Robot per chirurgia mininvasiva: primi interventi in Italia

chirurgia mininvasivaI chirurghi hanno sempre più spesso la tecnologia come braccio destro: in questo contesto, pochi giorni fa al Centro Oncologico Fiorentino è stata eseguita un’asportazione di tumore alla prostata grazie ad un piccolo robot. Si tratta della prima operazione del genere in Europa: la pratica mininvasiva ha previsto unaminuscola incisione a livello ombelicale. Questi tipo di intervento comportano un’alta riduzione dei rischi operatori e un abbreviazione dei tempi di convalescenza post operatoria.
Ad inizio aprile anche all’ospedale Monaldi di Napoli è stato usato un robot, battezzato “Da Vinci” per un intervento tumorale, questa volta alla laringe.
La tecnologia non potrà certo sostituire la competenza nella diagnosi e l’abilità chirurgica, tuttavia gli impianti automatizzati permettono di avere una precisione che l’occhio umano non può raggiungere per limiti naturali.

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Usa, protesi le regala volto nuovo

Giovane rimase sfigurata dopo incidente

Dopo più di dieci anni, Chrissy Steltz, una donna statunitense di 27 anni, è tornata ad avere un volto. La ragazza era rimasta sfigurata a 16 anni, dopo essere sopravvissuta a un colpo di pistola sparato nella notte per sbaglio da un amico. Oggi Chrissy ha una protesi facciale removibile, la prima nel suo genere, che le permette di tornare ad avere un naso e degli occhi. L’impianto è fissato con magneti in titanio alle ossa facciali.

Usa, protesi le regala volto nuovo

 

Per oltre un decennio, Chrissy ha dovuto utilizzare una mascherina da notte con cui ha coperto il vuoto che per tutto questo tempo è stato sul suo viso. Il suo incubo è iniziato durante una festa a Milwaukie, nell’Oregon, dove la donna vive a tutt’oggi. Chrissy è stata colpita da un proiettile sparato nella notte, per sbaglio, da suo un amico. La donna è stata in coma per sei settimane e quando ne è uscita non aveva più un volto, oltre ad aver perso la vista. Anche gli altri sensi erano seriamente compromessi.

Oggi, invece, la giovane ha un viso nuovo. Gli specialisti di chirurgia maxillo-facciale di Eugene, capitanati da Eric Dierks, hanno utilizzato delle vecchie foto della donna e messo a punto una protesi adattabile alla sua età attuale e munita di occhi azzurri, naso e sopracciglia artificiali.

L’impianto è in silicone, fissato con speciali magneti in titanio alle ossa facciali e può essere tolto e riparato in qualsiasi momento. Per rendere la protesi più reale possibile, medici e tecnici hanno usato anche dei trucchi – mascara, ombretto e eyeliner per l’esattezza – e ora il volto nuovo di Chrissy sta rimbalzando sulle principali testate Usa o d’Oltreoceano.

EVOLUZIONE DELLA CHIRURGIA NEL ‘900

“CENTO ANNI DI CHIRURGIA
Storia e cronache della Chirurgia Italiana del XX secolo

 

Cap. III
EVOLUZIONE DELLA CHIRURGIA NEL ‘900

I cento anni di Chirurgia del XX Secolo quasi coincidono con i primi cento anni della chirurgia moderna. Emblematicamente si può ricordare che nel 1899 Mikulicz introdusse l’uso delle mascherine e che solo pochi anni prima erano state inventate le autoclavi per la sterilizzazione ed impiegati camici e guanti di gomma.
Le sale operatorie con l’inizio del ‘900 cominciarono a diventare tali; prima erano a lungo state o anfiteatri didattici o luoghi appartati non dissimili dalle cucine domestiche.
Nel “Policlinico Umberto I” di Roma, inaugurato nel 1899 le camere operatorie dei padiglioni chirurgici che sono sopravvissute sino agli anni 80 del XX Secolo, rappresentarono il momento tecnico più avanzato della organizzazione chirurgica di inizio secolo. Ovviamente erano prive di impiantistica e di sistemi di sicurezza ma erano davvero ampie, contenevano due letti operatori ciascuna e soprattutto erano costruite all’ultimo piano con grandi vetrate sul soffitto rotondo che era il tetto dell’edificio, affinchè la luce del sole cadesse copiosamente sul letto operatorio.
Trent’anni più tardi, non sono dissimili le nuove sale.
operatorie dell’Istituto ”Regina Elena”, ma in più, una di esse è dotata di una completa parete di vetro, per consentire agli altri medici di assistere agli interventi dall’esterno della sala operatoria. Da quella posizione era però difficile avere più che una visione d’insieme ed il chirurgo teneva celati i segreti della sua arte.
Dopo la II Guerra Mondiale c’è l’esplosione tecnologica e i macchinari invadono le sale operatorie. È un crescendo di respiratori automatici, sistemi di monitoraggio, elettrobisturi, aspiratori, scialitiche, endoscopi sino a che la chirurgia mininvasiva introduce anche mini impianti televisivi.
I locali assumono caratteristiche sempre più avveniristiche, grandi maioliche alle pareti sino al soffitto, pavimenti in materiali sofisticati. Sistemi di sospensione sui quali girano monitor, pompe, infusori, defibrillatori, manometri ed altro.
Tubature e cavi flessibili sbucano da pareti, pavimenti o soffitti, per gas, per liquidi, per aspirazione. Ed ancora i sistemi di sicurezza per l’eliminazione dei gas, contro i rischi da correnti elettriche, la regolazione automatica della temperatura ambiente e la sterilizzazione dell’aria, sino ai flussi laminari e agli allarmi antifumo.
Le luci diventano soffuse ed autoregolanti, le porte a chiusura automatica con cellule fotoelettriche e i tavoli operatori, dai tavolacci di inizio secolo, diventano meravigliosi congegni metallici, snodabili per le diverse posizioni del malato, a funzionamento elettrico e telecomandato.
Insomma la distanza con le navi spaziali tende a zero: per l’esplorazione dello spazio-corpo, giù giù verso la cellula e l’infinito del genoma, c’è la stessa tecnologia che per lo spazio-atmosfera, verso la Via Lattea e l’altro infinito.
Lo stesso vale per lo strumentario chirurgico. I ferri, almeno quelli da taglio e da presa, cambiano poco, anzi
parte di essi seguitano ad essere quelli dei libri di Celso. II bisturi, le forbici, le pinze, portano però per lo più nomi di chirurghi illustri dei secoli XVIII e XIX ed inizio XX: Péan, Mikulicz, Kocher, Kelly e poi Mayo, Metzenbaum, Allis, sino a Francesco Durante ed alla sua apprezzatissima pinza chirurgica. Cambiano invece i materiali: leghe sempre più sofisticate, metalli eccellenti, dall’acciaio al tantalio. E compaiono strumenti più complessi, dal gastrostato di inizio secolo per le anastomosi gastrodigiunali dopo resezione antrale, all’angiostato di Dogliotti per l’anastomosi porta-cava che faciliterà tutta la chirurgia dell’ipertensione portale ed a tutti gli altri angiostati per chirurgia vascolare e ferri per cardio o neurochirurgia, importati d’oltreoceano.
Ed evolvono anche i materiali di sutura. Nel 1876 era stato prodotto il catgut e prima ancora il lino e la seta. Nel 1920 compaiono gli aghi atraumatici, ossia ago e filo come tutt’uno, inscindibile ed i fili sintetici di nylon. Ci sarà in quel primo ‘900 un grande fermento alla ricerca di sistemi di sutura meccanica, come le anastomosi intestinali col bottone di Murphy.
Le vere cucitrici automatiche comparvero in Russia negli anni ’60: tecnologia primordiale ma di grande efficacia, come lo fu anche quella degli Sputnik per le esplorazioni spaziali. Subito dopo la ricerca americana dette i suoi frutti, nacquero gli Stapler e la chirurgia viscerale migliorò i propri risultati in maniera significativa. Le suture manuali, quelle con l’ago ed il filo, arretrarono di fronte alle macchine. Non basterà a risollevarne le sorti, la produzione di fili sintetici riassorbibili costituiti da acido di poliglicolico: sono solo un miglioramento tardivo di tecniche in declino. Il futuro, dicono gli esperti, verrà dalla chimica e sarà delle colle.
Con gli anni ’70 si apre la strada delle fibre di vetro e ne consegue uno straordinario sviluppo delle endoscopie. Poco dopo saranno gli ultrasuoni ed i laser ad arricchire
le sale operatorie- Infine, l’ultimo decennio è caratterizzato dalla chirurgia mininvasiva in ogni settore, nella chirurgia addominale, in quella toracica, in quella sottocutanea, in quella delle cavità articolari. È il momento della miniaturizzazione. È la volta della chirurgia endoluminale, in urologia, in chirurgia vascolare e cardiaca, in neurochirurgia. Si apre la strada della robotica, dell’informatica, della realtà virtuale.
La tecnologia diventa momento centrale nel lavoro del chirurgo e condiziona la qualità e lo sviluppo: nascono i chirurghi laparoscopici, i radiologi interventisti, i chirurghi endovascolari e gli endourologi, gli specialisti del laser, gli ecoendoscopisti, gli endoscopisti operativi. Ogni macchina richiede e definisce un proprio esperto, talvolta un nuovo chirurgo.
Ma altri grandi eventi hanno determinato il progresso della chirurgia nel 20° secolo. Prima di tutto gli antibiotici. Fleming scoprì la penicillina negli anni ’20 ma la sua efficacia e diffusione è storicamente legata alla II guerra mondiale. E simultaneamente nel 1922 era stata sintetizzata l’insulina ed avviata la regolazione farmacologica del diabete. Fu nell’insieme, la seconda svolta, dopo Lister e l’antisepsi, nella guerra alle infezioni.
L’altro grande progresso fu la terapia infusionale endovenosa e le emotrasfusioni, dopo la definizione dei gruppi sanguigni. Una grande strada di scoperte, dai derivati del sangue, alla separazione delle sue componenti, al suo recupero intraoperatorio, alla nutrizione parenterale totale.
E ancora il curaro ed i suoi derivati, proprio quello delle frecce mortali delle tribù indiane del Nord America. Saranno la tubocurarina prima e la succinilcolina poi, gli eredi naturali, che apriranno la strada all’anestesia per intubazione, alla baronarcosi, al cosiddetto rilasciamento muscolare, al controllo completo della funzione respiratoria in corso di intervento e di conseguenza, all’accesso chirurgico ideale nelle grandi cavità
toracica e addominale. L’anestesista diventa uno specialista a pieno titolo: per tutta la seconda metà del secolo sarà l’amico inseparabile del chirurgo. Ed assumerà anche altri profili altrettanto pregnanti, come rianimatore e terapista del dolore. Cambia in tal modo anche l’organizzazione del lavoro, o meglio, il percorso assistenziale dell’operato: non più dalla degenza alla sala operatoria e ritorno, nella commozione dei parenti al capezzale, ma dalla sala operatoria ai centri di terapia intensiva e subintensiva, nell’isolamento gelido e tecnologico, dove solo le macchine hanno voce, perché tutto ritorni come prima, presto e bene, nella trepidazione dei parenti bloccati dietro vetrate implacabili e nei corridoi dei passi perduti.
E nel rapporto tra malato, malattia, intervento, ricovero, ospedale, dimissione e convalescenza, tanta acqua è passata durante il 1900 modificando aspettative, offerte e richieste.
Nel 1925, quando il Re d’Italia si operò di ernia, i suoi diari rivelano che restò immobilizzato a letto dieci giorni. L’immobilità era considerata fondamentale. E non solo per l’ernia. Ad esempio, i chirurghi affrontano la prima Guerra mondiale con la generale convinzione che le ferite addominali non dovessero essere operate e che l’infermo dovesse restare immobile. Ci si riferiva alla dottrina di Reclus secondo il quale le piccole perforazioni intestinali guarivano per erniazione della mucosa e quelle grandi per accollamento delle altre anse, favorito dall’immobilità. Bastò quella guerra a smentire Reclus ed a spingere i chirurghi ad operare i poveri peritonitici. Non bastò invece per una riabilitazione più rapida del Re operato e degli altri milioni di erniosi prima e dopo di lui, sino a che non cambiò la filosofia e prevalse il concetto di pronta riabilitazione, di ritorno precoce a casa, di recupero stimolato della piena integrità.
All’inizio del Secolo il malato accedeva controvoglia
al ricovero, l’Ospedale veniva guardato come luogo di sofferenza e di morte. Meglio era curarsi a casa ed anche operarcisi. Solo con gli anni ’60 con le Riforme Ospedaliere e la qualificazione degli Ospedali, la gente acquista la fiducia nel ricovero, vi accede con la speranza di ritrovare la salute, di guarire con la chirurgia. Ed il ricovero e la degenza assumono addirittura un valore taumaturgico. La richiesta diventa di ricovero per ogni necessità, di ricoveri lunghi, di convalescenze tutte in Ospedale.
Un vento nuovo e diverso soffierà solo a fine secolo: la chirurgia sempre più sofisticata e meno invasiva comporta un trauma minore e l’aspirazione degli infermi è di giovarsi con fiducia di tutto il progresso, per avere cure ed interventi a rapida guarigione ed a breve degenza. Cambia perciò la struttura stessa dell’Ospedale: non più tante degenze ma tanti servizi. La gloriosa corsia Sistina dell’Ospedale Santo Spirito in Sassia di Roma, la più antica del mondo, 800 anni di vita celebrati nel 1998, forte di oltre 200 letti, cambia destino e diventa una straordinaria area monumentale per Convegni: tanti letti non servono più. L’Ospedale del Santo Spirito in Sassia costruito nel 1198, a ridosso della Basilica di San Pietro, per soccorrere i pellegrini e che nel massimo della espansione accoglieva sino a 1300 infermi, con l’ultima ristrutturazione del 1998 per far fronte ai bisogni del Giubileo del 2000, dilata i servizi e limita la propria area di degenza a 220 letti.
Nei venti anni a cavallo dell’inizio del XX secolo la chirurgia che sostanzierà i successivi decenni viene quasi tutta pensata, descritta e sperimentata. L’anestesia e l’antisepsi sono state le due condizioni permittenti ma morbilità e mortalità sono ancora troppo alte.
In quell’epoca, i libri di testo erano quelli di Medicina Operatoria di Francesco Occhini e di Durante e Leotta, Scuola romana: descrizioni anatomiche stupende, per la chirurgia degli arti, delle articolazioni ed anche
del tronco ma non dei visceri. La chirurgia toracica ed addominale, cosiddetta maggiore, ha ancora bisogno di decenni per essere sistematizzata. Lo farà negli anni ’40 Uffreduzzi e dopo la sua prematura morte lo completerà Dogliotti, Scuola di Torino, nel 1948 ed è il primo testo italiano di chirurgia completo ed enciclopedico. Trenta anni dopo sarà aggiornato da Angelo Paletto, erede della stessa Scuola.
Ma quale è stata la chirurgia durante il Secolo e quale la sua evoluzione? Si possono individuare tre fasi, separate dalle due guerre mondiali.
La prima fase può essere definita pionieristica ed è direttamente collegata alla seconda metà del secolo XIX: è la chirurgia asettica ed indolore ossia la chirurgia moderna che si misura con i nuovi grandi problemi passando dall’esterno all’interno del corpo umano. Il chirurgo diventa a sua volta internista, affronta la patologia viscerale, strappa ai medici competenze diagnostiche, propone la chirurgia digestiva, dello stomaco e del colon, quella urologica dei reni e della vescica, quella ginecologica e quella cranica per i traumi e non solo.
La chirurgia dello stomaco anche nelle mani di Billroth ha una mortalità alta. A Pèan, che in realtà aveva fatto la prima resezione gastrica per cancro, la paziente era morta subito. Anche Miles, quando propose e pubblicò nel 1910 la resezione addomino-perineale del retto, dovette riportare un’alta mortalità. I grandi clinici chirurghi italiani dell’epoca Durante, D’Antona, Bassini, Bottini, Bruno, Ceccherelli esitano molto di fronte a tante difficoltà e complicanze. Sposano con grande entusiasmo la chirurgia della tiroide, della mammella, dell’ernia, degli arti, delle ossa, del collo, della.faccia, della bocca e per tale via si avventurano nel cranio. Per queste chirurgie ci fu il grande riconoscimento internazionale con l’assegnazione, per tutti, a Kocher del Premio Nobel nel 1909 per la chirurgia della tiroide.
E prima della II guerra mondiale tutta la grande chirurgia viscerale era stata inventata.

Il primo intervento addominale in elezione coronato da successo fu di E. McDowell che nel 1809 asportò un voluminoso tumore ovarico.
Nella seconda metà del secolo XIX la chirurgia viscerale si legò al nome di Theodor Billroth, Clinico chirurgo di Vienna e padre della chirurgia resettiva dello stomaco, che propose la resezione gastrica distale nelle due ben note varianti ricostruttive con o senza esclusione duodenale. La prima resezione pilorica per cancro è probabilmente attribuibile a Pèan nel 1879 con esito sfavorevole. Billroth fu anche il primo ad eseguire la laringectomia totale.
Simultaneamente R. Von Volkman eseguiva le prime escissioni di cancro del retto e nel 1889 McBurney proponeva l’appendicectomia.
Nel 1890 Halsted a Baltimora introdusse, con l’uso dei guanti di gomma, anche il concetto di chirurgia regionale inventando la mastectomia radicale per cancro. Negli stessi anni Young eseguiva la prostatectomia.
Nel nuovo Secolo XX le tappe della chirurgia viscerale sono segnate nel 1906 da Wertheim con l’isterectomia allargata, nel 1910 da Miles con l’amputazione addomino perineale del retto, nel 1913 da Thorek con l’esofagectomia.

La guerra accelerò i tempi per la chirurgia nelle cavità celomatiche. Le suture intestinali e le resezioni viscerali dei feriti divennero uno straordinario laboratorio di progresso negli ospedali militari da campo, le cosiddette Ambulanze di Armata, dislocate sul fronte, comandate da grandi clinici come Giannettasio e Alessandri. Molti di quei feriti morirono ma molti guarirono testimoniando che la chirurgia addominale era possibile.
La seconda fase della chirurgia del XX secolo è quella dei capitani coraggiosi.
Dovunque nel Paese, in Ospedali grandi e piccoli, in condizioni ambientali certamente precarie, tutto quello che era stato descritto cominciò a diventare realtà pratica. Lo testimoniano gli Atti dei Congressi della Società Italiana di Chirurgia nei quali già figurano casistiche importanti di patologia e chirurgia viscerale sullo stomaco, sulle vie biliari, sul colon, non senza dispiaceri quanto a morbilità e mortalità

Analoga era la situazione in tutto il mondo. Hartmann, Chirurgo dell’Hotel Dieu di Parigi, pubblicando nel 1931 per la Masson il suo libro “Chirurgia del retto” riporta l’intera casistica del suo servizio di cinque anni tra il 1919 e il 1923, così sintetizzata: testa e collo 531 operazioni, 29 morti; torace e rachide 512 operazioni, 24 morti; fegato, milza e pancreas 160 operazioni, 17 morti; addome, stomaco ed intestino 1998 operazioni, 148 morti; ano e retto 485 operazioni, 14 morti; vie urinarie 87 operazioni, 8 morti.
Nel complesso 6747 interventi con 307 morti ossia una mortalità del 4,5%.
Ma nel dettaglio le cifre sono più dolorose, se si esamina la sola chirurgia viscerale vera e propria: 19 emicolectomie destre con 5 decessi, 11 resezioni del colon pelvico con 2 decessi, 202 gastroenterostomie posteriori con 30 decessi, 30 gastrostomie con 11 decessi, 16 amputazioni addomino-peritoneali del retto con 7 decessi e 30 amputazioni solo perineali del retto con 4 morti.
Delle 7 Miles decedute 2 morirono per cellulite pelvica, 1 per pielonefrite, 1 di pelviperitonite, 1 di polmonite bilaterale. Non è descritta la causa di morte dei due casi restanti.

Ed in quegli anni si completano le proposte tecniche sugli organi più difficili, il pancreas con Wipple nel 1935 ed il polmone con Graham nello stesso periodo. Ed anche prendono l’avvio gli studi sui trapianti che avevano ottenuto grande riconoscimento col Premio Nobel concesso a Carrel nel 1912. E si affaccia l’ipotesi della chirurgia cardiaca e vascolare con l’embolectomia dell’arteria polmonare proposta da Trendelemburg e realizzata anche a Roma in una notte del 1935 da Valdoni e Stefanini, poco più che trentenni.

La terza fase della Chirurgia del Secolo prende il via nella tragedia della II Guerra Mondiale quando con baronarcosi, emotrasfusioni ed antibiotici tutto diviene possibile. Dilaga la grande chirurgia viscerale ed anche quella del cuore, del polmone, del fegato, della aorta, dei trapianti e di tutte le protesi. Nasce lo slogan “grande taglio, grande chirurgo” o “grande chirurgo, grande taglio” ed ogni manovra sembra possibile e giustificata. La chirurgia dei tumori diventa regionale e radicale. Comincia la straordinaria avventura dei trapianti d’organo. Per tutto ciò, la morbilità conseguente sembra ragionevole e contenuta, l’invalidità, anche permanente ma inevitabile, la mortalità compatibile con la necessità e la speranza.
Sono gli anni delle gastrectomie totali, delle esofagectomie con ricostruzioni cervico-addominali, delle pneumonectomie intrapericardiche, delle pancreasectomie regionali con resezione vascolare, delle proctocolectomie totali, delle nefrectomie allargate, delle pelvectomie radicali, dei trapianti d’organo. La teoria e i risultati tecnici spingono a considerare questi interventi come la sola soluzione possibile soprattutto nel cancro. Le scuole chirurgiche si caratterizzano e competono proprio sulla aggressività e sulla estensione della exeresi. Per almeno 30 anni si avanza solo su questa strada.
Poi l’introduzione della quadrantectomia nel cancro della mammella, il rapido abbandono della mastectomia radicale devastante, aprono un’altra strada, quella della chirurgia ragionata, dell’exeresi più limitata, del rispetto dell’integrità dell’organismo, della invasività contenuta, del recupero delle funzioni organiche, della immagine corporea, della vita di relazione e di quella lavorativa. Ritrovano il loro legittimo ruolo, le gastrectomie subtotali, le resezioni coliche segmentane, le lobectomie polmonari mentre si discute e si studiano le linfoadenectomie e le terapie integrate.
La Tecnologia diventa, per questo nuovo credo, un potente motore. Di ogni organo la Chirurgia si limita ad asportare solo la parte malata, tentando di reinstaurare una sufficiente funzione e si cerca la strada per completare il risultato chirurgico con altre terapie. La riabilitazione diventa un momento fondamentale anche in chirurgia. Sorge la Chirurgia mininvasiva, quella con le sonde, quella del massimo rispetto del corpo. Tramonta l’ipotesi del “grande chirurgo, grande taglio”.
Su questo scenario si chiude il meraviglioso XX secolo.
La prospettiva è quella di un futuro ancora più straordinario per il quale si possono formulare tante stravaganti ed immaginifiche ipotesi ed una sola certezza: succederanno cose bellissime per la storia dell’uomo e per la sua salute. Per quanto riguarda i chirurghi in generale, sorge un grande dubbio, se cioè nello straordinario sviluppo tecnologico lo strapotere delle macchine non prevarrà sull’uomo e se insomma dopo tanti millenni il medico non debba lasciare il centro del campo diagnostico-terapeutico alla macchina, rassegnandosi a diventarne non l’utilizzatore ma l’assistente.

IL BOMBARDAMENTO DI S.LORENZO



Una pagina splendida è quella scritta dai chirurghi a Roma durante i bombardamenti compiuti sulla città il 19 luglio ed il 13 agosto del 1943. Una pagina di atti d’eroismo, di grande sacrificio, di alta professionalità in un’atmosfera, quasi irreale, di angoscia, terrore, rabbia, voglia di sopravvivere. L’orrore della guerra, il coraggio e la volontà dei medici. Una pagina che merita di essere raccontata attraverso le testimonianze del tempo, le voci degli scampati, le cronache dei giornali e soprattutto la ricostruzione di un giornalista, Cesare De Simone, che ai bombardamenti ha dedicato un libro Venti angeli sopra Roma.
Lunedì 19 luglio 1943, a Roma, in edicola c’è solo Il Messaggero, gli altri quotidiani il lunedì non escono: sono II Popolo d’Italia, II Giornale d’Italia, Le Vie dell’Aria. In prima pagina c’è il radiodiscorso di Sforza. E c’è anche il bollettino di guerra n. 1149 nel quale si annuncia l’abbandono, sotto gli attacchi delle forze nemiche, di Agrigento. E c’è la notizia che Napoli è stata nuovamente bombardata. In cronaca un avviso che è quasi un presagio: riporta una serie di norme riservate ai medici i quali sono invitati, in caso di allarme aereo, a recarsi al Comando di zona della Vigilanza Urbana per essere destinati nei quartieri dove dovesse essere urgente la loro presenza.

Su Il Messaggero c’è anche l’annuncio che i consumatori residenti a Roma possono effettuare un quarto prelevamento di patate, un chilo. E anche una razione di carne bovina. C’è anche voglia di dimenticare l’angoscia del momento. Al “Teatro Quirino” la Compagnia comica Tommei-Sabbatini-Bacci-Raviglia presenta “La città delle lucciole” fantasia musicale in due tempi. Sulla locandina è scritto che “II teatro è arieggiato dalla cupola apribile”. Utile avviso perché fa caldo, alle otto del mattino il termometro già segna 27 gradi che alle 11, ora del bombardamento, arriveranno a 40 gradi. Una giornata di rara limpidezza senza una bava di vento. Chi ha tempo e voglia di andare al cinema può scegliere fra “Le due orfanelle” con Alida Valli e Osvaldo Valenti allo “Smeraldo”, “La Gorgona” con Mariella Lotti al “Salone Umberto” e “Pazzo d’Amore” con “il comicissimo Rascel” al “Farnese”.

Un altro tornante della storia sta girando su Roma ma gli abitanti non lo sanno. “Lo sa – scrive De Simone -Eisenhower ad Algeri. Lo sanno nella palazzina attorniata dalle palme del Comando NAAF ad Orano, gli ufficiali che si versano il caffè e bevono acqua ghiacciata mentre seguono sulle carte la rotta delle squadriglie che convergono verso Roma dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia e dall’Egitto. Lo sanno anche i settemila uomini in giubbotto di cuoio seduti sui seggiolini delle Fortezze volanti, dei Marauder, dei Mitchell, dei caccia P-38 Lightning in volo sul mare. La sterminata nuvola di ferro e di fuoco sta puntando su Roma nel cielo azzurro, dalla parte del mare e del sole, con le bombe da 500 e 1.000 libbre, gli spezzoni incendiari al fosforo e alla termite-magnesio, i proiettili traccianti, i cannoncini. In cuffia gli uomini sentono Glenn Miller e la tromba di Louis Armstrong o Ella Fitzgerald. E bevono Coca Cola e té aromatizzato”.
Il bombardamento ha inizio alle 11,03e termina alle 13,45 in due fasi: dalle 11,03 alle 12,10 sugli scali ferroviari del Littorio e di San Lorenzo come obiettivi primari, dalle 12,12 alle 13,35 sugli aeroporti del Littorio e di Ciampino. Si avvicendano, in sei ondate, 930 velivoli. Roma è aggredita, mutilata, uccisa dalla più potente flotta aerea che sia stata mai mossa nei cieli italiani. In poco più di due ore d’apocalisse, su Roma vengono sganciate 1.060 tonnellate di esplosivo, qualcosa come 4 mila fra bombe e spezzoni incendiari. La più pesante incursione come numero di vittime: dai 2.800ai 3.000 morti, non meno di diecimila feriti.
Ed ecco la pagina eroica dei medici. Gli ospedali più vicini all’area colpita sono il Policlinico “Umberto I” e il “San Giovanni”, i due maggiori nosocomi di Roma, e l’ospedale militare del Celio. In pochi minuti, mentre gli aerei stanno ancora martoriando la città infierendo su interi quartieri, le corsie si intasano. Morti e feriti vengono prima sistemati sui materassi, poi sulle coperte infine sui giornali o sulla nuda terra.
Orazio Pesce, medico traumatologo, primario al CTO della Garbatella, il giorno del bombardamento – aveva 23 anni e frequentava il sesto anno di medicina – si trovava al secondo padiglione di chirurgia al Policlinico “Umberto I”. “Pochi minuti dopo le undici – ricorda – arrivano i primi feriti e i primi morti. Una scena terrificante. Bianchi di polvere e di calcinacci, pieni di sangue. Un’intera mattinata al Policlinico a medicare, disinfettare, ricucire ferite. Feriti e morti con ambulanze ma anche con carretti, carrettini, motofurgoni, camioncini. Un continuo arrivare. Nel pomeriggio mi chiamano al secondo padiglione dove c’è una camera operatoria in funzione. Ore e ore, fino alla mattina dopo, ad operare soprattutto amputazioni di braccia e gambe, gambe e braccia “.
L’ospedale Regina Elena – scrive De Simone – il più vicino al piazzale di San Lorenzo, un ospedale specializzato in oncologia, ma con un paio di reparti destinati ad emergenza, è messo fuori uso dalle bombe”. Crollano due padiglioni dell’Istituto. I degenti sono prontamente trasportati nei rifugi sotterranei, ma due équipe restano al lavoro perché gli interventi sono in una fase avanzata. Una delle équipe è diretta da Raffaele Bastianelli che dell’Istituto è stato il fondatore e adesso ne è il direttore. Un altro episodio ha per teatro sempre il “Regina Elena”. Poche ore prima del bombardamento, il chirurgo Luisini visita un capitano di fanteria che era stato ricoverato nell’Istituto per la frattura della spalla sinistra sul fronte tunisino. Il medico comunica all’ufficiale che è guarito e può tornare al suo 40° reggimento della “Divisione Trieste”. Praticamente Luisini salva la vita all’ufficiale, Enzo Stimolo di 27 anni. Infatti l’ufficiale in attesa di avere dall’Istituto il foglio di dimissione, approfitta del tempo necessario per la stesura del documento, si reca alla stazione per acquistare il biglietto ferroviario per raggiungere il suo Corpo. Appena esce dal “Regina Elena” piovono le bombe.
Si saturano – scrive De Simone – rapidamente di feriti il Policlinico, il San Giovanni, l’ospedale militare del Celio, il San Giacomo, il San Camillo, il Santo Spirito, il Fatebenefratelli, il Cesare Battisti (l’altro ospedale militare in via Ramazzini a Monteverde). Si saturano le cliniche private. I feriti in condizioni meno gravi vengono trasportati negli ospedali di Frascati, Tivoli e Albano. Il primo ferito registrato è quello che viene trasportato alle 11,10 al San Giovanni. “Tavolieri Antonio – è scritto sul registro del pronto soccorso – anni 57, domiciliato ad Ardea, spappolamento arti inferiori ed escoriazioni alla faccia”.
Una testimone dell’abnegazione dei medici e del personale di assistenza è Letizia Zappelli, all’epoca infermiera volontaria della Croce Rossa al Celio. “Stavo all’Ospedale Militare – racconta dove c’era un reparto sempre pronto all’emergenza. Appena i feriti giungevano, li mandavamo, a seconda della gravità, in una delle cinque sale operatorie dirette dal colonnello medico Tarquini. Si dovevano passare in continuazione stracci imbevuti di acqua ossigenata per togliere il sangue ed impedire che coagulasse in terra”. In un documento inviato alle autorità dal dottor P. Santoli, colonnello medico dell’ospedale del Celio, è scritto che ” numerosi sono stati gli interventi demolitivi per spappolamento degli arti inferiori, numerose le laparatomie per lesioni addominali; più di uno gli interventi al cranio; complessivamente un centinaio gli interventi in cavità. Le camere operatorie hanno funzionato ininterrottamente fino a notte inoltrata, qualche chirurgo ha prestato la sua opera per più di dieci ore consecutive”. Per il grande contributo dato dai medici, il nuovo ministro della guerra del governo Badoglio, Sorice, ordina alla Direzione della Sanità Militare di inviare una lettera di compiacimento ai sanitari del Celio.
Roma è in ginocchio. Si contano i morti. Gli ospedali non reggono all’urto dei feriti. Alle 17,20 la Mercedes nera papale con il guidoncino bianco e giallo, esce dal portone su via Angelica. A bordo Pio XII accompagnato dal sostituto segretario di stato Mons. Montini. Il Papa raggiunge il quartiere di San Lorenzo e a piedi, circondato dalla folla, va la Basilica. Il Papa si fa largo fra la folla che grida “pace, pace…”. È la prima volta che Pio XII esce dal Vaticano dall’inizio della guerra. Ed è anche la prima personalità che giunge sul luogo del bombardamento. La folla continua a stringersi intorno al Pontefice che appare visibilmente commosso. Una moltitudine, fra cittadini e militari.
Ben altra accoglienza la gente di Roma riserva al sovrano Vittorio Emanuele III quando si reca in visita alle zone colpite. Grida ostili, addirittura “assassini…” La regina Elena visita i feriti, ma avverte un clima poco favorevole. Bene accolta invece dalla gente di San Lorenzo la principessa Maria José. Mussolini, che si trovava a Feltre in un incontro con Hitler mentre Roma viene bombardata, rientra a Roma in aereo nel tardo pomeriggio, ma rinvia al giorno successivo la visita ai luoghi colpiti dalle bombe alleate.
Ventiquattro giorni dopo Roma viene colpita di nuovo. Alle ore 11 in punto, tre minuti prima che nel primo bombardamento. È il venerdì 13 agosto 1943. Un’altra giornata limpida, azzurra, con il termometro che indica 31 gradi. Arrivano sul cielo di Roma 409 aerei decollati dalla Tunisia, dall’Algeria e da Pantelleria. L’incursione dura un’ora e mezza. Questa volta le Fortezze volanti volano su una Roma che “se dall’alto – scrive De Simone – sembra la stessa, nei Palazzi che contano è cambiata. Mussolini è in carcere, il suo regime è stato spazzato via, al Viminale, alla scrivania di capo del Governo, c’è il maresciallo Badoglio che già si sta attivando per raggiungere un’intesa con gli Alleati. Le bombe seminano morte e dolore. Quando suonano le sirene del “cessato allarme”, Pio XII dà disposizione di preparare la sua Mercedes nera e alle 12,45 è già per le vie di Roma fino a Piazza San Giovanni, Porta Maggiore, Via Taranto. La folla prega e grida “Pace, pace…”. Il giorno dopo, è il 14 agosto, a meno di 24 ore dal bombardamento, il governo Badoglio dichiara “Roma, città aperta”.
Fra tanto dolore, fra tanti episodi di eroismo, fra tante distruzioni, un episodio che fa sorridere, protagonista un chirurgo di cui un testimone del tempo, il già citato Orazio Pesce, medico traumatologo, studente di medicina all’epoca del bombardamento del 19 luglio, non vuol rivelare il nome.” Da quel giorno del bombardamento – racconta – un chirurgo emerito, professore di grande valore, Primario al Policlinico, ogni mattina alle 10,30, qualsiasi intervento stesse facendo, smetteva, posava i ferri, li dava all’Aiuto o ad un collega, saliva in macchina e se ne scappava a piazza San Pietro perché, diceva, lì stava al sicuro. Andava in un caffè di via della Conciliazione, prendeva un cappuccino seduto fuori del bar. Tanto gli americani vengono sempre alle 11, diceva. I colleghi lo sfottevano e lui rispondeva serio: e no, io alle 11 sto in piazza San Pietro, così mi salvo.

LA SCUOLA ROMANA


Quell’inverno del 1966 era cominciato dolcemente senza freddo e senza pioggia come molti inverni romani di quei decenni. L’Italia del boom godeva della stabilità dei Governi presieduti da Aldo Moro: poca inflazione, poca conflittualità, molto benessere, consumismo e assistenzialismo. Nessun presagio evidente del ‘68 che pure era alle porte. Roma capitale cresceva di immigrazione ed alta natalità e con essa si espandevano i quartieri dormitorio e le borgate.

In questi primi giorni di novembre ’66 Roma ritrovava il suo volto di Capitale della pace: era arrivato Arvell Hariman, Ambasciatore viaggiante del Presidente Johnson, per discutere col governo italiano la soluzione negoziale per la pace in Vietnam. Dopo gli incontri cordiali con Moro, Nenni e Fanfani, Hariman aveva incontrato Paolo VI e gli aveva illustrato i risultati della Conferenza di Manila: tutto il Sud est asiatico aveva fatto pressione sugli USA per la pace.
Hariman portava dunque un soffio di speranza e dopo Manila lo stesso Johnson era andato in giro tra Nuova Zelanda, Australia e Thailandia proprio a spiegare che anche per gli USA, dopo anni di rovinosa guerra, ormai la prospettiva era una dignitosa pace.   Ma in quei giorni Roma si era risvegliata nella bufera atmosferica con raffiche di vento a cento all’ora, alberi sradicati e tetti volati via. Era l’antefatto di un cataclisma imminente: quel sabato a Firenze verrà giù l’alluvione più importante del Secolo e la città verrà sommersa di acqua e fango.
Quella sera del solito primo mercoledì del mese, come da tradizione, c’era nell’aula della Clinica chirurgica del Policlinico Umberto I una Seduta Scientifica della Società Romana di Chirurgia. Tra i busti di Durante che domina l’atrio e quelli di Alessandri e Paolucci che si affacciano a lato delle porte di accesso, in quell’aula c’era, e c’è sempre, un’aura da storia della chirurgia.
Dunque presiedeva Pietro Valdoni, grande Maestro, erede di quei grandi Maestri e Direttore della Clinica Chirurgica. Per lui nel futuro in quell’aula non ci sarà il busto ma una targa che gli dedica l’anfiteatro.
Nella folla di assistenti e aiuti della Università e degli Ospedali erano presenti tutti o quasi i pochi che contavano: gli altri due Professori Ordinari, Paride Stefanini patologo chirurgo e Giovanni Marcozzi semeiotico, ed i Primari Ospedalieri dell’epoca, Guido Chidichimo del ”San Giacomo” ancora chirurgo generale ma già col cuore e la mente alla cardiochirurgia, Mino Moraldi del “S. Spirito”, i due fratelli Sciacca, Ferdinando del “San Giovanni” e Beniamino del “Sant’Eugenio”, Giuseppe Grassi pure lui del “San Giovanni”, fresco fondatore del Collegium Internazionale Chirurgia Digestiva, e Guerrieri del “San Camillo”, reduce da un incarico universitario a Perugia, Mazzarella Farao del “S. Filippo”. Mancavano quelli che frequentavano meno, i fratelli Sovena, Enrico ed Aldo, Margottini del “Regina Elena”, De Lollis del “Fatebenefratelli”, Carlo Santoro ancora Primario al “San Camillo”, che era il Decano dei primari, già alla soglia della pensione e che sopravviverà a tutti, morendo quasi centenario.
Quando Valdoni, seduto da solo dietro la lunga Cattedra, le gambe accavallate e la testa reclinata sulla spalla, prese il microfono si fece immediato silenzio, come sempre succedeva per il suo carisma. “Prima di iniziare la seduta – disse – voglio comunicare che da oggi il professore Paride Stefanini non è più Professore di Patologia Chirurgica ma di Clinica Chirurgica”.
Tacque e ci fu un applauso. Stefanini seduto in prima fila, abito grigio, baffi e capelli già bianchi, si alzò e ringraziò con un cenno di inchino: quel giorno era iniziata una nuova fase della Storia Medica e Chirurgica Romana, quella della moltiplicazione delle Cattedre e dei Primariati, delle Facoltà di Medicina e degli Ospedali.
Nei quasi cento anni precedenti, quelli di Roma capitale d’Italia a partire dal 1870, l’unica Facoltà della Università “La Sapienza” aveva avuto pochi Professori di chirurgia, mai più di tre, ed il Pio Istituto di S. Spirito, gigante ospedaliero che raggruppava gli Ospedali ;della città, aveva avuto pochi Primariati di Chirurgia fino ad un massimo di dieci. Per antica tradizione preunitaria, il Clinico chirurgo era stato uno dei Primari e risiedeva nel suo Ospedale. Costanzo Mazzoni, primo Presidente della Società Italiana di Chirurgia tra l’82 e l’85, era Primario al “S. Spirito” (il più antico Ospedale Italiano, costruito nel 1198) e lì insegnava. Solo nel 1899 per volontà di Baccelli, grande Clinico Medico e Ministro della Pubblica Istruzione, e di Francesco Durante, secondo Presidente della Società Italiana di Chirurgia, successore di Mazzoni anche nella Cattedra, e Senatore del Regno, fu costruito e inaugurato il “Policlinico Umberto I”, eletto a sede dell’Università oltre che Ospedale. Vi si trasferirono tutti i Clinici, e tutti i Docenti ed i Primari Ospedalieri che vi operarono sino agli anni ’70, conservarono la qualifica di Professori Aggregati.
Il Policlinico dunque divenne il cuore Accademico della Città Medica, qui si formeranno per tutto il secolo quasi centomila medici. Non fu tutta gloria. Lo racconta Raffaele Paolucci di Valmaggiore nel suo libro autobiografico II mio piccolo mondo perduto. Il 7 novembre 1938 fu chiamato a succedere a Roberto Alessandri alla Direzione ed alla Cattedra della Clinica Chirurgica del “Policlinico Umberto I”. Paolucci lasciava il cuore a Bologna ove aveva insegnato e lavorato per molti anni all’Ospedale Policlinico “S. Orsola”. Il contrasto tra quella realtà tranquilla e ordinata e la Roma Capitale dell’Impero fu traumatico.

Erano anni che non rivedevo la Clinica Chirurgica di Roma, da quando la frequentavo come aiuto volontario di Alessandri, negli anni tra il 1922 ed il 1924. Ricordavo che odorava di vecchiume, mi accorsi che il ricordo era molto migliore della realtà.
Mi sentii cadere le braccia. Un’aula altissima con la volta a cupola, come una chiesa, con i gironi di cemento ed amianto; la voce si disperdeva e bisognava sgolarsi per farsi intendere, ed in questo sforzo affannoso se ne andavano i pensieri, emigravano le idee, era impossibile non diventare monotoni e noiosi gridando sempre dal principio alla fine.
La gioia dell’insegnamento era perduta.
Ma perché non rinnovavano in quel momento la Clinica? Da un lato si parlava di spese militari improrogabili ed urgenti, dall’altro stava il fatto che decine e decine di milioni erano già stati spesi per la Città Universitaria.
Ed ora eccomi là in quel letamaio ove non ci poteva neppure rinchiudere nel proprio guscio e lavorare in silenzio, chè la clinica si svolgeva lungo i corridoi in comunicazione con altri reparti, e per questi corridoi passavano le cibarie, passavano i panni sporchi e puliti, passavano i carrelli del latte e delle medicine, passavano i parenti degli ammalati, passava senza tregua una folla innumerevole di medici, di studenti, di facce note ed ignote, di uomini frettolosi e di tardigradi affaccendati.
Una biblioteca a piano terra, delle sale operatorie decrepite. Dei laboratori sguarniti, pieni di uggia e di umidore, un reparto radiologico anche esso a pian terreno, e, tolte due sale passabili, le altre con gli ammalati ammassati l’uno accanto all’altro, in una promiscuità inverosimile.
Così era, questa è la Regia clinica chirurgica della Capitale.

Paolucci si adattò alla vita romana.
Il Regime, col quale ebbe un rapporto sofferto, lo nominò (così voleva lo Statuto dell’epoca) Presidente della Società Italiana di Chirurgia nel 1940 e tale rimase sino al 1946. Fu anche nominato Vicepresidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Tenne la Cattedra per quasi venti anni. Attraversò la guerra, la caduta del regime, quella del Regno e la ricostruzione. Sopportò e forse soffrì, i Primari Ospedalieri arrembanti, veri eredi della Scuola Romana, che dirigevano i tre Padiglioni chirurgici del Policlinico proprio dietro la Clinica Universitaria. Nomi importanti quelli di Egidi, Chiasserini, Mastronola, Puccinelli, Urbani e dovette convivere con Bastianelli, il più grande di tutti, di lui molto più anziano e che pure gli sopravvisse.

Raffaele Bastianelli era nato nel 1863 nella Roma di Pio IX. Era, dunque, bambino quando i bersaglieri del Re d’Italia entrarono a Roma destinata Capitale d’Italia. Si laureò 24enne nel 1887 con una tesi sui movimenti del piloro che ottenne il Premio della Fondazione Girolami e l’onore di essere pubblicata in Italia ed all’estero. Quell’anno stesso, appena laureato, tempi felici, divenne Aggiunto all’Ospedale S. Giacomo e l’anno dopo Aiuto.
Nel 1896 a 33 anni diventò Primario all’Ospedale della Consolazione, uno dei sette ospedali storici di Roma. Quando le ruspe spazzarono via il Borgo tra il Campidoglio ed il Colosseo per far posto alla Via dell’Impero, anche l’Ospedale della Consolazione scomparve per sempre e Bastianelli, per così dire in mobilità obbligatoria, andò Primario al Policlinico ove rimase sino al 1931.
La sua chirurgia era entrata dalla cronaca nella leggenda. Di lui Cushing, grande ed indimenticato maestro statunitense, disse che era il miglior chirurgo che avesse mai visto operare. Nel 1893 aveva operato e pubblicato un caso di tumore del mediastino. Due anni più tardi un sarcoma della fossa cranica anteriore. Nel 1895 pubblicò una monografia sulle infezioni delle vie urinarie ed all’inizio del nuovo secolo vari lavori di Chirurgia dell’anca. Cultura poliedrica dunque, capacità chirurgica senza limite. Aveva operato negli oltre 40 anni della sua vita ospedaliera la Roma povera e la Roma ricca, gente di tutto il Paese venuta da lui alla ricerca della salute, ed anche la Casa Reale. Due anni prima del pensionamento, dunque per i suoi grandi meriti professionali fu nominato Senatore del Regno. In quel 1931, quasi settantenne, cominciò la sua seconda vita e fu chiamato a dirigere il nascente Istituto Tumori dedicato alla Regina, l’Ospedale Oncologico della Capitale.
Contribuì con Pietro Baccelli anch’egli Senatore e Presidente degli Ospedali Fisioterapici, Ettore Marchiafava, Alessandro Massea, Francesco Pentimalli e agli architetti Danesi e Negri a realizzare l’Istituto e che da allora ha sempre rappresentato un riferimento certo e qualificato per tutta l’oncologia italiana. Diresse il “Regina Elena” per quasi 20 anni sino al 1950 quando ad 87 anni fu nominato Direttore onorario. In quegli anni aveva partecipato alla Fondazione della Lega italiana per la Lotta contro i Tumori della quale fu poi il Presidente effettivo e Presidente onorario. Nel 1947 presiedette il 49° Congresso della Società Italiana di Chirurgia. E fu, nei primi cento anni di vita della Società, l’unico non accademico romano ad aver avuto questo alto onore. Tre anni più tardi, nel 1950, al 52° Congresso di questa Società, fu relatore sul cancro del retto. Quella relazione di mezzo secolo fa contiene, anche per l’odierno lettore, tante verità insuperate e tante eccezionali intuizioni. Meritò, se così si può dire, l’elogio diretto del professor Abel, allievo ed erede di Williams Miles, padre della chirurgia rettale, morto 78enne, tre anni prima.
Lasciato il “Regina Elena”, Bastianelli continuò la propria attività chirurgica nella sua Clinica personale che aveva costruito in via Morgagni e che dopo la sua morte cessò di esistere. In quella Clinica visse i suoi ultimi anni, un po’ solo per l’inevitabile premorienza di amici ed allievi e soprattutto dopo la morte dei fratello medico che come lui aveva preferito la medicina ad ogni altra scelta di vita, compresa la famiglia. Insieme avevano viaggiato il mondo da giovani riportando dagli Ospedali inglesi, tedeschi ed americani, novità, scienza, strumentario, progresso. Insieme sugli scanni del Senato; quasi insieme morirono, in quei primi anni dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, loro che erano nati nel Risorgimento.

Merita di essere ricordata la storia che vuole Guido Egidi introdursi inosservato nella camera operatoria di Paolucci, mentre questi era alle prese con un’ulcera duodenale difficile. Egidi era un noto chirurgo gastrico rapido ed essenziale ed era Autore di un atlante di chirurgia dello stomaco. Quando alla fine Paolucci stanco lasciò il tavolo operatorio, si trovò a sorpresa davanti Egidi sorridente che lo salutò ricordandogli, in memoria della impresa di Fola, che poteva essere più facile affondare una nave che non il duodeno!
Ma per Paolucci, che pure fu grande Maestro di Chirurgia e pioniere della Chirurgia Toracica, gli ultimi anni nella neonata Repubblica, furono quelli della competizione con Pietro Valdoni, più giovane di lui di quasi 10 anni, erede diretto di Roberto Alessandri, ritornato a Roma nel 1946 come Patologo Chirurgo, astro brillante della Chirurgia Italiana, grande Chirurgo e grande Leader, creatore della cardiochirurgia a Roma ed in Italia.
Paolucci morì a 65 anni nel 1958. Il suo cuore cedette all’improvviso. Aveva sopportato grandi eventi da quando nel 1917, giovane tenente, a nuoto col maggiore Rossetti, aveva forzato la difesa del porto di Pola ed attaccato la torpedine esplosiva sotto la “Viribus Unitis”, corazzata austriaca considerata invincibile, provocandone il clamoroso affondamento. Ebbe, giusta ricompensa, la medaglia d’oro al valor militare.
La scomparsa improvvisa di Paolucci aprì una lotta di successione inattesa. Candidato naturale era Ettore Ruggieri, allievo dello scomparso e Clinico Chirurgo a Napoli. Prevalse invece Paride Stefanini anch’egli Chirurgo eccellente, aggressivo e moderno e grande amico di Valdoni.
Insieme erano stati assistenti di Alessandri e la famosa notte in cui Valdoni fece l’embolectomia polmonare, era Stefanini che lo aiutava. Quel rendiconto operatorio del 1935 è straordinario.

Opera il dott. Valdoni; assiste il dott. Stefanini. Senza disinfezione delle mani si indossano i guanti sterili, poi i camici; disinfettata la pelle con tintura di iodio si prepara il campo sterile. L’intervento s’inizia al 7° minuto dall’avvenuta embolia. Dagli esperimenti eseguiti su cadaveri, avevo notato come fosse più facile di aggredire il pericardio e di scollare la pleura sostituendo alla incisione del Meyer (a T rovesciato con resezione della 2a e 3a costola) una incisione parallela al margine sinistro dello sterno con resezione della 2a, 3a e 4a cartilagine costale. In questa maniera la breccia è più ampia, non vi è bisogno di resecare il margine sternale e nell’angolo inferiore si domina bene il seno pleurico nel tratto in cui devia verso sinistra dalla linea mediana, lasciando scoperta l’aia pericardica.
Si pratica rapidamente l’incisione verticale parasternale. Il malato che in questa fase ha ancora dei movimenti respiratori spontanei non reagisce affatto alle manovre praticate senza alcuna anestesia. Si incide il pettorale e si scoprono la 2a, 3a e 4a cartilagine costale dalla inserzione alla prima porzione della costola ossea. Rapidamente si speriostano le tre cartilagini che vengono resecate. Legatura del fascio vascolo-nervoso intercostale 3a e 4a. La pleura è quasi completamente trasparente ed è ben visibile il disegno polmonare. Scoperto il pericardio in basso, questi appare quasi del tutto coperto dal seno pleurico anche in basso. Nella manovra di scollamento del seno pleurico questo si lacera e l’aria entra con un rumore caratteristico. Il polmone però si collassa poco per lo stato di enfisema polmonare in cui si trova. Aperto il pericardio verso la punta del cuore, da esso fuoriesce scarsa quantità di liquido citrino chiaro. Con un colpo di forbice si completa l’apertura del pericardio fino alla base del cuore mettendo in evidenza, l’arteria polmonare. Il ventricolo destro è disteso, le vene coronarie bene appariscenti, il muscolo cardiaco flaccido. Le contrazioni cardiache sono irregolari, poco valide o fibrillari. Per mezzo della sonda di Trendelenburg passata sulla guida del dito si mette in sito il laccio di gomma attorno all’aorta e si incide l’arteria polmonare poco sopra le valvole per 2 cm. verso l’alto. Esce dal cuore un grosso fiotto di sangue nero che si arresta con la trazione sul laccio; assieme al sangue è uscito un frammento di trombo di 10 cm., molto grosso. L’introduzione della pinza da embolo nel ramo destro non riesce; senza insistere dopo il primo tentativo si introduce la pinza nel ramo sinistro e si estrae un embolo lungo 27 cm. che si rompe in 3 frammenti di cui l’ultimo viene estratto con una nuova presa. Si allenta il laccio e si chiude con il dito l’incisione.
Poiché il malato non respira, si praticano manovre di respirazione artificiale e il cuore che era diventato immobile riprende a pulsare dopo alcuni colpi, impressi con il dito sul muscolo. Ristabilitasi in circa un minuto la contrazione cardiaca valida, si tira nuovamente sul laccio e si estrae dal ramo destro un embolo di 27 cm. non frantumato. Nuovo allentamento del laccio e chiusura digitale dell’incisione. Riprende ora il respiro, la pulsazione cardiaca si fa valida. Tirando di nuovo il laccio si applica lateralmente la pinza da sutura. Sono passati 13′ 30″ dall’inizio dell’embolia. Ora il malato ha ripreso bene il respiro e la pulsazione che si trasmette anche alla periferia. Si aspira del sangue versato nella pleura e si deterge il campo operatorio. Il polmone che nonostante l’apertura della pleura si espande bene, viene divaricato dall’assistente all’esterno. Il malato incomincia ad agitarsi, a dire parole sconnesse e deve venire tenuto fermo sul campo operatorio. La sutura della polmonare viene praticata come sutura continua a tutto spessore con seta vasellinata e presenta difficoltà notevole per la profondità del campo operatorio e specialmente per la continua espansione del polmone. Occorre dare per due volte dei punti supplementari per assicurare una emostasi completa togliendo e rimettendo per due volte ancora la pinza da sutura, la cui messa a posto richiede sempre la trazione sull’aorta con il laccio. La sutura riesce finalmente emostatica.
Si asciuga con tamponi una parte del sangue versato e si mette un punto di accostamento del lembo sinistro del pericardio ai resti del muscolo pettorale sul margine destro dell’incisione. La sutura dei due foglietti pericardici è impossibile per il notevole divaricamento dei margini prodotto dalla distensione del cuore. Segue la sutura del pettorale, del sottocutaneo e della pelle con grappette.
Alla fine dell’intervento si pratica una piccola incisione sulla ascellare media nell’8° spazio intercostale e si introduce nel cavo pleurico una sonda di Pezzer a tenuta d’aria a cui si applica subito il tubo che porta alla bottiglia di aspirazione. Dal cavo pleurico esce aria e sangue. La sutura cutanea è stata fatta senza anestesia ma ha provocato manifestazioni molto notevoli di dolore da parte del malato. Il malato viene messo a letto inconscio e delirante. Si pratica un’iniezione di Digalén, di canfora e di morfina. Il polso è ben percettibile, leggermente aritmico, la pressione arteriosa massima di 95, minima di 65. Nel pomeriggio il malato è ancora delirante, il polso è sempre valido, vi è modica dispnea. Il tubo di aspirazione non drena più. Al malato si somministra ogni 4 ore un’iniezione ipodermica di morfina e di eupaverina. Il giorno seguente vi è un leggero miglioramento nelle condizioni del malato, l’agitazione è diminuita e si alimenta bene. In terza giornata sono scomparse le aritmie e si continua ogni 6 ore l’iniezione di eupaverina. Con inalazioni di benzoato sodico ogni 2 ore la dispnea diminuisce notevolmente. Una radiografia eseguita al letto del malato mostra che non vi è traccia di pneumotorace, mentre vi è un versamento alla base di sinistra. Ha piccole elevazioni termiche. In quarta giornata scompare il delirio; il polso è regolare, ritmico e il malato si nutre abbondantemente. Si toglie il drenaggio pleurico dopo essersi accertati che il cavo del drenaggio è separato dal cavo pleurico contenente liquido. Da allora le condizioni vanno rapidamente migliorando nonostante la persistenza del liquido raccolto nel cavo pleurico di sinistra. Le piccole elevazioni termiche sono scomparse e il malato è in condizioni così buone che in 14a giornata si alza e da solo può fare alcuni passi. La ferita operatoria è guarita per prima men che in corrispondenza dell’angolo inferiore dove vi è una necrosi superficiale e molto limitata nel sottocutaneo. Il malato per 3 giorni si alza si nutre regolarmente; dopo il quarto giorno insorgono però edemi degli arti inferiori del sacro. Per suggerimento del prof. Frugoni si praticano delle iniezioni di tachidrolo e vari cardiocinetici e si procede frazionatamente all’estrazione del liquido pleurico nella quantità complessiva di 1300 cmc. Questo è di colore chiaro ed ha caratteri d’un essudato. Dopo l’estrazione il liquido non si riforma più però persistono più accentuati alla sera gli edemi sacrali e degli arti inferiori. Un elettrocardiogramma mette in evidenza delle alterazioni che possono ricondursi a fatti non molto gravi di alterato circolo coronario, mentre l’esame radiologico e radiografico fa escludere la presenza di liquido nel cavo pericardico. Gli edemi sono con tutta probabilità in rapporto con lo stato di indebolimento del miocardio. In seguito alle cure assidue il malato va migliorando. (Ringrazio qui caldamente il prof. Frugoni e l’amico prof. Pozzi, suo aiuto, per l’interessamento preso al caso e per l’esito così favorevole delle cure condotte). A un mese di distanza dall’intervento il malato è decisamente avviato verso la guarigione. Gli edemi sono quasi del tutto scomparsi e limitati alle regioni malleolari e scompaiono durante il riposo notturno. La crisi sanguigna è andata pur essa migliorando e il numero di globuli rossi è aumentato da poco più di 2.000.000 a 3.600.000 circa. Il malato è in ottime condizioni psichiche, si nutre abbondantemente. La diuresi è perfetta. Il liquido pleurico non si è più riformato. L’esame radiografico mostra lo spostamento dell’aia cardiaca verso destra non ingrandita, con una modica dilatazione aortica con una chiazza di calcificazione.
Il miglioramento va sempre più accentuandosi e il malato abbandona la Clinica il 18 gennaio completamente guarito persistendo ancora soltanto un modico grado di anemia.

Con la fine degli anni di Alessandri, le strade di Valdoni e Stefanini si erano separate. Valdoni, accademico, attendista, elittario, andò in cattedra a 39 anni nel 1939 appunto, prima Cagliari, poi Modena, poi Firenze in rapida successione, infine Roma nel 1946. Stefanini, più irruento ed avventuroso, andò prima aiuto al “S. Giacomo”, tentò senza riuscirvi il Primariato del ” Fatebenefratelli” ed alla fine, era il 1941, scelse L’Aquila, quando il capoluogo abruzzese era una rocca davvero poco accessibile da Roma e dal resto del mondo. Lì inventò una chirurgia che non c’era mai stata, divenne in breve il Chirurgo di tutto l’Abruzzo, ossia di quelle tante montagne. Alla fine della Guerra i suoi meriti, la stima e l’amicizia di Ermini, Rettore dell’Università di Perugia (sarà poi Ministro della Pubblica Istruzione) gli valsero la Cattedra in quella Università.
Fu forse per la chirurgia l’ultimo caso di ritorno in Università dagli Ospedali, che prima era stata la regola. Anche il suo Maestro, Roberto Alessandri, era arrivato alla Cattedra di Roma dopo essere stato precedentemente Primario al “S. Giacomo” e poi al “Policlinico Umberto I”: la Facoltà di Roma lo aveva chiamato alla unanimità a succedere a Francesco Durante nel 1919, considerandolo il migliore dei suoi allievi, come scrisse T. Ferretti nel “Policlinico – Sezione pratica” in quello stesso anno.

Chiamatovi dal voto unanime della Facoltà Medica, il Prof. Roberto Alessandri sale oggi in cattedra di quella Clinica Chirurgica, che fu gloria e vanto di Francesco Durante.
Di tutti gli allievi che circondarono l’insigne Maestro, per grande e lunga dimestichezza, felice armonia di sentimenti, niuno poteva essere più fedele interprete degli intendimenti, scientifici e clinici di colui, che creò la Chirurgia Italiana; niuno, per convinzione e per fede, strenuo campione degli alti ideali e delle nobili tradizioni della Scuola.
L’Alessandri non è un chirurgo ed un clinico dell’ultim’ora: negli Ospedali di Roma, maestro indiscusso ed impareggiabile della Chirurgia più audace e brillante, superò vincendoli per concorso, tutti i gradi della gerarchia, fino a che, nel 1903, non divenne Chirurgo Primario all’Ospedale di S. Giacomo prima, al Policlinico Umberto I poi.
I cimenti dolorosi della guerra mondiale lo videro in prima linea portare il soccorso volontario della sua scienza e della sua grande pietà fin presso le trincee e tra la gragnuola dei proiettili d’ogni misura. Fu così che, come Direttore della Ambulanza d’Armata, a Gorizia, si guadagnò la medaglia d’argento al valore.
Senza tener conto degli insegnamenti preziosi che con signorile dovizia egli profondeva a piene mani, nel giornale “La Clinica Chirurgica” del quale è Direttore, sono ben 145 le pubblicazioni sue, che fin’oggi han veduto la luce.
Gli studi sulla Patologia e sulla Chirurgia del rene formano “testo” e non han forse rivali nella letteratura straniera. Dai primissimi “sulle lesioni dei singoli elementi del cordone spermatico” e le loro conseguenze sulla glandola genitale, a quelli “sulla vaginale del testicolo”, sui “tumori d’origine surrenale”, sulla “legatura della vena emulgente, degli elementi dell’ilo renale”, ecc., ecc., ai più recenti sulla “pielotomia nella calcolosi renale”, ecc., abbiamo tutta serie di osservazioni e di studi, che nel loro insieme formano un vero e proprio trattato di Patologia e di Clinica speciale.
Osservazioni e indicazioni preziose troviamo poi nella serie ricchissima di lavori sulla Chirurgia di Guerra, lavori che sono i più recenti e nei quali l’A. ha profuso tanta dottrina e una ricchezza di buon senso e d’esperienza, quante basterebbero a creare la fama di più di un clinico.

Stefanini era stato da poco chiamato a Pisa quando morì Paolucci e si rese vacante Roma. Tornò dunque dopo 18 anni, nel 1959, nella sua città, accolto dalla simpatia dei romani medici e non, che in lui, semplice e spontaneo, ritrovavano il loro modo di essere. In breve conquistò la città ed anche l’Accademia. Lasciò a Valdoni il monopolio della cardiochirurgia, avventurandosi nel mondo inesplorato dei trapianti ed attivando le chirurgie specialistiche vascolare e toracica.
Al Policlinico si dovette accontentare del poco che Valdoni gli lasciò.
Il grande Clinico Valdoni tenne per sé il fabbricato originale della vecchia clinica chirurgica ed il nuovo fabbricato da lui stesso costruito per un totale di circa 400 letti. E tenne con sé un numero straordinario di Allievi superiore a cento. Intorno a lui in quegli anni si erano raccolti i figli della Roma bene ed anche i migliori talenti. La sua Scuola aveva già prodotto Piero Tonelli, rimasto in Cattedra a Firenze al posto del Maestro ma nella Capitale tra quei cento crebbero Lanzara, Biocca, Provenzale, Fegiz, Tagliacozzo, Monti, Leggeri, i fratelli Stipa che poi seguirono Biocca, Di Paola ed Angelini che seguirono Fegiz, Ricceri e Cappellini che entrambi morirono immaturamente e Francesco Tonelli che il padre aveva mandato alla Scuola del suo Maestro. E poi tanti altri: i cardiochirurghi come Benedetto Marino, gli anestesisti come Mazzoni, i plastici, i vascolari e tutti quelli da Blasucci a Thau che lasciarono l’Università per i Primariati Ospedalieri.
Stefanini arrivò col piccolo gruppo che da Perugia lo aveva seguito a Pisa ove rimase Selli ad occupare quella Cattedra. C’erano Castrini e Coppola che nel ’62 andarono il primo in Cattedra a Perugia ed il secondo al Primariato di Lucca, Costante Ricci, Alberto Baglioni, Vincenzo Speranza e Massimo Ermini. Dalla Clinica Chirurgica di Valdoni, ex Paolucci, emigrarono pochi giovani, Fiorani, Campioni, Carboni, Gentileschi, Rizzo, Pasquini, ed altri arrivarono dai diversi Ospedali d’Italia, Ribotta da Magliano Sabina, de Santis da Napoli, De Feo da Barletta, Mercati da Perugia, Fedele da un Padiglione Ospedaliero del Policlinico, Cortesini dal S. Giovanni con Casciani che lasciava la Clinica Medica di Condorelli. Ed in quei primi anni affluirono i neolaureati e si laurearono i primi interni, Arullani, Benedetti Valentini, Pistolese, Bonanome, Santoro, Carotenuto, Basso, Trecca, Cucchiara.
Da quella sera dunque in cui Valdoni annunciò lo sdoppiamento della Cattedra di clinica chirurgica cominciò l’era nuova. Successivamente nacque la III Clinica di Marcozzi che di Paolucci non solo era l’erede ma anche il marito dell’adorata unica figlia. E con lui crebbero Di Matteo, Martinelli, Beltrami, Messinetti, Montori, Campana e tanti altri.
Crebbe splendidamente anche l’Università Cattolica con il Policlinico “Agostino Gemelli” affidando le Cattedre chirurgiche prima a Castiglioni e Puglionisi e poi a Crucitti, Picciocchi, e ad altri più giovani ma altrettanto valenti. Per il Policlinico “Gemelli” passerà tanta storia della città e del Paese per i molti pazienti illustri che vi furono ricoverati ma soprattutto per lo straordinario intervento con cui Francesco Crucitti salvò la vita a Papa Giovanni Paolo II, ferito in piazza S. Pietro il 13 maggio 1981.
Crebbero intanto altri Ospedali, il “Sandro Pertini” a Pietralata, il “Grassi” di Ostia e prima il nuovo “S. Giovanni” ed il nuovo “S. Eugenio” e quelli religiosi, il “S. Pietro”, il “San Carlo”, il “Cristo Re” e si moltiplicarono i Primari Ospedalieri che da 10 degli anni 60 diventeranno 25 a fine secolo.
Ed aumenteranno le Facoltà di Medicina con la creazione dell’Università di Tor Vergata nel 1981, con il Campus Biomedico nel 1993 e con la seconda Facoltà di Medicina de “La Sapienza” nel nuovo Ospedale “S.Andrea” nel 1999.
Anche l’Istituto per i Tumori Regina Elena fondato nel 1932 subirà in seguito una simile espansione, i Primariati di Chirurgia Generale dall’unico di Bastianelli e poi di Margottini, cresceranno a due con Ruggeri prima e Frezza e Manfredi poi, a tre con l’aggiunta di Stradone e poi con Cavaliere, Santoro e Campioni, oltre a quelli delle specialità chirurgiche: l’urologia di Cancrini, la ginecologia di Marziale e poi di Atlante, l’otorino di Garfagni prima e poi di Francesco Marzetti, scomparso prematuramente, e infine la neurochirurgia di Antonio Riccio e poi di Emanuele Occhipinti.

Il nome di Renato Cavaliere resta legato alla introduzione della perfusione ipertermica nel trattamento dei tumori degli arti, che realizzò per primo nel 1964. Con questa metodica, ripresa in tutto il mondo, sono stati trattati con straordinari successi centinaia di pazienti prima condannati all’amputazione. Cavaliere sul fronte delle neoplasie avanzate, trenta anni dopo divenne punto di riferimento nazionale per le peritonectomie.
Dante Manfredi negli anni ’80 avviò la chirurgia resettiva epatica secondo la Scuola Vietnamita.
Con Santoro dopo il 1990 fu potenziata l’attività di Chirurgia viscerale che riprendendo l’originaria impostazione di Bastianelli ridiventò pilastro fondamentale dell’attività dell’Istituto affiancando quella tradizionale di chirurgia mammaria. La chirurgia epato-bilio-pancreatica moderna, quella gastrica e quella del retto, anche nella logica delle terapie multimodali, diventeranno oggetto di specifica attività clinica e di ricerca. Fu anche avviata con rilevanza nazionale ed internazionale la chirurgia laparoscopica delle neoplasie del colon, dello stomaco e del pancreas. Ebbe infine rilievo la chirurgia di sostituzione dell’esofago cervicale con anse digiunali trapiantate al collo, con metodo microchirurgico, mai eseguita in precedenza a Roma.

Per l’Istituto il Secolo si chiude con il trasferimento dalla vecchia storica sede antistante il Policlinico Umberto I, nella nuova avveniristica sede dell’Ospedale “S.Raffaele” all’Eur.
Quattro anni dopo quella storica sera del 1966, Pietro Valdoni settantenne ma in eccellenti condizioni fisiche e mentali, lasciò l’insegnamento, la Cattedra, la Direzione della Clinica e delle Scuole di specializzazione che aveva creato. Lasciò un’eredità formale a Paolo Biocca che lo sostituì nella cattedra ed una sostanziale a Gianfranco Fegiz. Entrambi saranno anche Presidenti della Società Italiana di Chirurgia. Morì sei anni dopo, lui forte fumatore, per un cancro del polmone, che diagnosticò da solo e per il quale da solo definì il piano di cura. Fu giustamente commemorato come il Padre della Chirurgia contemporanea. Paride Stefanini lo ricordò sul quotidiano romano Il Tempo.

Valdoni è nato chirurgo e chirurgo è stato sempre.
Chirurgo tra i più grandi, certamente è il più grande del Suo periodo nel nostro Paese, uno fra i maggiori del mondo: accanto a una tecnica prodigiosa, aveva una capacità di intuizione rapida delle situazioni morbose cui seguiva una rapida, talora coraggiosa decisione. Ricordo, durante gli anni della permanenza vicino a lui, nella Clinica Chirurgica di Alessandri, il primo caso nel nostro Paese di operazione di Trendelemburg.
Egli, per primo in Italia, ha fatto la legatura del dotto di Botallo pervio (dotto arterioso di Botallo che fa comunicare nel circolo fetale, nella vita intrauterina, la circolazione aortica con quella polmonare e che è causa di gravi disturbi se alla nascita rimane pervio). È stato il primo a fare la divulsione della valvola mitrale secondo la tecnica di Blalock e ha ideato una notevole quantità di tecniche personali in vari campi della chirurgia.
Sono questi, la chirurgia addominale e toracica, compresa la chirurgia cardiaca, i settori in cui egli si è dedicato poi con maggior interesse durante gli anni romani. Non c’è però campo della chirurgia cui Valdoni non si sia accostato con successo. Io ricordo ad esempio che nel 40-41 egli fu il primo ad operare un’ernia discale nel nostro paese. Ecco quindi la vastità degli interessi del chirurgo e dello scienziato che sono una delle caratteristiche principali del Nostro.
Valdoni era un uomo per il quale la più stretta osservanza del dovere rappresentava l’aspetto particolare della legge morale che si era eretto a guida delle sue azioni. Quando egli fu consigliere del comune di Roma, non mancò ad una sola seduta destando la sorpresa e l’ammirazione di tutti i colleghi. Lo stesso senso del dovere egli ha portato nella scuola, dall’insegnamento agli studenti alla formazione di schiere di chirurghi che oggi occupano posti rilevanti nell’ambito universitario e nell’ambito ospedaliero.
Egli ha avuto riconoscimenti ambitissimi in ambito nazionale ed internazionale. È stato presidente, più volte, della Società italiana di Chirurgia, ed infine è stato nominato presidente onorario di questa Società, carica creata proprio per lui, per indicare in lui il promotore direi, della moderna chirurgia nel nostro paese.
All’estero i riconoscimenti sono stati innumerevoli. Dalla laurea ad honorem che egli ha avuto in diverse Facoltà mediche estere, alle nomine a membro onorario di molte società e voglio ricordare tra le altre le due Società chirurgiche più importanti, l’International College of Surgeons e la Societè Internationale de Chirurgie, alle onorificenze che gli sono venute da più parti, fra le quali, quelle a lui particolarmente care, dallo Stato pontificio per l’opera prestata a due Papi, Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI.
Ha lasciato Valdoni ai suoi allievi e alle schiere di chirurghi che verranno dopo di loro, due opere fondamentali e di grandissimo contenuto dottrinale: una il “Trattato di patologia chirurgica” di cui sono state fatte numerose edizioni e ristampe e che è il libro di patologia chirurgica più usato fra gli studenti di medicina nel nostro Paese, l’altra è “L’Atlante di tecniche chirurgiche” che egli, negli ultimi periodi della sua malattia, ha visto con grande soddisfazione edito in inglese.

Cinque anni dopo si spense anche la grande voce di Paride Stefanini. Anche la sua vecchiaia fu tormentata dalla malattia neoplastica, per la quale da solo scelse le cure ed accettò la sofferenza. Fu commemorato in primis dall’allora Presidente in carica della Società Italiana di Chirurgia, Pierluigi Cevese.

Paride Stefanini rappresentava il più dinamico di tutti noi, l’uomo che trovava il momento di dedicare la sua febbrile attività alle più differenti iniziative di ordine culturale, assistenziale ed umano.
Sotto questo profilo lo ricordiamo animatore entusiasta ed indefesso della scuola prodigiosa da lui diretta e dalla quale mossero i primi passi tanti altri colleghi, oggi cattedratici di chirurgia generale o di specialità chirurgiche. Lo ritroviamo relatore attento, preciso e impegnato, in congressi nazionali ed internazionali, sui più disparati argomenti di chirurgia applicata; lo rivediamo presidente o consigliere di società internazionali, di società ed accademie nazionali, sempre presente e sempre ideatore di nuove iniziative, intese al progresso delle conoscenze chirurgiche.
Come accademico, gli spettano tanti meriti come quello di aver collaborato al programma di riforma sanitaria ed alla ristrutturazione della facoltà medica e di essere stato praticamente il fondatore delle facoltà mediche dell’Aquila e di Mogadiscio.
Chirurgo distinto, allevato con Valdoni alla scuola del grande Alessandri, cominciò ben presto la sua attività operatoria che a poco a poco si diresse ad aggredire quasi tutti gli organi dell’anatomia umana; ma la sua tempra ed il suo stile lo portarono a vagheggiare una chirurgia diversa da quella demolitiva e questo suo orientamento raggiunse finalmente il traguardo ed il premio quando potè iniziare, in Italia per primo, la chirurgia dei trapianti d’organo, segnatamente del trapianto renale.

La rivoluzione iniziata quella sera del ’66 si completò negli anni ’80: la riforma universitaria, la cosiddetta tabella 18, modificano il curriculum degli studi e gli insegnamenti, non più clinica, patologia, semiotica ecc., ma semplicemente chirurgia generale o chirurgia digestiva, chirurgia oncologica. Cento diciassette anni dopo l’Unità d’Italia scompariva una delle categorie più illustri dell’Accademia, quella dei Clinici chirurghi e medici. Simultaneamente, il Policlinico Umberto I veniva consegnato interamente all’Università: la componente ospedaliera si trasferiva al nuovo ospedale “Sandro Pertini”. Ma la Chirurgia universitaria colse l’occasione per frammentarsi ulteriormente con oltre 20 Professori Ordinari di Chirurgia Generale, con altrettanti Associati ed un numero di Primariati passati dai 5-6 dei primi 60 anni del XX secolo, ad oltre 30. In fisica il fenomeno si chiama implosione, in chirurgia fu definito polverizzazione. Ma al tempo stesso si alzava ulteriormente il muro tra Università ed Ospedali. Dopo Stefanini, anni ’40, nessun ospedaliero era più stato chiamato in Università a Roma. Negli anni 80 e 90 anche il percorso inverso diventa assai arduo.
Negli anni ’70 e ’80 un gruppo di Chirurghi con precedenti universitari aveva affiancato gli Ospedalieri puri alla guida delle Divisioni Ospedaliere: tra i primi Manfredi, Fedele, Porzio, Santoro, Cucchiara, Thau, Carotenuto, Tersigni, tra i secondi Ascani, Bandini, D’Onofrio, Puntillo, Gargiulo, Cavaliere, Mascagni e tanti altri.
Negli anni ’90 il muro si alza ancora. Lo supera Aldo Moraldi, sull’esempio del padre. Gli Ospedalieri per il resto riproducono se stessi, con orgoglio: primo tra tutti Titta Grassi, eccellente figlio di tanto padre, poi Giorgio Massi ma soprattutto il gruppo cresciuto con Santoro: Carlo Allegri, Massimo Mulieri, Franco Scutari, Alfredo Garofalo, Marco Sacchi in Chirurgia Generale, Aldo Felici in Chirurgia Plastica, Giuseppe Gentile e Franco Ciaraldi in Urologia.
Ed a fine Secolo Roma riserva una particolare sorpresa. Nell’ultimo Concorso di Cattedra di Chirurgia, vince tra gli altri, Chiara Montesani, moglie di Giorgio Ribotta: sarà la prima donna Professore di Chirurgia e Primario nella Capitale.
Attraverso queste e molte altre vicissitudini, la Scuola Romana ha improntato tutto il secolo della Chirurgia Italiana e della Società Italiana di Chirurgia, spargendo la propria luce anche oltre i confini d’Italia. L’allocuzione di Santoro al 100° Congresso della Società, tratteggia il legame tra Roma e la Società.

La Storia della Società Italiana di Chirurgia è fortemente intrecciata con quella della nostra Città Capitale. Nove dei trentadue Presidenti che mi hanno preceduto sono professionalmente romani tutti Clinici Chirurghi della Sapienza. Nessun’altra Università Italiana tanto ha avuto e tanto ha dato alla nostra Società.
Costanzo Mazzoni fu il Primo Presidente della nostra Società nel 1883. Era il grande Chirurgo della nuova Capitale d’Italia, da giovane in quegli anni eroici era divenuto noto come il Chirurgo della cannuccia per avere salvato la vita ad un infermo che stava per soffocare incidendo la trachea con un temperino che aveva in tasca ed introducendovi una canna di bambù. Morì poco più che sessantenne per un attacco cardiaco lungo la rampa di scale che saliva per andare a visitare un infermo. Scrisse di lui Baccelli commemorandolo “posto tra l’altrui beneficio e la propria conservazione preferì l’opera pietosa e cadde sul campo del dovere, insegnandoci non solo a vivere ma anche a morire”.
Gli succedette nella cattedra e nella Presidenza della Società Francesco Durante, la cui autorevolezza fu tale che mantenne la carica ininterrottamente per 34 anni, quando per limiti d’età, rinunciò anche all’insegnamento e si ritirò nella sua Letoianni.
Con lui si chiude anche l’epoca per così dire monarchica della nostra Società. Dal 1920 le Presidenze diventano brevi, uno o due anni spesso coincidendo con la Presidenza del Congresso.
Con il 1930 si ritorna all’antico. Prima Roberto Alessandri, sino al ’39, poi Raffaele Paolucci sino al ’46. Terzo e quarto, Presidente Romano, chirurghi di grande prestigio e Maestri di grandi Scuole.
Di Alessandri ricorderò che prima di assumere la Cattedra della Sapienza era stato Primario Ospedaliero per oltre 15 anni all’Ospedale S. Giacomo prima ed al Policlinico Umberto I poi, aveva dato il meglio di sé nella I Guerra Mondiale nelle trincee del Friuli, guadagnandosi la medaglia d’argento al valore. Per la Scuola Romana fu il padre della Chirurgia moderna e furono suoi allievi Valdoni e Stefanini.
Di quella Grande Guerra fu protagonista indimenticato anche Raffaele Paolucci di Valmaggiore, del quale in questi giorni ricorre l’ottantesimo anniversario della storica impresa di Pola. Ebbe la medaglia d’oro al Valor Militare. Fu Senatore della Repubblica.
Di Valdoni e Stefanini, mio maestro, quinto e sesto Presidenti Romani della Società, nulla posso aggiungere al commosso, devoto e vivo ricordo di molti qui tra noi, loro allievi che quotidianamente ne perpetuano la memoria e l’opera eccelsa. Ai loro nomi resta legata in Italia rispettivamente la Chirurgia Cardiaca e quella dei trapianti d’organo e ad entrambi la grande chirurgia viscerale e vascolare.
Settimo Presidente romano fu Paolo Biocca, erede diretto di Valdoni, come Gianfranco Fegiz, ottavo Presidente, presente stasera fra noi. Fegiz fu anche per molti anni Segretario della Società. Come fra noi stasera è anche Giorgio Di Matteo, nono Presidente romano nel cui Consiglio mi onoro di avere servito da Vice.
L’intreccio tra Roma e la chirurgia è poi particolarmente intenso a livello Congressuale. 51 dei nostri 100 Congressi hanno avuto luogo a Roma, compreso l’odierno di cui va il merito a Giorgio Ribotta, con il ringraziamento di tutti noi.
51 Congressi Romani, dalle Aule dell’Accademia Medica, a quelle della Sapienza sede centrale, a quelle del Policlinico Umberto I ed infine dal 1964 a quelle dell’Hotel Hilton sempre in un susseguirsi di grandi temi e grandi dibattiti di casistica e dottrina nel continuo aggiornarsi della pratica clinica per una chirurgia al passo con i tempi in Italia e nel mondo.
E Roma capitale d’Italia e della Chirurgia Italiana ha vissuto anche attraverso l’opera dei chirurghi la vita sociale e politica di questo secolo. Ho ricordato eventi straordinari della prima guerra mondiale, debbo ricordare il contributo dato dai Chirurghi alla seconda guerra mondiale dalla quale in molti non tornarono negli Ospedali Romani, come anche avvenne per tante altre città ed altri Ospedali Italiani.
Debbo ricordare tra gli altri meriti, non trascurabili della Chirurgia Romana, l’impegno eccezionale per il bombardamento di S. Lorenzo, quando il Policlinico e gli altri Ospedali furono sommersi dai feriti di quella immensa tragedia.
Ed infine gli attentati che potevano cambiare la storia, ai quali la chirurgia romana fece fronte: l’attentato al Duce, quello a Togliatti, quello al Papa. Mi sia così consentito ricordare la figura eccelsa di Francesco Crucitti che stasera dolorosamente non è più tra noi ed alla cui ferma mano, questo Secolo molto deve.

Quale è stata dunque la Chirurgia romana ed il suo contributo al progresso?
È stata innanzitutto una chirurgia coraggiosa e radicale. È stata una chirurgia anatomica ragionata, fatta con la pinza e con la forbice, utilizzando il dito o la via smussa solo quando indispensabile. Non a caso il nome di Durante è rimasto legato alla pinza chirurgica. È stata una chirurgia didattica per aver formato generazioni di chirurghi ed un numero straordinario di Professori Universitari per tutte le grandi città da Firenze a Trieste, da Cagliari a Palermo, da Pisa a Napoli ad Ancona, all’Aquila ed un numero eccezionale di Primari per ogni angolo del Paese, oltre che per la città capitale. Ed è stata una chirurgia innovativa. Qui nacque e crebbe nelle mani di quei chirurghi generali, da Durante a Bastianelli, da Alessandri a Puccinelli, a Paolucci, a Chidichimo, a Valdoni, a Stefanini, tutta la chirurgia specialistica, dalla neurochirurgia all’ortopedia, alla ginecologia, all’otorino, all’urologia sino alla cardiaca, alla vascolare, alla toracica, alla plastica, a quella dei trapianti d’organo. Ma qui è anche ovviamente cresciuta la grande chirurgia generale e digestiva, quella radicale del cancro, quella delle grandi demolizioni e quella conservativa della mammella, dello stomaco, del retto, quella epatica ed infine la mininvasiva.
Per l’intero secolo, i chirurghi romani hanno molto imparato girando per il mondo con grande curiosità e grande amore, ma anche molto hanno insegnato al mondo dalle loro sale operatorie, dal loro straordinario quotidiano lavoro, dai loro studi, dalle loro meravigliose casistiche.

 TRATTO DAL libro 100 anni di chirurgia di E. Santoro e Ragno

EVOLUZIONE DELLA CHIRURGIA NEL ‘900

“CENTO ANNI DI CHIRURGIA
Storia e cronache della Chirurgia Italiana del XX secolo

 

Cap. III
EVOLUZIONE DELLA CHIRURGIA NEL ‘900

I cento anni di Chirurgia del XX Secolo quasi coincidono con i primi cento anni della chirurgia moderna. Emblematicamente si può ricordare che nel 1899 Mikulicz introdusse l’uso delle mascherine e che solo pochi anni prima erano state inventate le autoclavi per la sterilizzazione ed impiegati camici e guanti di gomma.
Le sale operatorie con l’inizio del ‘900 cominciarono a diventare tali; prima erano a lungo state o anfiteatri didattici o luoghi appartati non dissimili dalle cucine domestiche.
Nel “Policlinico Umberto I” di Roma, inaugurato nel 1899 le camere operatorie dei padiglioni chirurgici che sono sopravvissute sino agli anni 80 del XX Secolo, rappresentarono il momento tecnico più avanzato della organizzazione chirurgica di inizio secolo. Ovviamente erano prive di impiantistica e di sistemi di sicurezza ma erano davvero ampie, contenevano due letti operatori ciascuna e soprattutto erano costruite all’ultimo piano con grandi vetrate sul soffitto rotondo che era il tetto dell’edificio, affinchè la luce del sole cadesse copiosamente sul letto operatorio.
Trent’anni più tardi, non sono dissimili le nuove sale.
operatorie dell’Istituto ”Regina Elena”, ma in più, una di esse è dotata di una completa parete di vetro, per consentire agli altri medici di assistere agli interventi dall’esterno della sala operatoria. Da quella posizione era però difficile avere più che una visione d’insieme ed il chirurgo teneva celati i segreti della sua arte.
Dopo la II Guerra Mondiale c’è l’esplosione tecnologica e i macchinari invadono le sale operatorie. È un crescendo di respiratori automatici, sistemi di monitoraggio, elettrobisturi, aspiratori, scialitiche, endoscopi sino a che la chirurgia mininvasiva introduce anche mini impianti televisivi.
I locali assumono caratteristiche sempre più avveniristiche, grandi maioliche alle pareti sino al soffitto, pavimenti in materiali sofisticati. Sistemi di sospensione sui quali girano monitor, pompe, infusori, defibrillatori, manometri ed altro.
Tubature e cavi flessibili sbucano da pareti, pavimenti o soffitti, per gas, per liquidi, per aspirazione. Ed ancora i sistemi di sicurezza per l’eliminazione dei gas, contro i rischi da correnti elettriche, la regolazione automatica della temperatura ambiente e la sterilizzazione dell’aria, sino ai flussi laminari e agli allarmi antifumo.
Le luci diventano soffuse ed autoregolanti, le porte a chiusura automatica con cellule fotoelettriche e i tavoli operatori, dai tavolacci di inizio secolo, diventano meravigliosi congegni metallici, snodabili per le diverse posizioni del malato, a funzionamento elettrico e telecomandato.
Insomma la distanza con le navi spaziali tende a zero: per l’esplorazione dello spazio-corpo, giù giù verso la cellula e l’infinito del genoma, c’è la stessa tecnologia che per lo spazio-atmosfera, verso la Via Lattea e l’altro infinito.
Lo stesso vale per lo strumentario chirurgico. I ferri, almeno quelli da taglio e da presa, cambiano poco, anzi
parte di essi seguitano ad essere quelli dei libri di Celso. II bisturi, le forbici, le pinze, portano però per lo più nomi di chirurghi illustri dei secoli XVIII e XIX ed inizio XX: Péan, Mikulicz, Kocher, Kelly e poi Mayo, Metzenbaum, Allis, sino a Francesco Durante ed alla sua apprezzatissima pinza chirurgica. Cambiano invece i materiali: leghe sempre più sofisticate, metalli eccellenti, dall’acciaio al tantalio. E compaiono strumenti più complessi, dal gastrostato di inizio secolo per le anastomosi gastrodigiunali dopo resezione antrale, all’angiostato di Dogliotti per l’anastomosi porta-cava che faciliterà tutta la chirurgia dell’ipertensione portale ed a tutti gli altri angiostati per chirurgia vascolare e ferri per cardio o neurochirurgia, importati d’oltreoceano.
Ed evolvono anche i materiali di sutura. Nel 1876 era stato prodotto il catgut e prima ancora il lino e la seta. Nel 1920 compaiono gli aghi atraumatici, ossia ago e filo come tutt’uno, inscindibile ed i fili sintetici di nylon. Ci sarà in quel primo ‘900 un grande fermento alla ricerca di sistemi di sutura meccanica, come le anastomosi intestinali col bottone di Murphy.
Le vere cucitrici automatiche comparvero in Russia negli anni ’60: tecnologia primordiale ma di grande efficacia, come lo fu anche quella degli Sputnik per le esplorazioni spaziali. Subito dopo la ricerca americana dette i suoi frutti, nacquero gli Stapler e la chirurgia viscerale migliorò i propri risultati in maniera significativa. Le suture manuali, quelle con l’ago ed il filo, arretrarono di fronte alle macchine. Non basterà a risollevarne le sorti, la produzione di fili sintetici riassorbibili costituiti da acido di poliglicolico: sono solo un miglioramento tardivo di tecniche in declino. Il futuro, dicono gli esperti, verrà dalla chimica e sarà delle colle.
Con gli anni ’70 si apre la strada delle fibre di vetro e ne consegue uno straordinario sviluppo delle endoscopie. Poco dopo saranno gli ultrasuoni ed i laser ad arricchire
le sale operatorie- Infine, l’ultimo decennio è caratterizzato dalla chirurgia mininvasiva in ogni settore, nella chirurgia addominale, in quella toracica, in quella sottocutanea, in quella delle cavità articolari. È il momento della miniaturizzazione. È la volta della chirurgia endoluminale, in urologia, in chirurgia vascolare e cardiaca, in neurochirurgia. Si apre la strada della robotica, dell’informatica, della realtà virtuale.
La tecnologia diventa momento centrale nel lavoro del chirurgo e condiziona la qualità e lo sviluppo: nascono i chirurghi laparoscopici, i radiologi interventisti, i chirurghi endovascolari e gli endourologi, gli specialisti del laser, gli ecoendoscopisti, gli endoscopisti operativi. Ogni macchina richiede e definisce un proprio esperto, talvolta un nuovo chirurgo.
Ma altri grandi eventi hanno determinato il progresso della chirurgia nel 20° secolo. Prima di tutto gli antibiotici. Fleming scoprì la penicillina negli anni ’20 ma la sua efficacia e diffusione è storicamente legata alla II guerra mondiale. E simultaneamente nel 1922 era stata sintetizzata l’insulina ed avviata la regolazione farmacologica del diabete. Fu nell’insieme, la seconda svolta, dopo Lister e l’antisepsi, nella guerra alle infezioni.
L’altro grande progresso fu la terapia infusionale endovenosa e le emotrasfusioni, dopo la definizione dei gruppi sanguigni. Una grande strada di scoperte, dai derivati del sangue, alla separazione delle sue componenti, al suo recupero intraoperatorio, alla nutrizione parenterale totale.
E ancora il curaro ed i suoi derivati, proprio quello delle frecce mortali delle tribù indiane del Nord America. Saranno la tubocurarina prima e la succinilcolina poi, gli eredi naturali, che apriranno la strada all’anestesia per intubazione, alla baronarcosi, al cosiddetto rilasciamento muscolare, al controllo completo della funzione respiratoria in corso di intervento e di conseguenza, all’accesso chirurgico ideale nelle grandi cavità
toracica e addominale. L’anestesista diventa uno specialista a pieno titolo: per tutta la seconda metà del secolo sarà l’amico inseparabile del chirurgo. Ed assumerà anche altri profili altrettanto pregnanti, come rianimatore e terapista del dolore. Cambia in tal modo anche l’organizzazione del lavoro, o meglio, il percorso assistenziale dell’operato: non più dalla degenza alla sala operatoria e ritorno, nella commozione dei parenti al capezzale, ma dalla sala operatoria ai centri di terapia intensiva e subintensiva, nell’isolamento gelido e tecnologico, dove solo le macchine hanno voce, perché tutto ritorni come prima, presto e bene, nella trepidazione dei parenti bloccati dietro vetrate implacabili e nei corridoi dei passi perduti.
E nel rapporto tra malato, malattia, intervento, ricovero, ospedale, dimissione e convalescenza, tanta acqua è passata durante il 1900 modificando aspettative, offerte e richieste.
Nel 1925, quando il Re d’Italia si operò di ernia, i suoi diari rivelano che restò immobilizzato a letto dieci giorni. L’immobilità era considerata fondamentale. E non solo per l’ernia. Ad esempio, i chirurghi affrontano la prima Guerra mondiale con la generale convinzione che le ferite addominali non dovessero essere operate e che l’infermo dovesse restare immobile. Ci si riferiva alla dottrina di Reclus secondo il quale le piccole perforazioni intestinali guarivano per erniazione della mucosa e quelle grandi per accollamento delle altre anse, favorito dall’immobilità. Bastò quella guerra a smentire Reclus ed a spingere i chirurghi ad operare i poveri peritonitici. Non bastò invece per una riabilitazione più rapida del Re operato e degli altri milioni di erniosi prima e dopo di lui, sino a che non cambiò la filosofia e prevalse il concetto di pronta riabilitazione, di ritorno precoce a casa, di recupero stimolato della piena integrità.
All’inizio del Secolo il malato accedeva controvoglia
al ricovero, l’Ospedale veniva guardato come luogo di sofferenza e di morte. Meglio era curarsi a casa ed anche operarcisi. Solo con gli anni ’60 con le Riforme Ospedaliere e la qualificazione degli Ospedali, la gente acquista la fiducia nel ricovero, vi accede con la speranza di ritrovare la salute, di guarire con la chirurgia. Ed il ricovero e la degenza assumono addirittura un valore taumaturgico. La richiesta diventa di ricovero per ogni necessità, di ricoveri lunghi, di convalescenze tutte in Ospedale.
Un vento nuovo e diverso soffierà solo a fine secolo: la chirurgia sempre più sofisticata e meno invasiva comporta un trauma minore e l’aspirazione degli infermi è di giovarsi con fiducia di tutto il progresso, per avere cure ed interventi a rapida guarigione ed a breve degenza. Cambia perciò la struttura stessa dell’Ospedale: non più tante degenze ma tanti servizi. La gloriosa corsia Sistina dell’Ospedale Santo Spirito in Sassia di Roma, la più antica del mondo, 800 anni di vita celebrati nel 1998, forte di oltre 200 letti, cambia destino e diventa una straordinaria area monumentale per Convegni: tanti letti non servono più. L’Ospedale del Santo Spirito in Sassia costruito nel 1198, a ridosso della Basilica di San Pietro, per soccorrere i pellegrini e che nel massimo della espansione accoglieva sino a 1300 infermi, con l’ultima ristrutturazione del 1998 per far fronte ai bisogni del Giubileo del 2000, dilata i servizi e limita la propria area di degenza a 220 letti.
Nei venti anni a cavallo dell’inizio del XX secolo la chirurgia che sostanzierà i successivi decenni viene quasi tutta pensata, descritta e sperimentata. L’anestesia e l’antisepsi sono state le due condizioni permittenti ma morbilità e mortalità sono ancora troppo alte.
In quell’epoca, i libri di testo erano quelli di Medicina Operatoria di Francesco Occhini e di Durante e Leotta, Scuola romana: descrizioni anatomiche stupende, per la chirurgia degli arti, delle articolazioni ed anche
del tronco ma non dei visceri. La chirurgia toracica ed addominale, cosiddetta maggiore, ha ancora bisogno di decenni per essere sistematizzata. Lo farà negli anni ’40 Uffreduzzi e dopo la sua prematura morte lo completerà Dogliotti, Scuola di Torino, nel 1948 ed è il primo testo italiano di chirurgia completo ed enciclopedico. Trenta anni dopo sarà aggiornato da Angelo Paletto, erede della stessa Scuola.
Ma quale è stata la chirurgia durante il Secolo e quale la sua evoluzione? Si possono individuare tre fasi, separate dalle due guerre mondiali.
La prima fase può essere definita pionieristica ed è direttamente collegata alla seconda metà del secolo XIX: è la chirurgia asettica ed indolore ossia la chirurgia moderna che si misura con i nuovi grandi problemi passando dall’esterno all’interno del corpo umano. Il chirurgo diventa a sua volta internista, affronta la patologia viscerale, strappa ai medici competenze diagnostiche, propone la chirurgia digestiva, dello stomaco e del colon, quella urologica dei reni e della vescica, quella ginecologica e quella cranica per i traumi e non solo.
La chirurgia dello stomaco anche nelle mani di Billroth ha una mortalità alta. A Pèan, che in realtà aveva fatto la prima resezione gastrica per cancro, la paziente era morta subito. Anche Miles, quando propose e pubblicò nel 1910 la resezione addomino-perineale del retto, dovette riportare un’alta mortalità. I grandi clinici chirurghi italiani dell’epoca Durante, D’Antona, Bassini, Bottini, Bruno, Ceccherelli esitano molto di fronte a tante difficoltà e complicanze. Sposano con grande entusiasmo la chirurgia della tiroide, della mammella, dell’ernia, degli arti, delle ossa, del collo, della.faccia, della bocca e per tale via si avventurano nel cranio. Per queste chirurgie ci fu il grande riconoscimento internazionale con l’assegnazione, per tutti, a Kocher del Premio Nobel nel 1909 per la chirurgia della tiroide.
E prima della II guerra mondiale tutta la grande chirurgia viscerale era stata inventata.

Il primo intervento addominale in elezione coronato da successo fu di E. McDowell che nel 1809 asportò un voluminoso tumore ovarico.
Nella seconda metà del secolo XIX la chirurgia viscerale si legò al nome di Theodor Billroth, Clinico chirurgo di Vienna e padre della chirurgia resettiva dello stomaco, che propose la resezione gastrica distale nelle due ben note varianti ricostruttive con o senza esclusione duodenale. La prima resezione pilorica per cancro è probabilmente attribuibile a Pèan nel 1879 con esito sfavorevole. Billroth fu anche il primo ad eseguire la laringectomia totale.
Simultaneamente R. Von Volkman eseguiva le prime escissioni di cancro del retto e nel 1889 McBurney proponeva l’appendicectomia.
Nel 1890 Halsted a Baltimora introdusse, con l’uso dei guanti di gomma, anche il concetto di chirurgia regionale inventando la mastectomia radicale per cancro. Negli stessi anni Young eseguiva la prostatectomia.
Nel nuovo Secolo XX le tappe della chirurgia viscerale sono segnate nel 1906 da Wertheim con l’isterectomia allargata, nel 1910 da Miles con l’amputazione addomino perineale del retto, nel 1913 da Thorek con l’esofagectomia.

La guerra accelerò i tempi per la chirurgia nelle cavità celomatiche. Le suture intestinali e le resezioni viscerali dei feriti divennero uno straordinario laboratorio di progresso negli ospedali militari da campo, le cosiddette Ambulanze di Armata, dislocate sul fronte, comandate da grandi clinici come Giannettasio e Alessandri. Molti di quei feriti morirono ma molti guarirono testimoniando che la chirurgia addominale era possibile.
La seconda fase della chirurgia del XX secolo è quella dei capitani coraggiosi.
Dovunque nel Paese, in Ospedali grandi e piccoli, in condizioni ambientali certamente precarie, tutto quello che era stato descritto cominciò a diventare realtà pratica. Lo testimoniano gli Atti dei Congressi della Società Italiana di Chirurgia nei quali già figurano casistiche importanti di patologia e chirurgia viscerale sullo stomaco, sulle vie biliari, sul colon, non senza dispiaceri quanto a morbilità e mortalità

Analoga era la situazione in tutto il mondo. Hartmann, Chirurgo dell’Hotel Dieu di Parigi, pubblicando nel 1931 per la Masson il suo libro “Chirurgia del retto” riporta l’intera casistica del suo servizio di cinque anni tra il 1919 e il 1923, così sintetizzata: testa e collo 531 operazioni, 29 morti; torace e rachide 512 operazioni, 24 morti; fegato, milza e pancreas 160 operazioni, 17 morti; addome, stomaco ed intestino 1998 operazioni, 148 morti; ano e retto 485 operazioni, 14 morti; vie urinarie 87 operazioni, 8 morti.
Nel complesso 6747 interventi con 307 morti ossia una mortalità del 4,5%.
Ma nel dettaglio le cifre sono più dolorose, se si esamina la sola chirurgia viscerale vera e propria: 19 emicolectomie destre con 5 decessi, 11 resezioni del colon pelvico con 2 decessi, 202 gastroenterostomie posteriori con 30 decessi, 30 gastrostomie con 11 decessi, 16 amputazioni addomino-peritoneali del retto con 7 decessi e 30 amputazioni solo perineali del retto con 4 morti.
Delle 7 Miles decedute 2 morirono per cellulite pelvica, 1 per pielonefrite, 1 di pelviperitonite, 1 di polmonite bilaterale. Non è descritta la causa di morte dei due casi restanti.

Ed in quegli anni si completano le proposte tecniche sugli organi più difficili, il pancreas con Wipple nel 1935 ed il polmone con Graham nello stesso periodo. Ed anche prendono l’avvio gli studi sui trapianti che avevano ottenuto grande riconoscimento col Premio Nobel concesso a Carrel nel 1912. E si affaccia l’ipotesi della chirurgia cardiaca e vascolare con l’embolectomia dell’arteria polmonare proposta da Trendelemburg e realizzata anche a Roma in una notte del 1935 da Valdoni e Stefanini, poco più che trentenni.

La terza fase della Chirurgia del Secolo prende il via nella tragedia della II Guerra Mondiale quando con baronarcosi, emotrasfusioni ed antibiotici tutto diviene possibile. Dilaga la grande chirurgia viscerale ed anche quella del cuore, del polmone, del fegato, della aorta, dei trapianti e di tutte le protesi. Nasce lo slogan “grande taglio, grande chirurgo” o “grande chirurgo, grande taglio” ed ogni manovra sembra possibile e giustificata. La chirurgia dei tumori diventa regionale e radicale. Comincia la straordinaria avventura dei trapianti d’organo. Per tutto ciò, la morbilità conseguente sembra ragionevole e contenuta, l’invalidità, anche permanente ma inevitabile, la mortalità compatibile con la necessità e la speranza.
Sono gli anni delle gastrectomie totali, delle esofagectomie con ricostruzioni cervico-addominali, delle pneumonectomie intrapericardiche, delle pancreasectomie regionali con resezione vascolare, delle proctocolectomie totali, delle nefrectomie allargate, delle pelvectomie radicali, dei trapianti d’organo. La teoria e i risultati tecnici spingono a considerare questi interventi come la sola soluzione possibile soprattutto nel cancro. Le scuole chirurgiche si caratterizzano e competono proprio sulla aggressività e sulla estensione della exeresi. Per almeno 30 anni si avanza solo su questa strada.
Poi l’introduzione della quadrantectomia nel cancro della mammella, il rapido abbandono della mastectomia radicale devastante, aprono un’altra strada, quella della chirurgia ragionata, dell’exeresi più limitata, del rispetto dell’integrità dell’organismo, della invasività contenuta, del recupero delle funzioni organiche, della immagine corporea, della vita di relazione e di quella lavorativa. Ritrovano il loro legittimo ruolo, le gastrectomie subtotali, le resezioni coliche segmentane, le lobectomie polmonari mentre si discute e si studiano le linfoadenectomie e le terapie integrate.
La Tecnologia diventa, per questo nuovo credo, un potente motore. Di ogni organo la Chirurgia si limita ad asportare solo la parte malata, tentando di reinstaurare una sufficiente funzione e si cerca la strada per completare il risultato chirurgico con altre terapie. La riabilitazione diventa un momento fondamentale anche in chirurgia. Sorge la Chirurgia mininvasiva, quella con le sonde, quella del massimo rispetto del corpo. Tramonta l’ipotesi del “grande chirurgo, grande taglio”.
Su questo scenario si chiude il meraviglioso XX secolo.
La prospettiva è quella di un futuro ancora più straordinario per il quale si possono formulare tante stravaganti ed immaginifiche ipotesi ed una sola certezza: succederanno cose bellissime per la storia dell’uomo e per la sua salute. Per quanto riguarda i chirurghi in generale, sorge un grande dubbio, se cioè nello straordinario sviluppo tecnologico lo strapotere delle macchine non prevarrà sull’uomo e se insomma dopo tanti millenni il medico non debba lasciare il centro del campo diagnostico-terapeutico alla macchina, rassegnandosi a diventarne non l’utilizzatore ma l’assistente.

“CENTO ANNI DI CHIRURGIA Storia e cronache della Chirurgia Italiana del XX secolo”

 

PRESENTAZIONE


Questo libro vuole contribuire alla conoscenza della Storia della Chirurgici Italiana nel XX Secolo, un secolo di meraviglie, nel quale il progresso delle Scienze ha sconvolto, travolto e trascinato anche la Chirurgia da un faticoso e laborioso passato verso un futuro certamente fantastico.
Il libro è scritto a due mani perché la sua testimonianza abbia un più vasto spessore: quello di chi, col cuore e con l’impegno quotidiano, questa vicenda l’ha vissuta dall’interno e quello di chi, con attenzione e con passione, l’ha seguita professionalmente dall’esterno. Dunque, un chirurgo che ha percorso la seconda metà di questo Secolo ed un giornalista che di quel percorso, nello stesso periodo, ha raccontato tutti i passaggi.
Scrivere la storia chirurgica di questo meraviglioso XX Secolo è stato un atto di gioia e di curiosità. Rivivere gli eventi, gli uomini, i luoghi, incontrare coloro che c’erano da protagonisti o da spettatori, ricercare nelle memorie sepolte emozioni sempre vive, è stata una gran felicità.
In cento lunghi anni, in cento Città grandi e piccole, in mille Ospedali, la storia e la cronaca si sono inseguite come in un dedalo: percorrerne i sentieri è risultato sempre parziale, per quanti sforzi di completezza si siano fatti. Così tante
notizie si sono riuscite a trovare, ma molte altre sono state omesse non per scelta, ma per necessità o meglio per l’impossibilità di fare di più.
La vicenda complessiva, la Storia della Chirurgici Italiana di questo Secolo, è però di per sé più forte delle omissioni e finisce col prevalere, delineando un proprio alto profilo, quello di uno straordinario progresso, scientifico, organizzativo, culturale e professionale, in un grande Paese moderno.
Lo scritto è diviso in quattro parti.
La prima parte delinea in maniera sintetica la nascita della Chirurgia moderna e la sua evoluzione in Italia durante il XX Secolo, tra grandi scoperte e straordinari risultati.
La seconda è dedicata alle Scuole chirurgiche cresciute tra Università e Ospedali, nelle grandi Città e nelle regioni italiane, raccogliendo e portando avanti il testimone di storie secolari e millenarie che hanno fatto del nostro Paese un fulcro di civiltà anche medica.
La terza parte è cronaca sociale, di quando la chirurgia è uscita dal tempio ed è scesa tra la gente per misurare la propria dimensione con la storia vera: eventi, avvenimenti, uomini e luoghi nei quali e con i quali la Chirurgia Italiana di questo Secolo si è incontrata traducendo, nell’episodico e nel comprensibile, la propria complessa realtà.
La quarta è dedicata alla Società Italiana di Chirurgia che nell’intero Secolo è stata il filo conduttore ed il riferimento ineludibile di tutta l’attività chirurgica in Italia e di tutti coloro che ad essa hanno legato la propria vita.
Mancano altre parti che altri scriveranno, prima tra tutte, quella della critica degli eventi, che solo da una distanza maggiore può assumere un giusto profilo.
Nel volume, con la cronaca, è stato possibile solo esprimere l’entusiasmo che da vicino questa storia positiva ha prodotto in noi e in altri come noi, nella felice convinzione di essere stati partecipi di una grande e meravigliosa avventura.

Roma, ottobre 2000

Gli Autori