle mura domestiche, e si rinchiudeva in se stessa, raccontava di avere delle visioni, di parlare con i morti, persino di essere in contatto con il diavolo. E poi aveva terribili crisi isteriche che, mi venne chiarito dopo, non erano altro che attacchi d’ansia, o, nei casi peggiori, di panico. Iniziai a portarla con me dal mio psichiatra, all’insaputa della madre. La scusa era una passeggiata in macchina… e così Letizia iniziò la sua psicoterapia all’età di dieci anni. Se fu coraggio o il suo opposto non so, ma prima che arrivasse la sua adolescenza riuscimmo a fermare il male, a contenerlo dentro a stranezze innocue, a manie facilmente dissimulabili e controllabili. Alla fine di quegli interminabili anni, quando pensavo di aver vinto la nostra guerra, lo psichiatra mi mise in guardia. Il male potrà tornare ed esplodere, con maggior vigore di prima, mi disse, se Letizia non riuscirà a mantenere la sua serenità e il suo equilibrio di fronte ai sali e scendi della vita.

Non so quanto lei sia consapevole, adesso, di quanto ha vissuto da bambina. E di cosa porti dentro di sé. Quale immenso buco nero sia nascosto dentro la sua mente, e cosa sia capace di fare a se stessa. Perché la mia impressione è che abbia sepolto e chiuso a chiave tutto. Giurò di non dire nulla, e non disse nulla per i quattro lunghi anni che durò la terapia e anche successivamente.

Ma tutto fu diverso con lei, dopo. Rimase come un’ombra nel nostro rapporto, una serratura arrugginita, un qualcosa di irrisolto, che io imputai alla segretezza che le imposi. E con la madre andò anche peggio, perché Letizia perse ogni fiducia in lei, e la ridusse a una figura senza importanza, incapace di comprendere la verità e di sostenere la complessità della vita: un fantasma.

Ma non toccava certo a lei dire la verità alla madre. Non toccava a lei raccontare di essere malata, di prendere ogni giorno degli psicofarmaci, come faceva il padre. Toccava a me parlare, e assumermi le mie responsabilità. Ma preferii tacere, convinto che solo il silenzio, e la menzogna, potessero tenere unita la mia famiglia.

Al rientro a casa dalla radioterapia, pensavo di poter ricominciare una vita normale, pur senza la mia voce. Una sera di fine autunno come tante altre, mia moglie era da sua sorella a Milazzo, io ero solo in casa, con mia figlia Olga e il suo cane perennemente malato. E a causa di questa continua, immaginaria, malattia, la povera bestia era costretta da mia figlia a non uscire mai di casa e, di conseguenza, a fare i bisogni in una stanza. E proprio sopra la pipì del povero animale io scivolai quella sera, rovinando in terra.

Sentii un dolore lancinante, una terribile fitta vicino all’anca, poi gridai di dolore, e urlai senza essere sentito. Mia figlia si accorse di me dopo mezz’ora. Chiamò il 118 e loro arrivarono dopo pochi minuti, caricandomi sopra una barella. Ricordo solo che, per la sofferenza, svenni e mi svegliai nel letto di un ospedale.

«Professore, mi sente?»

«Sebastiano…» mossi le labbra senza poter emettere suoni. Mi accorsi che era un mio ex allievo diventato ortopedico, e rabbrividii. Perché lo conoscevo bene, ed era sempre stato una gran capra. Come persona e come studente. Più arrogante e ignorante del padre, primario di ortopedia nel nostro piccolo ospedale sempre minacciato di chiusura, e rincorso dalla sinistra reputazione di spezza ossa, insieme avevano trasformato quel reparto in un luogo disabitato, popolato soltanto dagli stupidi o dai disperati. Inevitabilmente cercai di collocarmi in una di queste due categorie.

«Lei ha un femore rotto, purtroppo. Una frattura composta al collo. Lo abbiamo immobilizzato, per il momento non possiamo fare nulla. Le ossa, purtroppo, sono molto indebolite dall’osteoporosi causata dal fumo. Se il dolore diventa troppo forte, chiami Lirio. Le darà la morfina,» m’informò Sebastiano.

Una mattina, dopo circa una settimana, esasperato, provai a forzargli la mano, per ottenere una risposta qualsiasi, e scrissi il mio bigliettino: «Sebastiano, ma non puoi operarmi? Mettermi un paio di viti e farmi andare a casa?»

La risposta non so dire se fu surreale o tragica: «Sta scherzando? Professore, lei è reduce da una brutta operazione. L’anestesista non se la sente. E poi la frattura è composta… vedrà che guarirà da sola. È solo questione di tempo…»

E riuscì a ripetermi questa storiella ogni settimana, per dodici settimane di seguito, tanto rimasi nelle mani del mio ex allievo, anzi dei miei ex allievi.

Ho insegnato per trent’anni nel nostro piccolissimo liceo. Tutti i medici e quasi tutti gli infermieri che lavorano all’ospedale del Santissimo Sepolcro sono stati miei alunni. Tutti, invariabilmente, hanno sostenuto la tesi del loro amico e collega, e mi hanno lasciato solo, con le mie sofferenze, e i miei rimorsi. So che le loro rassicurazioni sono viziate da quel sottile legame di connivenza che li unisce tutti, dentro l’ospedale come nel resto del paese.

In tanti anni di insegnamento, a fine anno, non ho mai riportato una insufficienza a un mio studente. All’inizio della carriera ricevevo moltissime pressioni per rendere più dolci i miei giudizi, per portarli alla soglia della sufficienza, o spingerli più in alto, quanto bastava per garantire una promozione o l’accesso a borse di studio o ad università prestigiose. Quella che era una forzatura, in breve, divenne la normalità. Per evitare scontri con i colleghi, sempre con qualcuno da proteggere e portare avanti, o per evitare la disapprovazione della gente, perché in un piccolo paese basta far due passi la sera, sul corso, per incontrare tutti, ma proprio tutti. E quindi per quieto vivere, per mantenere buoni i rapporti con il medico o l’avvocato, il sindaco o l’assessore, ma anche l’impiegato comunale, quello delle poste, il macellaio, il forestale, il carabiniere, io ho sempre chiuso un occhio, se non tutt’e due. E per questo mi sono sentito amato e rispettato, mi sono sentito accettato, e ho finito per non creare mai problemi a nessuno. Il risultato di questo metodo, di quest’insieme di regole non scritte che anch’io ho provveduto a scrivere, lo sconto oggi sulla mia pelle. Quanti ragazzi, incapaci anche di parlare correttamente in italiano, ho promosso? Tanti… e alla fine trovavo una giustificazione per tutti; io, carnefice senza alibi, ho agevolato in prima persona la scalata sociale di parecchie nullità. E adesso che sono io la vittima dell’incapacità di fare e di gestire, di assumersi una qualsiasi responsabilità, adesso che sono dall’altra parte, in mano a degli incompetenti che non hanno saputo curare la mia frattura, che non hanno saputo vedere il mio tumore, che non hanno saputo salvare il mio primogenito, cosa dovrei fare? Con chi dovrei prendermela, se non con me stesso, debole e povero uomo?

Dopo tre mesi di dolori calmati con la morfina sono uscito claudicante e con la gamba storta, potevo camminare soltanto appoggiandomi a un bastone, facendo un passo dopo l’altro, come un novantenne, come se nessuno si fosse mai preso cura di me. Mi sono sentito svuotato, perduta ogni fiducia, non solo nella medicina, ma anche negli uomini. Ogni illusione è svanita, mi è rimasta solo una nuda speranza, coltivata placidamente, senza illusioni, mentre sto rinchiuso nella mia casa prigione. Nessuna voglia di muovermi, e anche spostarmi dentro casa divenne presto un’esperienza da evitare. Le mie giornate trascorrevano nell’inerzia, seduto, o sdraiato sul letto, leggendo, talvolta scrivendo, spesso senza far nulla, come se solo il nulla fosse abbastanza vasto da contenere il vuoto che s’era impossessato di me.

Ero già morto, ma ancora dovevo rendere conto ai vivi: esami del sangue e valori alterati mi costrinsero a partire nuovamente per Messina, per un controllo dal luminare che mi aveva operato neanche sei mesi prima.

«Il controllo era fissato quattro mesi fa, professore…» mi rimproverò quel giorno il professore.

«Sono rimasto bloccato in ospedale, con un femore rotto,» mi scusai col mio bigliettino, «non si è trattato di cattiva volontà.»

L’uomo annuì, ma percepii una preoccupazione che non avevo mai notato prima. «Dobbiamo fare una TAC,» disse accigliato e, al telefono, parlò con il radiologo.

Scesi sottoterra, un’altra volta ancora. L’aria della stanza era gelida, non sentivo alcun odore, m’infilai nel cilindro bianco che dispensa le moderne profezie sulla vita e la morte, e in pochi secondi le mie carte erano servite. Mi tirai su, mi rivestii, e attesi in sala il verdetto dell’oracolo.

«Il tumore è ricomparso,» disse il luminare, figlio e nipote di luminari, e guardò il radiologo di fronte a lui, che annuì. «Qui, proprio dove abbiamo operato.»

«Non possiamo operare di nuovo?» scrissi.

«È in una brutta posizione,» mi spiegò il chiarissimo chirurgo. «È troppo pericoloso, troppo rischioso… mi dispiace. Le fisso un appuntamento a oncologia per iniziare la chemioterapia.»

«Chemioterapia?»

«Non posso fare altro… mi dispiace. Il tumore è vicino alla sua carotide. Incidere lì sarebbe troppo imprudente.»

Andai via, quel giorno, con un sapore d’amaro in bocca, e la certezza di un altro calvario all’orizzonte per me e per la mia famiglia.

Ma questa volta decidemmo di chiedere un parere terzo: troppe erano state le promesse andate a vuoto in quei mesi. Partii per Milano con mia figlia Letizia, perché Maria non se l’era sentita di accompagnarmi in quella nuova avventura. Fissammo un appuntamento all’IEO, e ci trovammo nuovamente davanti a un luminare con la faccia sorridente.

Esaminò la cartella clinica, osservò con attenzione l’ultima TAC che mi era stata fatta, e scosse la testa.

«È necessario ripeterla?» domandai, indicando la lastra trasparente nelle sue mani, porgendo il solito biglietto. In realtà avevo già con me una decina di quei foglietti, con le domande che intendevo fare, sulle quali avevo riflettuto lungamente in precedenza.

«Non è necessario,» fece il medico, e si sedette di fronte a me.

«Il professor Poerio ha operato correttamente?» c’era scritto nel messaggio precompilato.

L’uomo, senza cessare di guardarmi negli occhi, annuì.

«L’operazione è stata effettuata perfettamente. Ma il tumore si è riproposto in un punto particolare: proprio accanto alla carotide,» disse, e poggiò la lastra nel pannello luminoso alle sue spalle.

«È possibile che quel punto non sia stato ripulito perfettamente, che qualcosa sia sfuggito, ma non vedo errori nel modo in cui è stato eseguito l’intervento. Il tumore è circoscritto e molto piccolo, non ci sono metastasi.»

«Si può operare?» domandò mia figlia, di getto.

«Nessuno accetterebbe il rischio. È inoperabile. Deve iniziare subito un ciclo di chemioterapia, per vedere come reagisce il tessuto tumorale.»

«Può farla qui la chemioterapia?» intervenne ancora Letizia.

«E perché mai? I protocolli d’intervento sono uguali ovunque. Un posto vale l’altro. Tanto vale farla nel posto più vicino a casa. Ecco l’indirizzo di un’ottima struttura a Palermo…»

«Quanto mi rimane da vivere,» era l’ultimo dei miei bigliettini, il più importante, quello che speravo di non dover consegnare.

L’uomo, che stava per congedarci, si sedette nuovamente e ci fece segno di fare altrettanto.

Ci osservò, e dopo qualche istante disse: «Volete veramente saperlo?»

Io e mia figlia ci guardammo negli occhi, e abbassammo la sguardo.

«I tumori non sono tutti uguali,» cominciò a dire, «ne esistono diverse specie. Il suo è un carcinoma squamoso verrucoso. L’unica terapia efficace è quella chirurgica. La chemioterapia potrà avere effetto solo per qualche settimana, o mese, poi bisognerà cambiare farmaci, che avranno minor effetto sulla proliferazione delle cellule tumorali. La chemioterapia, in questo caso, è un palliativo. Lei ha un anno e mezzo di vita davanti, forse due… mi dispiace.»

Era il secondo “mi dispiace” che sentivo, e quasi mi sentivo sollevato d’aver ascoltato la verità: io stavo morendo.

Ma nel poco tempo che mi rimaneva avrei imparato che anche la più terribile verità può celare una menzogna.

Io e Letizia tornammo in Sicilia e decidemmo di non dire nulla al resto della famiglia circa la condanna a morte certa di cui ero stato fatto segno. Ancora una volta avremmo condiviso un segreto, ma avremmo lasciata intatta la speranza nei nostri familiari. E anche quella volta, come quindici anni prima, sapevo che quel segreto, invece di avvicinarci, ci avrebbe allontanato definitivamente.

Iniziai la chemioterapia la settimana seguente, pensando che la mia vita sarebbe stata normale. Avrei perso i capelli, si sa, ma non ne avevo molti in testa, però niente e nessuno mi aveva preparato a quello che stava per accadermi. Perché, col senno del poi, avrei evitato tante inutili sofferenze, tanto inutile spreco di sangue e di lacrime, e sarei morto in pace, di un onesto e incurabile tumore, in casa mia, con la mia famiglia accanto, invece di affrontare una inutile strada lastricata da aculei avvelenati.

Il primo ciclo di chemioterapia fu il più duro. Rimasi una settimana in clinica, con una flebo fosforescente attaccata al braccio, mia moglie e mia figlia Letizia al fianco. Insieme ai capelli se ne andarono i denti. Dopo due settimane, alla TAC di controllo il tumore, come per un miracolo, era diminuito di volume, anche se questa eventualità era stata prevista dal mio Caronte lombardo; la speranza, però, prese il sopravvento sui dubbi, e io cominciai a dimenticare quanto mi era stato detto a Milano, e a credere di poter guarire, di potercela fare.

Quando si entra dentro il meccanismo delle cure chemioterapiche è difficile uscirne. Ci si trasforma in giocatori, che scommettono continuamente sulla propria guarigione e che, nel momento in cui perdono, non possono far altro che continuare a giocare, solo che la posta in gioco, ogni volta, è la propria vita. E più ci s’inoltra in questo meccanismo più ogni speranza viene riposta in questo meccanismo, perché si continua a sperare, e quindi ci si continua a curare e a soffrire, e si continua a perdere, si continua a morire.

È solo una mia personalissima convinzione, come ogni altra che ho scritto, che la nostra medicina non guarisca, se va bene riesce solo a curare.

Per il secondo ciclo, il mese successivo, gli oncologi decisero di mantenere inalterato il cocktail di veleni del primo, nella speranza che il male potesse indietreggiare ancora. Altro trattamento e, dopo un paio di settimane, altra TAC di controllo. Ma questa volta il male era cresciuto di un centimetro e mezzo.

Il terzo ciclo iniziò il mese successivo, arrivò un nuovo cocktail di farmaci e una nuova modalità d’assunzione, una mattina a settimana, per quattro settimane di seguito, e dopo due settimane la solita TAC di controllo. Il volume del carcinoma, però, continuò ad aumentare, seppur di poco.

Il quarto e il quinto ciclo me li dispensarono con le stesse modalità dei precedenti, ma questa volta notai che qualcosa in me era cambiato: il mio corpo non tollerava altri veleni, io non mi reggevo più in piedi, non riuscivo a trattenere nulla di quel che mangiavo e, nonostante questa continua assunzione di farmaci, il mio tumore continuava ad avanzare e riusciva ad aprire un piccolo squarcio in mezzo al collo, divorava la mia carne, in un tripudio di sangue e di pus.

All’inizio del sesto ciclo di chemioterapia, dopo un paio di mesi di sosta, le forze mi vennero a mancare: mi spostavo soltanto in sedia a rotelle, non riuscivo più a fare nulla, neanche a leggere o a guardare la TV, e le mie vene non tolleravano più aghi e flebo, così che fu necessario un piccolo intervento per posizionare un sondino fisso nel torace, per permettere l’ingresso di nuovi veleni da un’apertura stabile: «Perché non interrompiamo?» chiesi all’oncologo di turno, col solito bigliettino. «Io non ce la faccio più, sto morendo di chemioterapia.»

«Dite tutti così,» mi rispose il medico. «Siete sempre pronti a mollare quando la sofferenza aumenta. Pensate di poter fare a meno di noi, anzi pensate che siamo noi la causa della vostra sofferenza, e non il tumore. Poi, però, quando il dolore si fa insopportabile, quando avete paura di morire, ritornate, e ci supplicate di essere curati.»

L’osservai stupefatto, in quel momento non capii se fosse odio, o disprezzo, quello che brillava nei suoi occhi. Forse era solo stanchezza, o voglia di scappar via. O forse voleva impedire a me di scappare, di mollare tutto, pensai, e stavo per assolverlo, quando, dopo una pausa, suggerì: «Se anche questo ciclo fallisce, potremmo provare un protocollo sperimentale.»

Eravamo arrivati a quel punto infine. Sentii che mi stavano spogliando della mia umanità per farmi diventare una cavia, un soggetto da laboratorio, che la mia esistenza, resistenza, si era ridotta a un esperimento. Usavano la mia disperazione per testare i loro inutili farmaci. Ma l’unica cosa che sapevo con certezza era che la qualità della mia vita era meno di zero proprio a causa dei loro farmaci, e non del tumore.

Accade anche questo, che le terapie farmacologiche finiscano per essere un mezzo il cui fine non è la guarigione dei pazienti, e nemmeno la loro cura, ma cos’altro se non il profitto delle case farmaceutiche? Che vendono e guadagnano, guadagnano, guadagnano…


Sono qui oggi, al termine del mio ottavo ciclo di chemioterapia, con la consapevolezza che ogni giorno può essere l’ultimo. Il mio carcinoma, da un momento all’altro, può recidere la carotide, uccidendomi in pochi secondi. E tuttavia io ho accettato di proseguire il mio calvario, di prolungare la mia sofferenza, di continuare le terapie a oltranza, comprese quelle sperimentali.

Un oncologo mi ha detto che ho un mese di vita davanti, un altro quattro, ma chi può dirlo? Per loro un mese in più o in meno non conta niente, ma per me…

La mia sofferenza forse servirà a far ottenere a mia moglie una migliore reversibilità. E spero che servirà d’esempio alle mie figlie, e che riescano a vedere, e riconoscere, e ricordare, quest’uomo che combatte unicamente per loro, fino alla fine, che la mia vita è dedicata a loro soltanto. Tirate le somme, di tutto il resto non m’importa più. Il mio 99destino l’ho segnato da tempo, fumando quelle maledette settanta sigarette al giorno. Non cerco più alibi, non cerco scuse, non cerco colpevoli o capri espiatori. Non esistono ragioni misteriose, voleri o vendette divine, non esiste il fato e, alla fine, della mia vita, di ogni vita, levando quella carne, quelle ossa, quel sangue, quel che rimane è solo fumo.

Fumo e gravidanza non vanno d’accordo

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Non fumare in gravidanza e davanti al bambino

La sollecitazione a non fumare è oggi universale, ripetuta e insistita. Nonostante la pericolosità del fumo da sigaretta sia ormai conosciuta dalla maggior parte delle persone e malgrado l’impegno costante da parte degli operatori sanitari nell’informare sui gravi danni per la salute, il tabagismo resta ancora uno dei fattori di rischio più diffusi e allarmanti, specie per la salute dei più piccoli.

L’esposizione ai prodotti da fumo di tabacco non solo rappresenta un pericolo per la salute di voi genitori, ma anche un rischio per la salute del vostro bambino fin dal periodo della gravidanza…

La nuova “legge antifumo”, tutela in special modo le donne in attesa e i bambini piccoli. La normativa prevede infatti il raddoppio della sanzione per chi fuma nonostante i divieti e davanti a donne col pancione e bambini al di sotto dei 12 anni. La legge entrerà in vigore il 10 gennaio 2005.

Quante volte vi siete trovati in un locale pubblico coi figli piccoli o con il pancione e le persone vicine fumavano senza porsi il benché minimo scrupolo che potesse dare fastidio a voi e ai vostri bambini. Sappiate che la nuova e discussa legge “antisigaretta” prevede una sanzione speciale per chi fuma in presenza di bambini o di donne incinte.
Chi non rispetterà il divieto dovrà pagare una multa compresa fra 27,5 e 275 euro, somma che verrà raddoppiata se il fatto avviene o è avvenuto in presenza di una donna incinta o di un bambino di età inferiore ai 12 anni. Per chi invece il divieto non lo fa rispettare, cioè per i gestori dei locali e i datori di lavoro negli uffici, la sanzione è molto più alta: parte da 220 euro e può arrivare fino a 2.200. I proprietari di ristoranti e bar rischiano anche la sospensione della licenza da parte della questura (per un periodo che va da tre giorni a tre mesi) o addirittura la revoca della licenza stessa. La legge antifumo voluta dal ministro della Salute Gerolamo Sirchia entrerà in vigore dal prossimo 10 gennaio.

10 MOTIVI PER SMETTERE DI FUMARE Sono 10 consigli, sotto forma di benefici, che potrebbero invogliarvi a smettere di fumare

Smettere di fumare conviene: i 10 motivi

Fonte: American cancer Society

ENTRO 20 – 30 MINUTI

si normalizza la pressione arteriosa e si normalizza il battito cardiaco torna normale la temperatura di mani e piedi

ENTRO 8 ORE

riduzione del tasso di anidride carbonica nel sangue fino ad un livello fisiologico si normalizza il livello di ossigeno nel sangue

ENTRO 12 ORE

i polmoni iniziano a funzionare meglio

ENTRO 1 GIORNO

migliora la circolazione e si riduce il monossido di carbonio nei polmoni

ENTRO 2 GIORNI

iniziano a ricrescere le terminazioni nervose e migliorano i sensi dell’olfatto e del gusto

ENTRO 3 GIORNI

si rilassano i bronchi, migliora il respiro e aumenta la capacità polmonare

DOPO 1 SETTIMANA

diminuisce il rischio di attacco cardiaco,

DA 2 SETTIMANE a 3 MESI

migliora la circolazione e camminare diventa sempre meno faticoso

DA 3 a 9 MESI

diminuiscono affaticamento, respiro corto, e altri sintomi come la tosse aumenta il livello generale di energia

ENTRO 5 ANNI

la mortalità da tumore polmonare per il fumatore medio (un pacchetto di sigarette al giorno) scende da 137 per centomila persone a 72.

ENTRO 10 ANNI

le cellule precancerose vengono rimpiazzate e diminuisce il rischio di altri tumori: alla bocca, alla laringe, all’esofago, alla vescica, ai reni e al pancreas.

DOPO 10 ANNI

la mortalità da tumore polmonare scende a 12 per centomila che é la normalità; praticamente il rischio di decesso per tumore polmonare è paragonabile a quello di una persona che non ha mai fumato.

DOPO 15 ANNI

I principali indicatori di rischio sono rientrati nella normalità
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Smettere di fumare con i rimedi naturali di fitoterapia e omeopatia

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Non è facile prendere la decisione di smettere di fumare, la strada da percorrere può essere difficile, ma chi ha deciso di dire addio alle sigarette, in genere, è convinto, è una svolta decisiva per salvaguardare la nostra salute. Quando si decide di dare un taglio netto è importante che si ricorra a delle strategie che aiutano a non tornare sui propri passsi, soprattutto nei momenti in cui la mancanza di nicotina si farà più sentire, ad esempio svolgere un’attività fisica, bere molte tisane, iscriversi ad un corso di yoga.

La crisi di astinenza, in effetti, è la parte più difficile da superare, cancellare i gesti ripetuti per anni e diventati parte integrante della nostra vita quotidiana, chiede molto impegno. Alcuni fumano perchè è di moda, perchè non fa ingrassare o, semplicemente, perchè piace. In altri casi si ricerca il piacere, uno stimolo a concentrarsi, a volte ci si nasconde dietro una sigaretta, si supera un momento di imbarazzo. I sintomi da astinenza possono essere più o meno forti, vuoto o senso di inadeguatezza o fame nervosa.

 

FITOTERAPIA
Si basa sui principi della medicina classica e, utilizzando al posto dei farmaci sintetici prodotti di derivazione naturale, propone una serie di rimedi per agire sui vari sintomi, vediamo quelli più utili:
Avena sativa: aiuta nella disintossicazione dal fumo, svolge un’azione antidepressiva e sedativa (50 gocce per 3 volte al giorno, in poca acqua prima dei pasti)
Plantago major: contribuisce a liberarsi dalla dipendenza da nicotina. Si spennella sulle gengive o si prendono 6-7 gocce per 5-6 volte al giorno in poca acqua.
Tiglio, valeriana e verbena: utilizzati in infuso favoriscono il sonno e contrastano gli attacchi di ansia.
Carciofo, bardana, tarassaco e fumaria: utilizzati facendone un decotto depurano l’organismo, disintossicano fegato, reni e pancreas e tolgono il desiderio di fumare.
Radice di liquirizia: un pezzetto tenuto in bocca ricorda la gestualità della sigaretta e fa calare la voglia di nicotina.
Radice di genziana o ginseng: in tisana per superare le crisi e ridurre la fame.

OMEOPATIA
Può essere di aiuto per chi vuole smettere di fumare, perchè interviene sui sintomi dell’astinenza in maniera dolce senza effetti collaterali. Ecco i principali rimedi omeopatici ai quali si può far ricorso:
Ignatia 0/30 LM: se ne prendono 5 granuli tutte le mattine fino a quando non scompare il desiderio di fumare.
Nux vomica: per il nervosismo e per la tendenza a compensare lo stimolo alla nicotina con altre sostanze, come caffeina o alcol.
Tabacum: è indicata per il senso di nausea, i crampi allo stomaco e le vertigini.
Gelsemium: si usa per combattere tremori, ansia e disturbi del sonno.
Caladium: rende sgradevole il sapore della sigaretta, creando repulsione.

Photo credit: mag3737 su Flickr

BRASILE Anti-tabacco nel paese sollecita regolamentazione


Anche se il paese ha forti restrizioni nei confronti tabacco da fiuto, anche se la sua implementazione non è possibile per mancanza di un regolamento. Nel frattempo, lo Stato spende milioni di dollari a servire salvadoregni affetti da malattie legate al fumo.

 

Dr. Mario Meléndez, allenatore della Pan American Health Organization (OPS) in El Salvador, si lamenta che nel nostro paese, pur avendo una severa legge contro il tabacco da fiuto, non ancora redatto il regolamento per la sua applicazione, che consente una impatto reale nella lotta contro il fumo e tutti gli effetti negativi sulla salute causa.

Melendez ha detto che il divieto di fumo passata nel giugno 2011 soddisfa tutti gli standard internazionali stabiliti dalla Convenzione quadro contro il tabacco da fiuto firmato nel 2003 da 193 paesi, con l’eccezione di El Salvador.

“Nonostante non aver firmato l’accordo che abbiamo una legge ottima, ma anche bisogno di stabilire questo impegno internazionale,” ha detto.

Ha spiegato che la legislazione non sortito gli effetti desiderati sul paese e che si nota quando, per esempio, le sigarette sono ancora venduti per unità in ceste e bancarelle, rendendo più facile per i minori di acquisire l’abitudine da secoli giovane come 10 anni.

“Nella riduzione di spazi senza fumo è avanzata. Finora hanno visitato più di 150 ristoranti e compatibili “, ha detto.

Punti vitali

Melendez ha spiegato che tra i punti principali della legge contro il tabacco da fiuto è quello di regolare e stabilire senza fumo, fare la differenza tra gli spazi adeguati per i fumatori e non fumatori e per limitare sempre più spazio per i consumatori di sigarette un minor numero di persone che intendono smettere di fumare Non ingoiare il fumo involontariamente e soffrono di malattie causate da inquinamento da fiuto.

Globalmente si calcola che ogni anno circa 6 milioni di persone per malattie causate dal tabacco, ma 600 000 di loro non hanno mai usato la droga.

La legge approvata in El Salvador regola anche la pubblicità, promozione e sponsorizzazione di attività che promuovono il fumo per evitare che più persone, soprattutto bambini piccoli, sono envicien, ma questo continua.

Gli sforzi stanno andando in molte direzioni. Il più visibile è nelle confezioni a partire dal prossimo mese di agosto, le compagnie del tabacco che distribuiscono le sigarette nel Paese sarà richiesto di stabilire le due facce principali delle immagini potente pacchetto di alcune delle malattie causate dal fumo.

50% di quello spazio sarà utilizzato per nuovi fumatori più consapevolmente analizzare i risultati della loro decisione ci sono più di 50 tipi di tumori che sono collegati al fumo, dicono gli esperti.

Melendez ha detto che attualmente inclusa nella confezione leggenda: “Il fumo è dannoso per la salute”, che è insufficiente. Da agosto le confezioni avranno la didascalia e la foto dice: “Questo prodotto contiene MATA nicotina, catrame e monossido di carbonio, per ottenere aiuto 2528-9700, FOSALUD o MINSAL al 2581-1987.

L’intenzione è quella di “smettere di chiarire ulteriormente i rischi connessi all’utilizzo di tabacco”, ha detto il rappresentante della OPS.

Un altro fronte sul controllo del tabacco è quello di rendere più costoso il prodotto, aumentando le imposte sulle società del tabacco. Nel caso di El Salvador, la legge ha istituito una tassa del 55% del valore del prodotto, ma è ancora considerato insufficiente.

Situazione salvadoregna

In una radiografia della pandemia del tabacco in El Salvador, i numeri sono allarmanti.

Secondo l’indagine condotta del fumo nel nostro paese nel 2009, il 33% di quelli tra i 13 ei 15 anni hanno dichiarato di aver consumato tabacco da fiuto. Di questi, il 45% lo ha fatto prima dei 10 anni.

Melendez descritto i dati come molto allarmante perché indicano che il consumo di tabacco è associato con l’età più giovane del paese. 

Secondo PAHO, 11,7% dei salvadoregni sono fumatori attivi, ma non ha statistiche sul numero di persone colpite da fumo di sigaretta.

Si presume che un fumatore spende in media mensile per le sigarette del 10% del loro bilancio familiare, che colpisce non solo la loro salute ei loro parenti, ma anche l’economia familiare.

Il fumatore, in un grado intermedio di dipendenza da nicotina possono consumare da due a cinque sigarette al giorno e per tutta la sua vita da trascorrere tra i $ 5 miliardi di $ 10 000.

Inoltre, il consumo di tabacco ridotto di circa 12 anni di vita di una persona e promuove i loro anni più tardi passerà con una malattia cronica degenerativa e abitudine al fumo.

Dettagli PAHO che i fumatori tra i 45 ei 50 anni soffrono influisce direttamente il consumo di tabacco-produttiva mezza età, e sono vittime di cancro nei polmoni, pelle, lingua, laringe, malattie respiratorie, enfisema, attacchi di cuore e cervello, tra gli altri.

La spesa per trattamento di pazienti con malattie legate al consumo di tabacco da fiuto raddoppiare il gettito fiscale dell’imposta sul tabacco. Meno del 50% dei trattamenti vengono annullati i contributi al sistema di tesoreria, il resto è coperto con fondi pubblici dalle casse dello Stato, si stima.

Opporsi tabacco

Eduardo Ortiz è un Advisor per lo sviluppo sostenibile e la salute ambientale di PAHO. Ha detto che in tutti i paesi, tra cui El Salvador, c’è grande opposizione dalle leggi antifumo del tabacco contro a causa delle perdite economiche che provocano questi.

“Nel caso di El Salvador, non producono tabacco, ma ciò non impedisce le due principali società (British American tobbaco e Philip Morris), esercitano la loro opposizione alla legge sul controllo del tabacco da fiuto”, ha detto.

Il principale “interferenza” contro il regolamento snuff esercitata dalle società sono diretti influenza politica, definire e promuovere gruppi di persone a favore dei fumatori, mascherare attività aziendali di responsabilità sociale con la sponsorizzazione di attività culturali e sportive, la presentazione di studi per tabacco da fiuto e l’asserita perdita di posti di lavoro dalla normativa di settore. “El Salvador se si mangia meno tabacco da fiuto, il paese andrà in bancarotta”, ha detto Ortiz 


Come smettere di fumare

Mario Melendez, OPS, ha detto che non è facile smettere di consumo di tabacco a causa dell’alto livello di dipendenza che crea. Anche il tabacco è usato per fermare il consumo di altre droghe come la cocaina e marijuana.

Ha spiegato che ci sono salvadoregni solo per suscitare la loro prima sigaretta, che è considerato un segno di dipendenza da nicotina produce nell’uomo.

A livello mondiale esistono trattamenti molto efficaci contro il fumo, ma anche molto costosi.

Il tasso di successo di un fumatore a livello internazionale è del 20%, vale a dire che per ogni 10 persone che cercano di uscire solo due farcela.

Melendez ha spiegato in America centrale solo El Salvador riportato buoni risultati per riabilitare i fumatori. Le percentuali di successo superiori al 30%, ha detto. Nel sistema sanitario pubblico ci sono quattro cliniche di prevenzione e cessazione di tabacco in cui i pazienti sottoposti a terapia comportamentale di smettere di usare nicotina. 

I centri si trovano in ospedale e Rosales Saldana (nei piani Renderos) a San Salvador, San Juan de Dios a Santa Ana, e Zamorán dell’unità sanitaria a San Miguel. Oltre alle cliniche dell’Istituto salvadoregno della sicurezza sociale e Fondo di solidarietà per la salute (Fosalud).

Il medico spiega che il primo passo è quello di prendere la libera decisione di non essere più un fumatore e individuare le cause e le motivazioni del perché la gente vuole smettere di fumare.

Più tardi, ha detto, il fumo ti fa vedere l’impatto economico che il vizio produce in famiglia e le principali malattie che provoca.

I pazienti ricevono sostituti delle sigarette, come cerotti o gomme alla nicotina, perché non è consigliabile di smettere improvvisamente. Anche con alcuni pazienti può essere utilizzato antidepressivi.

Nuovo trattamento

Come parte delle scoperte mediche per combattere la dipendenza al tabacco da fiuto, il gruppo Novartis ha lanciato questo mese nel paese chiamato trattamento Breezhaler Onbrize al fine di contrastare la malattia polmonare ostruttiva cronica (BPCO), una delle principali malattie causate da l’esposizione al tabacco da fiuto o di consumo.

Il trattamento migliora in modo significativo il flusso d’aria e riduce la sofferenza di altre malattie come bronchite ed enfisema polmonare.

L’arrivo della procedura medica paese rappresenta un passo avanti nella lotta contro le malattie causate dal consumo di tabacco, ma il problema può risiedere con il costo elevato del trattamento.

I funzionari della sanità raccomanda che il modo più efficace per combattere il tabacco è la prevenzione, così chiamano i fumatori a smettere e quelli che hanno solo interesse, anche per provare.

 

Ecco alcune immagini che avviseranno sul consumo del tabacco da fiuto dal mese di agosto i pacchetti di sigarette vendute nel nostro paese:

 

 

 

 http://www.lapagina.com.sv/nacionales/67488/2012/06/08/Lucha-contra-el-tabaco-en-el-pais-urge-de-reglamento

ISS: nel 2011 fumatori al minimo storico. Garaci: “Aumentare di 1€ il costo delle sigarette”

La provocazione è del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità commentando l’indagine sul rapporto tra gli italiani e le ‘bionde’ in occasione della Giornata mondiale senza Tabacco. Per Garattini si ridurrebbero i consumi del 4 per cento

» DipendenzeRedazione/GP – 01/06/2012

    

Fonte: Immagine dal web

Per incentivare la diminuzione dei fumatori inItalia e rimpinguare nel contempo le casse dello Stato, bisognerebbe “aumentare in modo considerevole e, dunque, di un euro, il costo di ogni pacchetto di sigarette”. La provocazione-appello è stata lanciata dal presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), Enrico Garaci, commentando l’indagine sul rapporto tra gli italiani e il fumo in occasione della Giornata mondiale senza tabacco il 31 maggio.

“Ci sarebbero benefici per il fisco, per la ricercabiomedica e per il trattamento dei pazienti fumatori – ha spiega in proposito Garaci -. Facciamo appello al governo e al Parlamento perché si muovano in questa direzione”. Favorevole ad un aumento delle ‘bionde’ anche il farmacologo Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri: “I morti per cause riconducibili al fumo – ha spiegato – sono ogni anno 70-80mila. Uno studio dell’Istituto Mario Negri ha dimostrato che l’aumento di un euro del costo delle sigarette produrrebbe una diminuzione del consumo del 4 per cento. E si produrrebbe un introito per lo Stato di 3 miliardi di euro in più all’anno”.

DATI DELL’INDAGINE DOXA. Commissionata dall’Osservatorio Fumo alcol e droga dell’Istituto Superiore di Sanità, la ricerca, che quest’anno punta i riflettori sulle interferenze dei produttori di sigarette, evidenzia che a livello generale, i fumatori in Italia sono diminuiscono: nel 2011 erano il 22,7 per cento della popolazione con più di 15 anni, nel 2012 ne rappresentano il 20,8 per cento per un totale di 10,8 milioni di persone. Un calo quindi di quasi 2 punti percentuali, con un picco in discesa per le fumatrici, diminuite di 2,4 punti percentuali.

140 MILIONI LE SIGARETTE ACCESE OGNI GIORNO. Fumano in media 13 sigarette al giorno, un trend anche questo in discesa, per un totale di 140 milioni di sigarette ‘bruciate’ quotidianamente in tutto il Paese. Una flessione analoga si registra anche nelle vendite complessive del tabacco (-1,8 per cento nel 2011 rispetto al 2010) a scapito soprattutto delle marche più costose.

DALLE ‘BIONDE’ AL TABACCO SFUSO, CATTIVE ABITUDINI DURE A MORIRE. Tuttavia, nonostante la crisi economica, il 76,2 per cento di coloro che continuano a fumare non ha cambiato le sue abitudini, si sente in buona salute, e per questo non pensa di smettere, e le sigarette sono al penultimo posto della lista di cose a cui si rinuncia per effetto appunto della crisi. E se diminuisce comunque la vendita delle sigarette, aumenta però di due volte quelle del tabacco sfuso. Così l’8,5 per cento degli italiani, soprattutto tra i giovani, costruisce a mano la sigaretta riuscendo a risparmiare circa la metà del costo (nel 2011 il consumo dei cosiddetti “trinciati” era del 3,4 per cento).

GARACI: “LAVORARE PER AUMENTARE LA CONSAPEVOLEZZA”. “Questi dati sono sicuramente confortanti – ha affermato Enrico Garaci -. Molto, quindi, è stato fatto, ma molto resta ancora da fare. Soprattutto se si pensa che oltre l’80 per cento dei fumatori crede di essere in buona salute”. “Bisogna lavorare ancora per aumentare la consapevolezza del rischio – ha comunque rimarcato il presidente dell’ISS -. È ancora troppo basso l’accesso ai 380 centri antifumo che da anni l’Istituto Superiore di Sanità censisce e supporta come il più valido alleato del Servizio Sanitario Nazionale nella lotta al tabagismo”.

PACIFICI: “PER LE DONNE SI È TORNATI AI LIVELLI DEL 1973”. “A fumare sono all’incirca 2 italiani su 10, la prevalenza più bassa che abbiamo registrato dal 1957 ad oggi – ha commenta Roberta Pacifici, direttore dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga – il che è per noi un dato confortante, un segno di graduale, ma costante successo delle politiche antifumo adottate finora. Addirittura per le fumatrici donne si è tornati quasi ai livelli del 1973 e dal 2009 diminuiscono anche i baby fumatori, i ragazzini cioè che iniziano a fumare prima dei 15 anni”.

GARATTINI: “SIGARETTE, UN BENE DI LUSSO CHE RESISTE ALL’INFLAZIONE”. “Le sigarette continuano a restare tra i beni di consumo il cui costo resiste all’inflazione – ha affermato Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano – sarebbe interessante confrontare questi dati con ciò che accadrebbe dopo un aumento significativo del costo delle sigarette e comprendere quale ruolo possa avere il prezzo del tabacco nella disassuefazione al consumo”. Secondo l’indagine, inoltre, chi fuma è anche più propenso a giocare d’azzardo o, comunque, a scommettere in ganerale. La ricerca ha evidenziato, infatti, che il 60 per cento di chi “gioca” (poker e videopoker, bingo, lotto e superenalotto, scommesse sportive, casinò, Totocalcio etc.) è anche un fumatore e, considerando ogni singolo gioco, si nota dai dato come i fumatori ne siano, in ogni caso, gli “utenti” più numerosi.

CENTRI ANTIFUMO, STRUTTURE SOTTOVALUTATE. L’ISS ribadisce anche l’importanza di rivolgersi ai Centri specializzati e, per questo, ricorda che quelli antifumo sparsi sul territorio nazionale sono in tutto 380 distribuiti per il 53,2 per cento al Nord, il 21,8 per cento al Centro e il 25 per cento al Sud. Il numero di utenti seguiti in un anno, però, si mantiene basso, in media 86 a struttura. Secondo l’indagine, il 67,1 per cento degli italiani non ne conosce l’esistenza e, di conseguenza, non li prende in considerazione come strumenti utili per smettere di fumare. Nel corso di una rilevazione effettuata dall’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga (OssFAD) sul personale dei Centri antifumo, è emerso che tra le azioni più importanti ritenute efficaci per facilitarne l’accesso al primo posto è risultata la sensibilizzazione del personale sanitario (91 per cento), in particolare dei medici di famiglia che dovrebbero selezionare i fumatori già portatori di patologie cardiovascolari e polmonari, e inviarli necessariamente ai centri antifumo, individuando la cessazione del fumo  come parte del programma terapeutico. Tra le altre azioni ritenute efficaci la rimborsabilità delle prestazioni antitabagiche (77,6 per cento) e la divulgazione delle informazioni attraverso i mass media (70,5 per cento).

IL MARKETING DEL FUMO, SE LA SIGARETTA TI RAGGIUNGE OVUNQUE. Alcuni hotel di prestigio e coffe bar in Europa hanno aperto sale dedicate esclusivamente ai fumatori ed un giro in Internet alla ricerca di luoghi per le vacanze mostra alberghi che permettono ai clienti di fumare nelle loro stanze, vietate, per questo motivo, ai minori. Ed ancora: alcuni brand nel campo della moda hanno autorizzato le industrie del tabacco ad usare il proprio logo per pacchetti “fashion” destinati al mercato asiatico, mentre negli Stati Uniti alcune serie tv, ambientate negli anni ’50, non hanno esitato a proporre uomini e donne che fumano, associandole ad immagini di persone di “successo”. In Italia, già un’indagine dell’Ossfad del 2002-2003, fatta sulle emittenti televisive Rai, Mediaset, LA7, MTV, denunciava come l’immagine della sigaretta fosse associata nel 62 per cento dei casi ad un eroe o comunque ad una persona positiva.

INDUSTRIA DEL TABACCO, UN POTERE DIFFICILE DA ABBATTERE. In base ai dati dell’indagine dell’ISS presentata il 31 maggio, il 13,5 per cento del campione ha dichiarato di vedere su Internet o di ricevere per posta elettronica proposte di acquisto di sigarette e tabacco. Il 6 per cento è stato addirittura contattato per indagini di mercato durante eventi sportivi o musicali. Inoltre, a proposito di nuovi media, in base a uno studio recentemente pubblicato, su 163 video visionati su YouTube legati al tema del tabacco, il 71 per cento era chiaramente pro tabacco. Del potere che l’industria del tabacco utilizza per perseguire i propri obiettivi, gli italiani sembrano consapevoli. Infatti, secondo il 55,7 per cento della popolazione l’industria del tabacco riesce nel suo intento. Ma in che modo? Principalmente, hanno risposto gli intervistati, mediante sovvenzioni ai partiti (36,8 per cento) e convegni in cui espongono le loro opinioni (28,4 per cento).

LA ‘CICCA’ IN STRADA TRIPLICA COSTO DELLA PULIZIA. SI’ A MULTE SU MOZZICONE A TERRA.
 Secondo le schede diffuse dall’ISS in occasione della Giornata mondiale senza tabacco il 31 maggio scorso, ogni giorno in Italia si fumano 140 milioni di sigarette che in un anno diventano 51 miliardi. Ogni mozzicone impiega da 1 a 5 anni a diventare biodegradabile ed è stato calcolato che la “spazzatura” costituita dai mozziconi fa triplicare il costo per la pulizia delle strade. Così per cercare di arginare il fenomeno, si pensa ad una multa. La città Varese è la prima città ad averla per chi getta in terra i mozziconi. Esempio seguito poi altre città tra cui Firenze, Ferrara, Padova, parma e Trento, con ammende che variano dai 100 ai 500 euro.

ITALIANI FAVOREVOLI ALLA MULTA. 
L’indagine Doxa ha evidenziato, poi, come la maggioranza degli italiani (l’84 per cento), ma anche dei fumatori (il 64 per cento), sia favorevole all’introduzione di una multa di 30 euro per chi butta in strada i mozziconi. Il 58,6 per cento degli italiani che non fumano vorrebbe estendere il divieto di fumare in parchi e giardini pubblici, il 63,4 per cento negli stadi, il 73,6 per cento nelle are aperte degli ospedali, il 78,2 per cento alla guida, l’81,2 per cento nei cortili delle scuole, il 91,4 per cento nelle auto alla presenza di minori. Anche i fumatori si trovano d’accordo con questi divieti, anche se in percentuali minori.

MATERIALI
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Rapporto annuale sul fumo 2012

 

LINK
– 
Osservatorio Fumo, Alcol e Droga (OssFAD-ISS) 
– 
Istituto Superiore di Sanità (ISS)