Addio a maglia nera Malabrocca

Aveva 86 anni ed era identificato col simbolo, oggi scomparso, che veste l’ultimo della classifica al Giro d’Italia: per conquistarlo si nascose anche nei fienili
Luigi Malabrocca, deceduto ieri, aveva 86 anni.
Luigi Malabrocca, deceduto ieri, aveva 86 anni.

MILANO, 2 ottobre 2006 – Andava in fuga dietro al gruppo. Entrava nei bar e non ne usciva più. Si nascondeva nelle scarpate, nei fienili, nelle cantine. Una volta si tuffò addirittura in una specie di pozzo, vuoto, ma un contadino baffuto, la pelle rosolata dal sole, s’insospettì e sollevò il coperchio: “E allora?”, gli intimò. “Sto correndo il Giro d’Italia”, tentò di spiegargli. Poi risalì sulla bici, affrontò Rolle, Pordoi, Campolongo e Gardena, perché era il tappone dolomitico del Giro d’Italia, infine giunse al traguardo. Ultimo, ultimissimo, maglia nera, nerissima. Era il suo forte, il suo fortissimo.
CAPOLAVORI – Ieri è morto Luigi Malabrocca, e stavolta la maglia nera significa non solo il lutto per un uomo speciale, ma anche per la fine di un capitolo, di un romanzo, di una storia, di un’epoca, di un ciclismo. Povero Luisìn, che aveva scelto di arrivare ultimo, perché quello era il sistema per sconfiggere la miseria. Ultimo nel 1946 a 4.9’34″ da Gino Bartali: un’impresa. Ultimo nel 1947 a 5.52’20″ da Fausto Coppi: un capolavoro. Un uomo solo al comando, Malabrocca, però dal fondo della classifica, finché non incontrò un altro fenomeno nella lotta al fuori tempo massimo, Sante Carollo. Era il Giro 1949, Carollo vantava due orette di vantaggio e la tappa finale, Torino-Monza, con arrivo ufficiale a Milano, non proponeva agguati. Ci pensò “il Mala”: mentre Carollo pedalava ignaro in mezzo al gruppo, lui approfittò di una foratura, entrò in un’osteria, accettò prima da bere, poi l’invito a casa di un tifoso che gli voleva mostrare una particolare attrezzatura per la pesca, infine si rimise in sella e pedalò al minimo. Un trionfo al contrario: due ore e 20 dietro al vincitore Giovannino Corrieri, due ore e un quarto dietro a Carollo. Ma Luisìn aveva commesso un errore: non aveva previsto che i cronometristi — una volta tanto spazientiti — se ne fossero già tornati a casa, classificando il superitardatario con lo stesso distacco del gruppo. Così fu Carollo a conquistare la maglia nera: 9.57’07″ da Coppi contro 7.47’26″ collezionati da Malabrocca. E Luisìn, deluso, prese la solenne decisione di abbandonare quella divina commedia umana.
IL CINESE – Malabrocca, nato a Tortona il 22 giugno 1920, detto anche “il Cinese” per via degli occhi a mandorla, era però un fior di corridore. In carriera ha vinto 138 corse, di cui 15 da professionista (Parigi-Nantes 1947, Coppa Agostoni 1948, Giro di Croazia e Slovenia 1949), ed è stato due volte campione italiano di ciclocross (1951 e 1953). Da tempo il suo telaio cigolava. Operato al cuore e alla gola, tirava avanti con serenità. Ricoverato in ospedale 15 giorni fa, poi dimesso, ieri, nella sua cascina di Garlasco (Pavia) verso le 15 ha staccato il numero. I funerali si tengono domani, alle 10, nella Chiesa della Santissima Trinità a Garlasco. Non sarà un addio. Uomini come Malabrocca muoiono, ma non scompaiono.

Luigi Malabrocca

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Luigi Malabrocca
Dati biografici
Nome Luigi Malabrocca
Nato 22 giugno 1920
Tortona (AL)
Paese Italia
Nazionalità bandiera Italia
Morto 1° ottobre 2006
Garlasco (PV)
Dati agonistici
Disciplina Ciclismo

Luigi Malabrocca (Tortona22 giugno 1920 – Garlasco1° ottobre 2006) è stato un ciclista italiano.

Non era un grande campione, ma divenne popolare perché indossò per due anni consecutivi la “maglia nera” del Giro d’Italia. Ultimo di sette fratelli e grande amico del conterraneo Fausto Coppi, vinse 138 corse, di cui 15 da professionista, ma il suo nome rimane ancora oggi legato al Giro d’Italia dei tempi in cui l’ultimo classificato si aggiudicava la maglia di colore nero e, soprattutto, un cospicuo premio in denaro, che faceva gola a molti.

Riuscì ad aggiudicarsi la maglia nera nel 1946 (pur arrivando quarto in volata al termine dell’ultima tappa, la MantovaMilano) e nel1947, cercando di perdere più tempo possibile tra una tappa e l’altra nascondendosi dove poteva, forando le gomme della sua bici e fermandosi per lungo tempo nei bar. Nel 1949 rimase vittima del suo stesso gioco: aspettò troppo tempo e quando tagliò il traguardo dell’ultima tappa a Milano i cronometristi e i giudici spazientiti avevano già lasciato le loro postazioni, assegnando all’ignaro Malabrocca lo stesso tempo del gruppo e al vicentino Sante Carollo (che si ritirò presto dal ciclismo) la maglia nera con relativo premio. Da allora Malabrocca decise di abbandonare quella singolare corsa all’ultimo posto.

Nella sua carriera si aggiudicò la Parigi-Nantes (1947), la Coppa Agostoni (1948) e il Giro di Croazia e Slovenia (1949). Per due volte (nel 1951 e nel 1953) fu campione d’Italia di ciclocross. Si ritirò dal ciclismo nel 1956.

Dopo essere stato operato al cuore e alla gola, e dopo un ricovero in ospedale nel settembre 2006, Malabrocca è morto a Garlascoall’età di 86 anni.

Vittorie per anno

1946
Coppa Carena
Maglia nera al Giro d’Italia
1947
Parigi-Nantes
Maglia nera al Giro d’Italia
1948
Coppa Agostoni
1949
Giro di Croazia e Slovenia
1951
Campionato italiano di ciclocross
1953
Campionato italiano di ciclocross

Bibliografia

 

Sala Beata Maria Anna

 

Beata Maria Anna Sala Vergine

24 novembre

Brivio, 21 aprile 1829 – Milano, 24 novembre 1891

L’Istituto delle suore «Marcelline» fu fondato a Vimercate (Mi) nel 1838 dal servo di Dio Luigi Biraghi (1801-1879). A questo Istituto aderì Maria Anna Sala, nata il 21 aprile 1829 a Brivio (Lecco). Verso gli undici anni venne accolta nel collegio a Vimercate e affidata a madre Videmari. Nel 1846 tornò in famiglia. Quando sentì la chiamata di Dio alla vita consacrata, Maria Anna scelse le Marcelline, rivolgendosi allo stesso fondatore per essere accolta come postulante nel 1848. Nel 1852 pronunciò i voti perpetui. Svolse la sua attività come insegnante di scuola elementare e di musica nel Collegio di Cernusco sul Naviglio e poi nelle Case di Milano e Genova. Nel 1859 prestò assistenza ai feriti della guerra d’Indipendenza, nell’ospedale militare di San Luca. Dopo nove anni d’insegnamento a Genova fu trasferita a Milano come insegnante dei corsi superiori e assistente della Madre Videmari. Colpita da un carcinoma al collo, morì nel 1891. È stata beatificata da Giovanni Paolo II nel 1980. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Milano, beata Maria Anna Sala, vergine della Congregazione delle Suore di Santa Marcellina, che, maestra di una scienza fondata sulla fede e sulla pietà, si dedicò con tutte le sue forze all’istruzione della gioventù femminile.

L’Istituto delle Suore ‘Marcelline’ fu fondato a Vimercate nel 1838 dal Servo di Dio Luigi Biraghi (1801-1879), uomo di vasta cultura e profonda pietà, professore e direttore spirituale nel Seminario Maggiore di Milano, dottore dell’Ambrosiana. 
Esso sorse con lo scopo di formare la donna con una cultura adeguata e con conoscenze teologiche, affinché potesse portare la saldezza della fede nella società dell’epoca, colta e operosa, ma turbata da pericolose nuove ideologie. 
L’Istituto prese il nome da s. Marcellina educatrice dei santi fratelli Satiro e Ambrogio e per la chiarezza e la novità dei metodi, la fermezza delle virtù delle prime suore, esso fiorì in modo eccezionale. 
E a questo Istituto aderì Maria Anna Sala, la quale nata il 21 aprile 1829 a Brivio (Lecco) era stata messa, verso gli undici anni a studiare in collegio a Vimercate presso il nascente Istituto delle ‘Marcelline’ e affidata per la sua formazione culturale e spirituale a Madre Videmari fedele collaboratrice del fondatore. 
Nel 1846 conseguita la patente di I° grado tornò in famiglia dove profuse tutta la sua bontà consolatrice specie nella malattia della madre e nella rovina finanziaria del padre, nel contempo operando nell’apostolato fra i fanciulli, i sofferenti e i bisognosi della parrocchia. 
E quando sentì la chiamata di Dio ad una vita più consacrata e dedita alla scuola, ella come già detto, scelse le ‘Marcelline’, rivolgendosi per essere accolta come postulante nel 1848, allo stesso fondatore padre Biraghi. 
La sua indole si adattò perfettamente alla regola dell’Istituto che richiedeva una vita mista di intensa vita interiore e una spiccata azione apostolica ed educativa fra le alunne; nel 1852 pronunziò i voti perpetui, in quella che fu la prima professione pubblica delle Marcelline. 
Svolse la sua attività come insegnante di scuola elementare e di musica nel Collegio di Cernusco sul Naviglio e poi nelle Case di Milano e Genova. Ebbe il merito di essere chiamata la “Regola vivente” e tra le alunne “la madre delle anime”. 
Altra tappa della sua luminosa vita fu l’assistenza nel 1859 ai feriti della guerra d’Indipendenza, nell’ospedale militare di S. Luca; dopo nove anni d’insegnamento a Genova fu trasferita a Milano come insegnante dei corsi superiori e assistente della Madre Videmari. 
Fu tormentata nel fisico da un doloroso carcinoma al collo che pur non facendola rallentare la sua intensa attività, la porterà alla morte il 24 novembre 1891 fra il compianto di tutti e circondata di fama di santità. 
Il cardinale arcivescovo di Milano beato Schuster, nel 1931 aprì il processo informativo sulle sue virtù; il processo apostolico si svolse dal 1962 al 1964. 
È stata beatificata da papa Giovanni Paolo II il 26 ottobre 1980.

 

 

 

L’ ultima opera e una mostra celebrano il mitico fondatore di Linus

Rivediamo Giovanni Gandini nelle ultime passeggiatine che faceva tra la casa di via Montebello e San Marco, accompagnato da Pancho, grande cane pastore dal pelo di un bel grigio screziato, molto arruffato, che era venuto a somigliare al suo padrone oltre che nell’ aspetto anche nell’ affettuosa irruenza. Gandini non è certo stato soltanto «il mitico» inventore di «Linus», la rivista di fumetti che fondò nel 1965 con i soldi ricavati dalla vendita di una collezione di francobolli. Fu infatti un uomo scintillante, ricco di idee e fantasie, instancabile inventore di giornali, di libri suoi e altrui, di mostre, di mode perfino, come il «modernariato» di cui fu forse il primo collezionista. Dal 1994 era un laringectomizzato, e andava in bestia perché mentre i non udenti, i non vedenti e i non camminanti sono molto considerati dalla pubblica sanità, dei non parlanti secondo lui nessuno si cura: ingiustizia diventata argomento dell’ ultimo capitolo del suo libro appena uscito «Un milione di copie». Dopo l’ operazione aveva preso l’ abitudine di partecipare alle conversazioni degli amici distribuendo i foglietti su cui scriveva le sue famose battute che non poteva più buttar lì con la bella vociona di un tempo, e aforismi, aneddoti, filastrocche, mini-storie: insomma saporiti pezzetti di letteratura tascabile. Quasi sempre illustrati con i suoi celebri topi, diventati con gli anni la sua firma: si ricorda in città che un gallerista di Monte Napoleone chiamato dagli eredi di un famoso collezionista, sfogliando cartelle assai ricche, tra un foglio di Matisse e uno di De Chirico, a un tratto non potè trattenere un grido: «Ma questo è un Gandini!». Di quei messaggini, ironici e malinconici, amorosi e a volte severi, ma sempre necessari, lui ha voluto fare un libro. Li ha catalogati, messi in ordine, arricchiti, ed è riuscito, poco prima di morire, il 18 febbraio scorso a 77 anni, a rivedere le bozze portategli da Rosellina Archinto, l’ amica editrice. Del resto anche i suoi libri precedenti – citiamo per tutti «Caffè Milano» (Scheiwiller 1987) – erano caratterizzati dalla brevità fulminante dei testi. «Un milione di copie» viene festeggiato domani – con l’ intervento di Paolo Mereghetti e Piero Gelli – alla «Milano Libri» in via Verdi, la libreria della moglie Anna Maria, un posto speciale in cui i clienti sono o diventano tutti amici. Aperta nel 1962, tra i soci fondatori aveva anche Franco Cavallone, il notaio (morto anche lui l’ anno scorso a luglio) compagno d’ università del Gandini e suo grande amico. Tanto che fu lui il traduttore, per oltre dieci anni, delle strisce dei «Peanuts» di Schultz: «tutte diligentemente tradotte in ufficio e, finché l’ ufficio non fu mio, con gli originali appoggiati su un cassetto aperto, in basso, e il testo italiano sul piano della scrivania…», come leggiamo in un suo scritto pubblicato dalla «Milano Libri». Giovanni era figlio di un altro «mitico» personaggio: il sarto Gandini, nativo di Fontanellato, autore dei più mirabili tailleur che si siano mai visti in città. Anna Maria viene da Palermo, figlia di Guido Gregorietti, pittore e restauratore, primo conservatore, dal 1952, del museo Poldi Pezzoli. Si sposarono nel ‘ 57, e la loro casa fu ben presto uno dei luoghi d’ incontro della Milano degli anni ‘ 60: quella della Triennale e dei cantautori, della Galleria Milano, del Tencitt, del Santa Tecla, del club Turati… Una casa aperta agli amici milanesi e ai «provinciali» che da Venezia o da Torino, da Parma o da Parigi venivano a vedere cosa succedeva di bello a Milano. Perché allora Milano – oggi pare incredibile – era davvero il posto dove, in un clima di grande rinnovamento culturale, tutto poteva accadere.

 

Borgese Giulia

‘Io, senza laringe così suono il flicorno’

Repubblica — 10 giugno 2006 pagina 7 sezione: BARI Quando soffia, l’ aria dei polmoni non esce più dalla bocca, ma sibila da un foro sul collo, all’ altezza del pomo d’ Adamo. Nonostante questo grave handicap, Salvatore Barile, 42 anni, nato a Parigi, ma residente a Corato, in provincia di Bari, è l’ unico al mondo senza laringe che riesce a suonare uno strumento a fiato. Prima della laringectomia (resasi necessaria perché colpita da un tumore), era un musicista, trombonista per la precisione. Dopo l’ operazione, grazie all’ innesto di una modernissima protesi impiantatagli da un chirurgo di Torino, Andrea Cavalot, è ancora un musicista. Non suona più come prima il trombone perché per farlo ci vogliono due mani, una per impugnarlo, l’ altra per diteggiare i tre tasti. Ora suona il flicorno, una tuba inventata da Adolphe Sax e per questo chiamata anche saxhorn. Ebbene, Barile, il trombonista dalla voce perduta, può suonare il flicorno perché può fare tutto con una mano: tenerlo e accarezzare con le dita i suoi pistoni. L’ altra mano deve restargli libera perché gli serve per far funzionare la protesi che ha incollata da un cerotto al centro del collo. Ma per capire come possa suonare uno strumento a fiato una persona che non inspira e espira più con la bocca occorre spiegare il funzionamento della protesi in silicone. «Normalmente – ha spiegato Andrea Cavalot, otorinolaringoiatra presso la divisione universitaria delle Molinette – l’ aria soffia dai polmoni alla bocca attraverso la trachea. Togliendo la laringe, tuttavia, lo sbocco del fiato non arriva più alla cavità orale, ma si ferma all’ altezza del pomo d’ Adamo». «Per dare a Barile l’ opportunità di suonare ancora – ha aggiunto il chirurgo – gli abbiamo collegato con una ‘fistola’ la trachea all’ esofago. Quindi, gli abbiamo applicato la protesi sul foro del collo». La terribile diagnosi di cancro gli è stata fatta dagli specialisti dell’ ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. «Mentre entravo in sala operatoria – ha ricordato Barile – mi sono detto che non sarebbe finita lì. Avevo come la sensazione che sarei tornato a fare il musicista». Quella sensazione è diventata realtà quando là, in quell’ ospedale dedicato al Santo, è arrivato da Torino lo specialista Cavalot. «Mi avevano chiamato i miei colleghi di San Giovanni Rotondo – ha raccontato il medico torinese – perché accettassi la sfida. In un primo momento pensai a uno scherzo. Quando conobbi Barile, fui conquistato dalla sua enorme forza di volontà. E decisi di aiutarlo. Non pensavo di riuscirci. Ma sentirlo oggi suonare il flicorno, per me, è un autentico miracolo. Un miracolo di Padre Pio». La carriera musicale di Salvatore Barile era iniziata da ragazzino, con la tromba e, poi, il trombone. Una volta diplomato e diventato un musicista affermato, s’ è esibito col trombettista jazzista pugliese Pino Minafra. Insieme, i due hanno partecipato con un’ orchestra di fiati al Festival di musica contemporanea di Donaueschingen, creato da Hindemith nel lontano 1925. Minafra e Barile hanno eseguito anche un concerto live inciso dall’ etichetta tedesca Enja in collaborazione con la Sudwestfunk di Baden Baden. «Poche ore dopo l’ innesto della protesi, tornato in stanza, risvegliato dall’ anestesia, ho voluto subito cimentarmi con il flicorno. La prima nota non è stata un suono, ma un urlo di liberazione. Da quel momento ho ricominciato. Temevo, però, di non poter tornare all’ altezza di prima». Ma gli manca ancora qualcosa per tornare a essere felice. Gli impresari e gli organizzatori dei concerti, vedendolo nelle sue condizioni, non si fidano. E non osano scritturarlo per suonare nonostante sia in grado di reggere un concerto al chiuso per due ore consecutive. «Ho superato la prova tremenda del cancro e dell’ operazione. Ho realizzato il sogno di tornare a suonare. Ora, però, devo combattere contro l’ ostacolo più duro: la diffidenza degli uomini cosiddetti ‘normali’ nei confronti di chi, come me, in qualche modo è diverso». «Fatemi suonare – è il suo appello – mettetemi alla prova. E vi dimostrerò che cosa è capace di fare un trombonista dalla voce perduta». – alberto custodero

Frankenstein

Frankenstein
titolo: Frankenstein
sottotitolo: Di come trasformare i vivi in morti e i morti in testimoni
genere: prosa (dialogo) con scenografie e coreografie
comparse: 15
durata: 70/80 minuti

Non è un bello spettacolo.

Ciò che voi sentirete è la voce
inascoltata di una generazione di operai bruciati
dall’amianto e
dalla barbarie dei loro padroni.

Quella voce è soffocata.
Quasi inascoltabile,
come nel migliore free jazz…
Eppure impetuosa, coinvolgente,
necessaria.

Nei reparti ‘Aste’ e ‘Forgia’ della Breda di Sesto San Giovanni più di settanta persone sono morte
per leucemia, mesotelioma della pleure e altre forme tumorali. Senza parlare del resto del Paese.
Più che una storia, un inganno: un posto di lavoro voluto a tutti i costi, agognato come un
paradiso, che si è rivelato un inferno. Occorre sapere il come e il perché.

Come nasce l’idea

Dalla necessità di tornare a raccontate la storia degli operai della Breda, in particolar modo di
coloro che lavoravano nei reparti ‘aste’ e ‘forgia’; di come si sono, con il passare degli anni, prima
ammalati e poi visti annientare a causa della continua esposizione a sostanze tossiche, in modo
particolare all’amianto. Sono morti più di settanta solo in quei reparti.
E’ uno spaccato di società che occorre spiegare e narrare, come nel caso di Porto Marghera o di
Bhopal.
Dal disincanto degli inizi fino alla emblematica verità: di lavoro si muore.

Silvestro Capelli

Ex operaio della Breda, laringectomizzato, operato più volte per un tumore da amianto. L’unico
sopravvissuto del suo reparto.
Ha iniziato a quattordici anni a lavorare in fabbrica, esattamente all’età in cui ha iniziato ad
ascoltare e apprezzare la musica jazz.
Ora, a distanza di anni, di quella musica non può più fare a meno, perché è diventata la colonna
sonora della sua esistenza.
Ad ogni autore, ad ogni brano, corrisponde un preciso accadimento, una scena ben impressa nelle
mente.
E’ in grado di raccontare quale autore di jazz stava ascoltando nel periodo della strage di piazza
fontana oppure molti anni dopo, durante il sequestro di Aldo Moro o durante dalla vittoria dell’Italia
ai mondiali di calcio.
Una memoria sonora vivente.
Silvestro Capelli è un omone grande con gli occhi propondi e le mani da lavoratore di fonderia.
Sguardo inequivocabile.
Espressione convincente.
Gli amici dicono di lui che rappresenta una forza della natura, una sorta di terremoto. Ed è così. A
sentirlo parlare – nonostante la sua voce ridotta ad un filo stridente, quasi soffocato – viene voglia
di alzarsi, di non stare a guardare. L’operaio Silvestro è impetuoso, coinvolgente, quasi necessario.

Il jazz di Miles Davis

Lui dice che si è appassionato a questo genere musicale perchè porta con sé più ‘stonature’, più
variazioni improvvise.
Un ciclo ritmico che muta timbro e tono per significare altro, per diventare altro… e nasce il free
jazz.
E la sordina di Miles Davis – a ben vedere – è la cifra per comprendere al meglio la sua voce. Lui
ama ripetere che la sordina gliela hanno messa i dirigenti della Breda: parla così, con un fiato
compresso e rantoloso, perchè qualcuno o gli tappava la bocca o gli mozzava la lingua.
Urla. Silvestro è in grado di urlare. Ma la voce non la può più alzare. Gli rimane una grande fisicità
plastica, piena di vibrazioni, di movimenti. Gli piace il ballo e… ovviamente ballare con le donne.
Poi se ti capita di chiedergli qualcosa sul suo genere musicale preferito, si ferma, scuote il capo,
accenna un sorriso, apre la bocca allargando le braccia e sommessamente dice: “è una storia lunga”
e così si racconta fino ad arrivare ad incupirsi: i giorni fatali della malattia, i compagni che
sgocciolano via come da un rubinetto che perde, il contropiede dei processi, degli inganni di tanti
che avrebbero dovuto, avrebbero potuto ma…, la classe operaia che davvero se ne va in paradiso,
la chiusura progressiva della fabbrica. “Devi sapere….” è la frase-tipo di Silvestro pronuncia
quando guarda fisso negli occhi le persone del pubblico.
Emozioni e certezze si fondano in questo oratorio-testimonianza.

Lo spettacolo-esperienza

La struttura scenica dell’unico atto è piuttosto complessa perchè accanto a Silvestro Capelli, un
gruppo di venti attori allestisce una serie di coreografie e movimenti scenici, vera cornice entro la
quale si inserisce e trova spazio la vicenda narrata.
Densa e avvincente la scena centrale dello spettacolo, dove gli attori, all’interno di una danza
acrobatica, costruiscono la fabbrica con elementi metallici realizzati dal gruppo di artisti-scenografi
Monbotan.

Lungo questo viaggio si ascolteranno diversi brani musicali appartenenti a differenti autori Jazz.
E’ qui che l’autobiografico diventa drammatico. Silvestro di fronte al pubblico ripercorre le fasi della
sua malattia e delle sue lotta contro il silenzio e l’indifferenza, soprattutto dei dirigenti.
Verso la fine, un monologo di Lella Costa ripropone al pubblico il tema dell’amianto in fabbrica in
tutta la sua drammaticità.

Il risultato finale è un oratorio di circa settanta minuti molto toccante ma sobrio, asciutto, per nulla
retorico.

Non si concede uno spunto per un piagnisteo, anzi. E’ esercizio di memoria denso di dignità e di
fermezza nel rispetto delle vittime e della necessità della ferma condanna per chi sapeva, taceva e
tradiva.

A questo spettacolo (che è anche una campagna di sensibilizzazione) hanno aderito numerose
personalità del mondo della cultura:

Michael Moore, Ben Pastor, Giulietto Chiesa, Gianni Cipriani, Domenico Cacopardo, Renato Sarti,
Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Alex Zanotelli, Enrico Solito, Oliviero Diliberto, Daniele Sepe,
Paul de Villepin, Carlos Menez y Contrera, Gianfranco Bettin, Maurizio Dianese, Marco Paolini, Paolo
Crepet, Stefano Benni, Daria Bonfietti, Paolo Giuntella, Antonio Secchia, Giorgio Antonucci, Adolfo
Ceretti, Manlio Milani, Alberto Melis, Laura Ferrante, Marisa Ferrario, Massimo Pozzi, Roberto
Galliani, Roberto La Paglia, Carmen Corona, Stefano Levi Della Torre, Gigi Malabarba, Goty Bauer,
Moni Ovadia, Edoarda Masi, Aldo Giannuli, Adriana Zarri, Leonardo Gori, Cooperativa teatrale QDG,
Leonardo Arena, Paolo Brosio, Giuseppe Gozzini, Sabino Zapparoli, Felicita Salaris, Serena, Marco e
Susanna Sini, Lucia Magda Stern, Gottardo Siniscalchi Zini, Luca Martinelli, Anna Maria Crespi, Luca
Porzio Serravalle, Henry De Corbelle, Massimo ed i Rua, Daria Calzetta, Eleonora Bonfanti, Thomas
Engleton, Silvia Fissi, Susanna Taggi, Elena Sofia Malerba, Frederich De Poissy, Suor Enrichetta,
Gianni Confalonieri, Paolo Pasi, Anna Maria Bernasconi, Marco Fossati, Lucio Angelini, Daniel
Volgelmann, www.dramma.it, Collettivo Bellaciao, Giovanni Arduino, Lina Morselli, Massimo
Carlotto, Paolo Brunelli, Luciana Bressan, Teatro Dei Filodrammatici, Emilio Russo, Gianfelice
D’Accolti, Edizioni Eleuthera, Dino Taddei, Eleonora Bellini, Paola Baratto, Carlo Trotta, Giovanni
Ferrario, Ariodante Marianni.

A 150 anni dalla nascita un profilo di Giacomo Puccini

Le melodie dell’amore che tutto il mondo conosce

Giacomo Puccini, uno dei più grandi, conosciuti e
amati compositori d’opera, nasce a Lucca nel 1858.
Quinto di sette fratelli, quando muore il padre, organi-
sta e compositore, ha sei anni e una gran voglia di an-
dare a caccia di uccelli sulle antiche mura della città.
L’estrema povertà e le lezioni d’organo imposte da
uno zio iracondo e severissimo che lo frusta sulle
gambe ad ogni piccolo errore, gli lasciano un segno
indelebile. Adulto e all’apice del successo e dell’agia-
tezza confida: «Ho sempre portato con me un gran
sacco di melanconia. Non ne ho ragione, ma così son
fatto». È scolaro svogliato, allievo disattento fino a
quando, sono le sue parole: «Il Dio Santo mi toccò col
dito mignolo e mi disse: scrivi per il teatro, bada bene,
solo per il teatro. E ho seguito il supremo consiglio».
A 25 anni si diploma al Conservatorio di Milano con
il massimo dei voti.
Puccini, l’uomo
Descriverlo in breve è praticamente impossibile.
Proverò con rapide pennellate. Alto, magro (in gio-
ventù), lineamenti delicati ad eccezione del naso
prominente, labbra sensuali, baffi ben curati, capelli castani, folti e ricci,passo ritmico ma un po’ dondolante, nella mano destra l’immancabile sigaretta, impeccabile in giacche da passeggio o da caccia. Il suo aspetto più
interessante e indefinibile è la personalità.
Fascino innato, modi signorili, battuta fulminante, senso dell’humor, sensibilità quasi femminea, profondo conoscitore del linguaggio teatrale e musicale, perfezionista, riservato, desideroso di solitudine e del contatto con la natura come fonte d’ispirazione.
MA è anche: grossolano, ossessionato dal trascorre-
re del tempo, egocentrico, pigro, appassionato cac-
ciatore, irriducibile giocatore di poker, accanito fu-
matore, esagerato a tavola, attirato dalla velocità in
auto e in barca, profondamente depresso, eccessiva-
mente esaltato e, al di sopra di tutto, dotato di una
carica sessuale prorompente che cerca di sbollentare
con innumerevoli e non sempre edificanti avventure.
Puccini e le donne
La sua attrazione per l’universo femminile è inesauri-
bile e complessa.
È dipendenza affettiva dalla madre, è amore-odio per
Elvira, la donna che per lui lascia marito e figli, lo tra-
volge con la passione e per tutta la vita lo schiavizza
con una devastante gelosia, è affascinazione per la
raffinata, colta moglie di un ricco banchiere londine-
se, è, forse solo maldicenza, la tresca con Dora la ser-
vetta suicida, è tardiva vampata dei sensi la relazione
consumata nelle pinete di Viareggio con una barones-
sa. E per una misteriosa torinese? E per le altre innu-
merevoli infedeltà che candidamente chiama “i miei
piccoli giardini”? Puccini per sua stessa ammissione
non sa amare la donna reale. I suoi amori veri sono le
donne delle sue opere che avvolge con l’inconfondi-
bile onda delle sue melodie che “invitano all’amples-
so”. Manon, Mimì, Tosca, Cio Cio San, Liù, Turandot
e tutte le altre sue eroine non sono che le sfaccettature
del suo inappagato bisogno d’amore.
Puccini padre
Vive in modo conflittuale anche questo legame. Acco-
glie paternamente Fosca, la figlia di primo letto di El-
vira, ma con Antonio, il figlio naturale, illegittimo fi-
no a 18 anni, vive un rapporto segnato da contrasti e
tensioni. Puccini gli scrive lettere affettuose, lo stima
un “gran bravo e buon figliuolo”, ma si insinua il dub-
bio che cerchi in lui soprattutto un paciere, un alleato
comprensivo nella tormentata convivenza con la ma-
dre Elvira. Antonio, nei dolorosissimi momenti della
malattia, gli sarà amorevolmente vicino.
Puccini e la malattia
Verso la fine del 1923, a 65 anni accusa mal di gola e
tosse insistente. Dalle visite specialistiche non risulta
niente di allarmante: è una semplice infiammazione
reumatica e gli consigliano cure termali. Da Monteca-
tini scrive: «Il male è al solito. La cura non mi fa nul-
la». È sfiduciato, depresso e per mesi non compone
una nota per “Turandot”, l’opera che segna il rinnova-
mento del suo linguaggio musicale. Il male alla gola
non passa. Si sottopone ad altre visite e ancora dico-
no: è solo un’infiammazione, forse, causata da un os-
so d’oca che tempo prima gli si è conficcato in gola. Il
figlio organizza un consulto con tre eminenti speciali-
sti e la diagnosi è: papilloma maligno sotto l’epi-
glottide in stadio avanzato. Il 4 novembre 1924, ac-
compagnato dal figlio, parte per Bruxelles dove prati-
cano un innovativo trattamento antitumorale.
Porta con sè gli abbozzi del duetto d’amore e del finale di “Turandot”, ma con impressionante, lucida profezia confida: «L’opera verrà rappresentata incompleta e poiqualcuno uscirà alla ribalta e dirà al pubblico: «A questo punto
il Maestro è morto». Il trattamento si svolge in due
tempi: applicazione esterna di radium, poi l’operazio-
ne, sottovalutando purtroppo il diabete di cui Puccini
soffre da tempo. È il 24 novembre: l’intervento con la
sola anestesia locale, dura 3 ore e 40 minuti. La sua
gola è trapassata da sette aghi imbevuti di radium e in-
seriti nel tumore.
Nella lettera ad un amico scrive: « (….) Sono in croce
come Gesù! Spilli di cristallo nel collo e un buco per
respirare, anch’esso nel collo (….) Dio mio che orro-
re! Dio mi assista!». Soffre moltissimo per la ferita,
per la sete, viene nutrito attraverso il naso, non può
parlare. Inspiegabilmente tra i medici aleggia un certo
ottimismo. La sera del 28 novembre ha un collasso
cardiaco. Ancora cosciente riceve i Sacramenti. Si
spegne all’alba del 29 novembre 1924.
La prima rappresentazione di “Turandot” va in scena
al Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926. L’or-
chestra si interrompe alle ultime note composte per la
piccola, infelice schiava Liù. In un silenzio irreale Ar-
turo Toscanini pronuncia esattamente le parole previ-
ste dal compositore: «A questo punto il Maestro è
morto».
L’angosciosa impotenza di una diagnosi tardiva, l’in-
cognita, forse velata di speranza, di un’operazione al-
l’epoca d’avanguardia, per Puccini hanno imboccato
il tunnel buio di un tragico epilogo. Ma era il 1924, un
tempo lontano anni luce dall’attuale progresso della
medicina e della chirurgia. Oggi Puccini potrebbe an-
cora regalarci quelle sue splendide melodie che arri-
vano diritte al cuore.
Giò Zanuso
Testo consultato: Mosco Carner “Giacomo Puccini”
Ed. Il Saggiatore

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al Conservatorio di Milano con
il massimo dei voti

…Andrea Carlo Ferrari, il cardinale scomodo

Chiedi chi era…

…Andrea Carlo Ferrari,
il cardinale scomodo

Nel Parmense, e in Lombardia, gli hanno intitolato vie, piazze, scuole, cinema, ospedali. Non c’è persona, in questi luoghi, anche giovane, che non abbia mai sentito pronunciare queste due parole: Cardinal Ferrari. Molto probabilmente senza sapere però chi sia stato, che cosa abbia fatto. Eppure il cardinal Ferrari, scomparso a Milano, la città di cui fu arcivescovo per 27 anni, il 2 febbraio 1921, è rimasto vivo con le sue opere, con il ricordo che ha lasciato, tramandato di padre in figlio. Perché il cardinal Ferrari fu un grande prelato, un Signore della Chiesa, ma anche uno straordinario prete, che sapeva parlare alla gente, e in particolare ai ragazzi. Un religioso che si trovò perfino in urto con un papa, Pio X, per il suo modo particolare di essere vicino alla gente che poteva sembrare, a quei tempi, al limite dell’eresia.
Allora, chi era davvero il cardinal Ferrari? Innanzitutto un parmigiano. Anzi, un parmense, visto che nacque in una frazioncina di Palanzano, Lalatta, il 13 agosto 1850, da Giuseppe Ferrari e Maddalena Longarini, che lo fecero battezzare con il nome di Andrea. Poi fu un uomo fortissimamente legato al dogma cattolico, che diffuse in ogni modo, prima come semplice prete a Mariano e a Fornovo, poi come Rettore del Seminario di Parma e, più tardi, come Vescovo di Guastalla prima e di Como poi, fino ad essere nominato, il 21 maggio 1894 (da pochi giorni elevato alla porpora cardinalizia) Arcivescovo di Milano. Fu in quell’occasione che assunse, accanto al nome di battesimo, Andrea, anche quello di Carlo, in onore di San Carlo Borromeo. Instancabile. Un vulcano di iniziative, Andrea Carlo Ferrari. Durante la sua vita, secondo il calcolo di uno dei suoi biografi, pronunciò circa ventimila discorsi e scrisse seimila lettere. Aveva un metodo pastorale tutto suo, antesignano in un certo modo di quello di papa Wojtyla che portò la parola di Dio in ogni angolo del globo: ecco, il cardinal Ferrari, prima da vescovo, poi da arcivescovo, appena si trovava al timone di una diocesi, dal primo giorno cominciava a subito a visitare personalmente tutte le parrocchie, per essere vicino alla gente e ai suoi problemi. Fece tra l’altro istituire presso ogni parrocchia un oratorio sia maschile, sia femminile e affrontò il problema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari. Dotato di ineguagliabile carisma, fu amato dalla gente e un po’ meno, in certi periodi, dalla gerarchia ecclesiastica. Per esempio quando, nel 1898, durante i gravissimi disordini scoppiati a Milano e repressi con il sangue dal generale Fiorenzo Bava Beccaris, fu accusato di essere addirittura fuggito nel giorno più sanguinoso della rivolta con la scusa di una visita pastorale ad Asso. Il generale Bava Beccaris gli scrisse una lettera offensiva e anche la stampa cattolica, con il silenzio del papa, lo denigrò senza complimenti.
Prestò, poi, sul piano pastorale, una particolare attenzione ai problemi del laicato e del suo ruolo nella chiesa. In un’epoca in cui ciò era estremamente innovativo suscitò molte diffidenze negli ambienti curiali che formularono una esplicita accusa di modernismo. Per 5 anni non fu ricevuto dal papa Pio X (Giuseppe Sarto) con il quale ebbe un parziale riaccostamento solo verso la fine del suo pontificato. Solo l’elezione del nuovo papa, Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa) , lo tolse dall’isolamento in cui si era venuto a trovare, anche se il clima di ostitilità negli ambienti curiali romani continuò in modo strisciante, anche se meno appariscente.
Solo il tempo dimostrò che il cardinal Ferrari, con la sua missione pastorale aveva in pratica anticipato i temi della riforma della Chiesa. E il pieno riconoscimento lo ebbe molti anni dopo la scomparsa, (avvenuta a causa di un tumore alla gola, che lo tormentò due anni e che lo lasciò privo della voce – si esprimeva scrivendo biglietti-) quando Giovanni Paolo II lo proclamò Beato il 10 maggio 1987.
(Nelle foto, dall’alto: 1) Il cardinale Andrea Carlo Ferrari; 2) Durante una visita pastorale; 3) Benedicente durante la malattia; 4) Negli ultimi tempi della sua vita).

Don Ivo Libralato

La sua vita

Nato a S. Anna Morosina, frazione di S. Giorgio in Bosco – Padova il 09 aprile 1937, da Libralato Ugo e Gardin Veronica, ultimo di 10 figli, dei quali un altro fratello Sacerdote, P. Alfonso.
Studi elementari a S. Anna Morosina e Abbazia Pisani
Studi medie e superiori nell’Istituto dei Missionari Monfortani a Bergamo
Studi religiosi a Castiglione Torinese (TO)
Studi filosofici e teologici a LORETO (Ancona) nel Seminario Maggiore Monfortano.
Ordinato Sacerdote nel Santuario della Santa Casa di Loreto il 25 febbraio 1961.
Studi universitari nella Pontificia Università del Laterano a Roma, nella quale consegue la Licenza in Teologia dogmatica, con la specializzazione in Mariologia.
Professore di Teologia dogmatica e Mariologia nel Seminario Maggiore Monfortano a Roma.
Dopo una breve parentesi nel nuovo seminario minore dei Monfortani a Verona e alcuni corsi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, nel 1969 parte per il Perù dove rimarrà fino al 1993.

Principali attività svolte nel periodo 1969 – 1993
– Ministero sacerdotale:
–                      parroco in varie parrocchie nelle zone periferiche della città di Lima e sulla Sierra peruviana;
–                     lavoro con gruppi di giovani e con le comunità cristiane di base;
–                     Superiore Regionale dei Missionari Monfortani in Perù;
–                     Formatore dei giovani seminaristi Monfortani peruviani.
– Lavoro educativo:
–                     Promotore e professore nelle scuole statali.
–                     Promotore e fondatore di scuole per ragazzi e giovani poveri, tra le quali spicca
–                     “Fé y Alegría”.
–                     Professore e Decano di Pastorale nell’Istituto Superiore di Teologia (ISET) a Lima
– Lavoro sociale:
–                     Ricostruzione dei villaggi, distrutti dalle inondazioni.
–                     Istallazione di Luce elettrica, rete di acqua potabile in alcuni villaggi poveri
–                     Assessore e Consigliere di gruppi di operai e di maestri e del lavoro comunale.

Principali attività svolte nel periodo 1993 – 2005
–                     Nel 1993 viene richiamato in Italia per un lavoro nell’Amministrazione generale della Congregazione prima come Consigliere Generale, poi nel 1999 Vicario Generale dell’Istituto dei Missionari Monfortani. Nello stesso tempo è nominato Procuratore Generale per le relazioni con la Santa Sede.
–                     Hanno così inizio i grandi viaggi per visitare le missioni proprie della Congregazione, rendersi conto delle varie necessità delle Province, studiarne i problemi, cercando le migliori possibilità di sviluppo. Zone più visitate l’Africa, soprattutto il Congo, Madagascar, Kenia, Malawi, America Latina e Haiti, l’Europa, soprattutto il Portogallo, e alcune visite al Canada e all’India,…
–                     Attualmente continua il suo lavoro sacerdotale e formativo, nonostante nel 2004 abbia subito una laringectomia totale, che l’ha obbligato a un relativo silenzio, soprattutto nella Casa di Formazione dei Missionari Monfortani ad Arbizzano – Verona, con i giovani che domandano di entrare nell’Istituto Missionario dei Monfortani.

Consegna del Drago D’oro

Motivazione

Per il suo lungo impegno missionario a favore delle piccole Parrocchie alla periferia di Lima e Sierra peruviana promotore e fondatore di Scuole per ragazzi e impegno nella ricostruzione di villaggi distrutti dalle inondazioni.

 

Piccoli ricordi della sua infanzia
Le sue sorelle raccontano, che una mattina la mamma, che aveva 45 anni, era andata come al solito a lavorare nei campi, ma dopo qualche ora ha sentito muoversi qualcosa dentro di sé. Corse a casa e fece appena in tempo a distendersi, che è nato un bel bambino. Rimase ferma riposando per un po’, poi ritornò nei campi per mostrarlo a coloro che erano rimasti a lavorare.
La vita dei campi è il ricordo che l’ha accompagnato durante tutta la vita e lungo i suoi numerosi viaggi attraverso la cordillera delle Ande peruviane o attraverso le foreste e i fiumi del Congo o del Madagascar.
La vita del contadino in quei tempi era difficile, ma nello stesso tempo piena di poesia perché il contatto con la natura trasformava il lavoro e il sacrificio in una serena condivisione d’amore e una grande gioia di vivere. Di questo periodo è rimasta soprattutto la gioia di scoprire e apprezzare le piccole cose, rese grandi dall’amore e dalla serenità della vita.
E’ ancora vivo il ricordo dei giochi autunnali dei ragazzi nei campi, mentre le mucche pascolavano tranquille, brucando l’erba; ricordando le belle veglie e le storie raccontate dagli amici e vicini che si radunavano nella stalla, unico posto dove gli animali sostituivano i caloriferi; ricorda il lavoro rallegrato dai canti che durante la mietitura o la vendemmia o mentre si “sunava” il granoturco, veniva dai cori delle varie famiglie che facevano a gara a chi cantava meglio e più forte.
Ha vissuto durante la guerra e molti suoi ricordi sono legati a questo periodo:
quando le sue sorelle maggiori in piena notte, lo strappavano dal letto per correre a ripararsi in un fossato vicino al cimitero, per paura di un bombardamento;
o quando i ragazzi, sentendo avvicinarsi i bombardieri, si mettevano dietro un pagliaio per seguirli con l’occhio finché si vedevano sganciare le bombe sul ponte del Brenta….
O quel giorno in cui un apparecchio mitragliò un carro di campagna e persero le gambe alcune loro amiche di scuola.
Guerra che per gli abitanti di S. Anna, come per altri paesi circostanti, terminò in modo tragico il giorno della Liberazione, quando assieme ai carri armati trionfanti e liberatori, arrivò anche la notizia del massacro dei compaesani e il giorno dopo vedemmo una fila di bare allineate al suolo e riconoscemmo giovani e anziani, fratelli, figli e padri del nostro paese.
Ricordi belli e brutti, gioiosi e tristi di cui i ragazzi non sapevano valutare la gravità, ma che facevano soffrire e vibrare di gioia guidati e accompagnati dalla famiglia, dai maestri di scuola, dai parroci, da persone che sono rimaste modelli di vita e punti di riferimento. Sono stati il perno attorno al quale girava la vita, permettendole di crescere nell’unità, assimilando quanto serviva a maturare la persona, trasformandolo in carne propria e forza di crescita
Non si può dimenticare alcune persone che hanno marcato la sua vita, oltre ai suoi genitori e maestri di scuola, come i parroci Don Albino Todesco, Don Francesco Peterlin…, la maestra “Rina” con la quale trascorrevano i loro pomeriggi giocando e pregando…, una signorina senza titoli, ma che sapeva intrattenere i ragazzi con la delicatezza di una mamma e consigliarli con la saggezza delle migliori esperte.
La Chiesa e la parrocchia erano il luogo dove ci si trovava a pregare, ma anche dove si organizzavano le feste, i giochi, i gruppi di teatro. Ricorda ancora il primo film: che ha visto insieme ad un gruppo di persone da S. Anna recandosi a piedi a S. Giorgio in Bosco per vedere S. Rita da Cascia.
A dieci anni è partito quasi improvvisamente da casa, deciso di intraprendere un’altra strada, una strada che lo ha portato al sacerdozio e a essere missionario.
“Era il 20 settembre 1947 non immaginavo quello che mi aspettava: c’era la gioia di guardare al futuro con fiducia e la certezza di crescere per costruire qualche cosa di nuovo.
Credo che i momenti più belli della mia vita li ho vissuti tra i campi a S. Anna, mangiando il pane bianco, fatto dal nostro grano e preparato con le nostre mani e tra i poveri dell’America Latina dove non c’era pane, ma un cuore che riscaldava, facendo brillare gli occhi d’amore”.
Il Drago D’Oro che andiamo a consegnare con ammirazione e stima al nostro P. Ivo vuole essere un augurio e un incoraggiamento a proseguire nelle varie attività da lui ricoperte con tanta passione e che il suo operato sia un esempio per tutti noi.